Max Ernst, il più surrealista dei surrealisti

5 Novembre 2022

“Non invano si suppone che Max Ernst sia nato a Colonia, su una delle spire di quel serpente liquido che si compiace come nessun altro di eccitare la spada, il Reno, in cui scorgere ammalianti fanciulle dagli infiniti capelli biondi pettinarsi, quando hai vent’anni”, così André Breton inizia La vita leggendaria di Max Ernst (1942). Secondo il fondatore del Surrealismo non si può raccontare la vita di un surrealista come si fa con chiunque altro, “vincolata alla banale trascrizione delle sue gesta”, Ernst nasce tra le spire di un mitico serpente liquido.

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Oedipus Rex, 1922.

Bisogna affrontare in questo modo un artista surrealista, tanto più l’artista surrealista per eccellenza – checché ne dica Salvador Dalì e nonostante i litigi fino all’espulsione dal gruppo da parte dello stesso Breton. È ormai una leggenda l’arrivo della cassa con i primi collage, 1921, che saranno esposti alla galleria Au Sans Pareil, dando il via alla ricerca di una teoria che diventi quella del passaggio dal Dadaismo al Surrealismo. Con quali ingredienti e tonalità? Lo si coglie subito all’entrata della mostra a Palazzo Reale: già sulla soglia d’ingresso ci si presenta di fronte Oedipus Rex. È uno dei capolavori dell’anno seguente, 1922, quando Ernst ha già capito dove andare: il collage non è una tecnica, è una forma del pensiero, l’incontro di elementi incongrui che creano legami di senso ed effetti di meraviglia, di senso “metafisico”, come ha appreso da de Chirico, e di meraviglia trasfigurativa del reale, cioè surreale, “convulsiva”, secondo la formula di Breton.

Ovvero, riprendendo la citazione da Lautréamont che ripeteranno praticamente tutti i surrealisti, come l’incontro casuale di una macchina da cucire e di un ombrello su un tavolo di anatomia. E dunque: una mano spunta da una finestra – motivo, quello della finestra, che si incontrerà nelle sale come leitmotiv dell’allestimento con begli effetti di visione trasversale – che tiene tra le dita una noce, trapassata quest’ultima da una freccia e le dita da uno strano strumento di metallo; davanti ci sono le teste di due animali, i genitori, mentre una mongolfiera si libra nel cielo sopra un muro. Psicanalisi e enigma, non solo per l’individuo ma anche per l’arte: l’oggetto artistico è frutto di un incontro che ne determina il destino e al tempo stesso resta, deve restare, onirico, enigmatico.

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Gli uomini non ne sapranno nulla, 1923 .

Entriamo dunque con questo spirito nella mostra e nel mondo di Ernst, così vario in realtà da aver messo a disagio a lungo i critici e il mercato, eppure così coerente e conseguente da non aver fatto esitare un attimo l’artista sulla sua strada. La varietà non piace al mercato, eppure non è segno di grande creatività? È la ragione stessa del tardo riconoscimento arrivato a Ernst dopo decenni in cui, pur esponendo ed essendo già famoso, non vendeva un quadro. Si veda la sua autobiografia, peraltro appena pubblicata dall’editore Abscondita, Note per una biografia – scritta in terza persona – con tutte le illustrazioni dell’originale, parte delle quali troviamo qui in mostra. E lo dice a chiare lettere il suo maggiore studioso, Werner Spies: aveva cambiato troppi “stili”, e poi non era un “vero” pittore.

Perché insisteva tanto nel parlare di “oltre la pittura” – come intitola il suo testo più importante, riportato anche in catalogo – e nel negare la figura dell’autore e del genio? L’esatto contrario di Salvador Dalì, in realtà ultimo arrivato nel gruppo, ma che proprio con quel suo atteggiamento attirava un’attenzione che nessun altro riscuoteva. A volte Ernst era affascinante al massimo, con le sue invenzioni come gli accostamenti nei collage, incongrui e misteriosi ma suggestivi e iconici, specie all’inizio con gli indimenticabili Elefante Célèbes o Santa Cecilia o appunto Edipo Re, e anche con i frottage e grattage più elaborati, come la Toilette della Sposa e gli incredibili paesaggi dell’Europa dopo la pioggia. Ma poi diventava sconcertante con collage indecifrabili, frottage apparentemente facili e casuali, uccelli moltiplicati, figure scarabocchiate, paesaggi abbozzati, “mosche non euclidee”... Non andava a suo scapito quel ribadire ad ogni occasione che lui non era che uno “spettatore” del venire alla luce dell’immagine?

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La festa a Seillans, 1964.

Ma Ernst aveva compreso che ad essere in gioco era un vero e proprio cambio di passo, di sensibilità, un pensiero visivo e un sentire inediti, che non potevano e non possono essere ridotti all’immaginazione e al simbolismo, alla malinconia e all’erotismo. Bisognava porsi “oltre”, “al di là”, appunto. Dada aveva segnato il punto di passaggio, la rimessa in discussione di ogni fondamento presunto e la riconsiderazione del rapporto tra gli opposti e di nozioni come quelle di caso e di creatività, ma occorreva attuare una vera e propria “transvalutazione”, come pensatori quali Schopenhauer, Nietzsche e Freud avevano indicato, aggiornata e realizzata in termini ulteriormente contemporanei.

Bisogna diventare visionari, nel senso della attivazione-coltivazione-tensione-eccitamento delle facoltà creative. Questo sono le tecniche reinventate da Ernst: strategie, non rinunce, attivazioni, non negazioni. Il ribaltamento dell’autore in “spettatore” significa liberazione dall’accecamento, come la chiama nelle Note: da un lato diventare veggente, dall’altro, e insieme, coltivare “il miracolo della trasfigurazione totale degli esseri e degli oggetti”.

Non siamo più nell’Ottocento né prima ancora, il sentimento, l’immaginazione, l’irrazionale non sono più né romantici né espressivi. L’arte visiva, come la poesia in ambito verbale – non si sottolineerà mai abbastanza il ruolo della poesia nella prima metà del secolo scorso, quando molti artisti visivi erano anche poeti, Ernst compreso, o cercavano in modo privilegiato il dialogo con poeti –, vuole letteralmente mettere insieme o scoprire nuove immagini che restituiscano l’irriducibilità al noto, al presunto. Ernst ha segnato più di ogni altro questo passaggio.

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Ph Lorenzo Palmieri.

Lo si riscontra ad ogni passo nella mostra. Curata da Martina Mazzotta e Jürgen Pech, è suddivisa secondo quattro periodi che scandiscono la biografia dell’artista, di pari passo con la storia del secolo che ha percorso quasi per intero, a loro volta suddivisi in nove sale tematiche. Oltre 400 tra opere, dipinti, sculture, disegni, collages, gioielli, libri illustrati e fotografie, restituiscono l’attività e la personalità sfaccettate di Ernst. Fin dalle prime sale mi ha preso l’emozione di vedere tanti materiali rari che avevo appena raccolto – mi scuserà l’autopubblicità – nel volume curato insieme a Andrea Zucchinali (Max Ernst, Quodlibet, Macerata 2021: vedi la recensione di Aurelio Andrighetto qui), poi l’esplosione delle altre sale, davvero piene di materiali, fantasmagoriche.

Riga, Ernst

Si sente, in questa meraviglia avvolgente, la mancanza di qualche celebre capolavoro che ci piacerebbe vedere in circostanze del genere, ma si sa come vanno queste cose, e del resto non mancano certo grandi opere per ogni periodo. Non staremo a segnalarle tutte, ma lo diciamo non piaggeria ma perché, intelligentemente e in maniera originale, la mostra è proprio strutturata intorno ad esse. Lo si vede bene nel pregevole e ponderoso catalogo (Electa editore). Dopo i saggi dei due curatori, quello di Mazzotta incentrato sulla memoria, che non manca di chiamare in causa Aby Warburg, e quello di Pech sulla “patafisica”, in realtà sulla scrittura inventata dell’ultimo periodo di Ernst, ma di fatto già in altra forma fin dall’inizio, ogni sezione, che ripercorre le divisioni della mostra, è incentrata su una o più opere-chiave, introdotta da una dettagliata analisi.

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Ph Lorenzo Palmieri.

Così Pietà o La Rivoluzione la notte (1923), enigmatica unione, come indica il titolo, di pietà e rivoluzione; Gli uomini non ne sapranno nulla (1923), che introduce il simbolismo alchemico; l’incredibile insieme di tavole della Storia naturale (1926), raccolta dei primi frottage, esposti per intero; i fantasmagorici romanzi-collage, a partire da Una settimana di bontà (1933); L’angelo del focolare (1937), mostruoso come solo l’inconscio può dire; Epifania (1940), grattage dalle figure pietrificate; Progetto per un monumento a Leonardo da Vinci (1957), rimando alla necessità di interessarsi di tutto; l’esilarante Un tessuto di menzogne (1959), che svela la strategia appunto della menzogna, o, come mi pare meglio detto in altra circostanza, della “finta”, solo attraverso la quale si può far emergere la verità; Maximiliana (1964), il libro dalla scrittura indecifrabile e segreta – e “illegale”, fuori dalla legge, come indica il sottotitolo – realizzato in collaborazione con l’inventore del lettrismo Iliazd; infine La Festa a Seillans (1964), che a suo modo forse riassume tutto davvero in una festa.

Non che in mostra manchino altri quadri celeberrimi come Il bacio (1927), groviglio di linee che diventano forme; Monumento agli uccelli (1927), centrale per la serie degli uccelli, che sfocia nell’altra serie con Loplop, l’uccello in cui Ernst si identificava; alcune Foreste e Città e paesaggi desertici dell’Arizona; un bozzetto per l’Antipapa (1941) e davvero molto altro. Ma, lo ripeto, occorre sprofondarsi nella varietà dei materiali espositi. Quante scoperte e suggestioni si raccolgono, anche intuitivamente per ciascuno, tanto Ernst è sempre in fibrillazione creativa. Piccoli disegni si rivelano tanto affascinanti quanto grandi tele, fotografie – forse che il ritratto di Man Ray non è una grande opera? – ce ne rivelano aspetti e ci fanno entrare nella vita della persona e delle sue frequentazioni, e i meravigliosi libri illustrati, alcuni dei quali introvabili e non esposti da decenni, ci mostrano una intelligenza sempre attiva e un percorso parallelo, attraverso scelte e rimandi, a quello delle opere. Se ne uscirà con una gran voglia di pensare, dico io, di pensare anche noi. Un grande artista.

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Pietà o La rivoluzione la notte,1923.

Segnaliamo infine anche un lavoro di complemento che la casa editrice ha messo in atto con la pubblicazione di due voluminosi libri di Paola Dècina Lombardi Surrealismo 1919-1969. Ribellione e immaginazione, probabilmente la più completa storia del movimento surrealista, e la bella antologia sul tema che forse nessun altro movimento artistico ha reso così affascinante La donna, la libertà, l’amore.

Leggi anche

Roberto Lebel, Conversazione con Max Ernst (1969)
Aurelio Andrighetto, Max Ernst: collage, testi e visioni

Nell'ultima opera, L'angelo del focolare, 1937.

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