Nicholas Winding Refn. Drive
La leggenda vuole che sia stato Ryan Gosling a cercare Nicholas Winding Refn, dice lui: “come Steve McQueen scelse Peter Yates (per Bullit NdR), Ryan ha scelto me”.
Perché questo film è già leggenda, è già mito. Del resto da uno che a ventiquattro anni esordisce con un film come Pusher, che nel giro di dieci anni è diventato una trilogia di culto, e che nel 2009 dirige due dei film più perturbanti del panorama cinematografico mondiale come Valhalla Rising e Bronson, non ci si aspetta niente di meno della leggenda e del mito. Quindi leggenda vuole che Gosling, letto il libro di James Sallis, abbia voluto che fosse Refn a dirigere il film che lo avrebbe visto immenso protagonista.
E quanto c’ha visto lungo è ancora difficile quantificare. Sicuramente, molto.
Hossein Amini ha buttato giù una sceneggiatura asciutta, perfettamente calibrata, mai sbavata, mai compiaciuta, sempre e solo funzionale alla regia di Refn, sempre incalzante, capace di avvincere fino all’ultimo minuto. Sull’ottima struttura di Amini, Refn scivola con Gosling come un pattinatore solitario in uno stadio da hockey vuoto.
Ed è solo silenzio, notte, solitudine. E una macchina.
Ora, qui Refn paga un giusto e significativo debito nei confronti di due illustri predecessori ai quali deve molto. Non tutto, ma quasi. L’immenso Friedkin di To Live and Die in L.A. (1985) e l’altrettanto grande Mann di Collateral (2004). Da loro non si può prescindere per parlare di questo film.