Ripensare l'Europa

12 Giugno 2023

Quale Europa uscirà dalle urne il prossimo 9 giugno 2024? Quale sarà il rapporto di forza tra progressisti e conservatori? La famiglia politica del Partito popolare europeo che fisionomia avrà?

Nella svolta possibile verso la destra estrema, forse ciò che si chiarirà è la prima messa a terra di un lungo percorso che sta alle origini stesse di come abbiamo vissuto, e soprattutto a che cosa abbiamo associato, l’«idea di Europa» nel corso del «secolo breve»: negli anni ’30 da una parte, negli anni ’80 dall’altra.

Per comprenderlo dobbiamo affrontare un percorso alla rovescia: muovere da ciò che è il nostro oggi; poi risalire verso il fondamento del dettato culturale di «Europa». Quel fondamento culturale si definisce intorno nei primi anni’30 e ruota intorno alla questione di come trovare una risposta alla grande crisi.

Ma cominciamo dalla fine, ovvero da noi qui e ora. Memoria, diritti, libertà, riconoscimento delle vittime delle guerre, dei regimi totalitari e del colonialismo. A differenza del sogno americano che parla di futuro, il sogno europeo, ci ha ricordato di recente Aleida Assmann, per spingersi avanti deve tenere la testa volta al «passato da non ripetere».

In questo passato da non ripetere, insiste Aleida Assmann, stanno molte cose che non abbiamo preso in carica che nel passato anche recente abbiamo evitato di misurare.

In quel «passato da non ripetere», infatti, non ci sono solo gli atti dei totalitarismi. Ci sono, riprendendo le suggestioni che Tony Judt proponeva nelle pagine finali del suo Postwar, anche le decisioni sui valori e sugli atti da compiere che abbiamo evitato di trasformare in confronto politico interno.

«Pensare Europa» a un certo punto è diventato riscoprire l’«Europa cristiana». Quel processo si avvia negli anni ’80. E lo descrive Michael Ignatieff in un testo dal titolo L’identità europea (esce su “Lettera Internazionale” nell’autunno 1987) e che riletto oggi ci dice molte cose, sulla genesi del ripiegamento sovranista, sulla paura che noi europei abbiamo di diventare periferia, ovvero sul senso profondo della crisi oggi dell’idea di Europa così come abbiamo pensato di raccontarcela tra gli anni ’70 e gli anni ’80 quando Europa si presentava come una scommessa possibile di futuro aperto.

Fenomeno che ha varie cause. L’ossessione per le origini, indotta dai processi di nuova immigrazione svolge un ruolo di tutto rispetto. Ma non trascurerei anche fattori apparentemente estranei. Tra questi la sconfitta di quell’esperienza di pensiero e di suggestione politica che ha connesso pensiero religioso e utopia, un’alchimia culturale che si trova messa in un angolo vinta dal ritorno potente del determinismo geografico che è connesso con l’etnicizzazione delle lotte politiche.

In altre parole: l’espressione «Europa cristiana» non rinvia a una dimensione religiosa o confessionale dei suoi abitanti, ovvero non registra sociologicamente un fatto. Essa allude a un progetto cui sono essenziali la geografia storica e la geografia umana di quello spazio. Ovvero la storia dell’insediamento e la storia dei conflitti per il suo dominio.

Così «radici giudaico–cristiane dell’Europa» designa (e descrive) il profilo culturale dell’Europa continentale. Termine che, prima ancora delle molte cose che tace, o che «inventa» prima ancora di quelle di cui non è in grado di rendere conto è una spia significativa per l’ansia che tenta di placare nonché per il «vuoto che avverte». Come ha affermato esplicitamente lo storico Pierre Chaunu nel 1998: “Il malessere dell’Europa odierna è la mancanza di un nemico identificabile”. Quella espressione dunque corrisponde a un «bisogno politico». 

Tre mi sembrano gli aspetti che stanno dietro alla fortuna dell’espressione «Europa cristiana» e che richiamo brevemente all’attenzione: l’identità come spazio, dove il tema è la coscienza geografica; l’identità giuridica, il cui «nocciolo duro» è costituito dal rapporto tra eguaglianza e cittadinanza; l’identità culturale, ovvero la formazione della coscienza storica delle origini. Affronto sinteticamente i primi due aspetti per dilungarmi, invece, sul terzo.

Identità spaziale

Il Mediterraneo è stato nel tempo tre cose: un lago chiuso; un sistema di regioni segmentate e non comunicanti; una piazza che obbliga a coabitare e a confrontarsi. È stato un sistema imperiale complesso espresso da un solo comando (la stagione dell’Impero romano); è stato poi un luogo attraversato da conflitti con limiti e frontiere. Un mare «pericoloso» all’interno del quale occorreva avere approdi sicuri entro cui nascondersi, rifugiarsi e chiedere soccorso (gran parte delle vicende tra ‘500 e ‘700 si racchiudono in questa scena dove domina la «guerra di corsa» e la figura del pirata o del bandito marittimo popola gli stretti passaggi obbligati; un sistema dove protagoniste sono le isole, i luoghi di nascondiglio per fuori legge e per mercanti); infine il sistema viario della conquista dell’Europa nella stagione della decadenza del mondo arabo e poi dell’Impero ottomano.

Nel secolo che si apre con i Lumi e che segna il fascino per l’Oriente esotico, Mediterraneo è un luogo risolto del dominio politico ed economico. Il fenomeno del colonialismo moderno-contemporaneo ne sancisce le forme e le modalità almeno fino agli anni ‘70. Il Mediterraneo cambia decisamente nel corso degli anni ’70 e ’80 del Novecento. Da allora torna ad essere pensato come una marca di frontiera. Meglio: un muro.

Identità giuridica

Nel passaggio simbolico dall’Ancien régime alla moderna libertà – ovvero nel nodo segnato dalla Rivoluzione francese e dal lessico inaugurato e varato dalla Convenzione – il paradigma della cittadinanza presenta alcune sue intime contraddizioni su cui ha richiamato l’attenzione Hannah Arendt nella terza parte del suo Origini del totalitarismo, quella dedicata al tema del diritto internazionale richiamando la dimensione dello «straniero» o del «profugo». Tuttavia, la condizione di straniero in cui i processi di inclusione si condensano in quelli di nazionalizzazione e di assorbimento non è da sola capace di esaurire l’intero arco di questioni. Perché inclusione e nazionalizzazione si possano stabilire – e dunque si possa produrre cittadinanza – non è sufficiente definire una pratica sociale o riconoscere un diritto. La cittadinanza si fonda su un percorso in cui preliminare diviene la rigenerazione (come si dice in gergo settecentesco) che presume, per il «candidato all’inclusione», la rottura con il proprio passato.

La sfida è dunque la definizione di una realtà multiculturale, avendo come disegno la possibilità di produrre una condizione non solo di coabitazione, ma di crescita nel tempo fondata sull’ibridazione e dunque soprattutto interculturale perché i frutti puri impazziscono. Questione completamente silenziata nell’agenda culturale di questo nostro tempo. Meglio: diventata tabù.

Identità culturale

Si deve a Lucien Febvre se noi oggi possiamo ragionevolmente discutere di una storia dell’idea di Europa in relazione a una storia della sensibilità, un testo che è una risposta alle riflessioni che a metà degli anni ’30  aveva svolto sull’Europa come tema storiografico.

Osserva Bloch che l'Europa si fonda su una nozione di panico cui risponde con l’idea di «mondo chiuso». Creazione dell’alto Medioevo, aggiunge Bloch, perché intorno a quei secoli si delineano tre movimenti (invasioni germaniche; invasioni islamiche, infine invasioni scandinave) che definiscono anche i contenuti che assumiamo per antonomasia europei. Per Bloch il problema è definito dalla dimensione e dalle sensazioni che un abitante di una certa porzione di geospazio aveva in relazione alla propria domesticità o confidenza con il territorio in cui si trovava a muoversi. In altre parole: il problema dell’essere europeo, del riconoscersi come tale, non è una procedura acquisitiva, bensì una ascrittiva. Si è europei non in base a una procedura culturale o a un processo di possibilità di inserimento dentro un codice culturale e normativo aperto, ma per adesione a un quadro dato.

Febvre nel primo corso che tiene alla Sorbonne nell’anno accademico 1944-1945 in una Parigi appena liberata e tornata ad essere libera, riprende la sua riflessione sull’Europa in un momento in cui il problema è soprattutto individuare alcune parole-chiave che esprimano il senso della possibile ricostruzione coabitativa di un continente lacerato da una sanguinosa guerra ideologica. Febvre insiste su questo aspetto di identità fondato sull’idea di civiltà in cui il cristianesimo esprime un elemento essenziale che rinvia alla necessità di un baricentro. Per Febvre questo baricentro è rappresentato dalla Chiesa. Il cristianesimo è in questo senso un surrogato, ma al tempo stesso funziona da mito politico, autentico collante che definisce una linea di demarcazione.

Il mito europeo a cui allude Febvre è quello di un’Europa compatta, non ibridata o non imbastardita e dunque per questo ritenuta autentica. Un profilo geostorico caratterizzato da uno spazio definito dove è interdetta la soglia di accoglienza e in cui la dimensione dell’Europa è destinata a sopravanzare quella della nazione.

Questa nozione di Europa tuttavia non è una diagnosi, è la presa in carico di un problema che Bloch ricava dagli atti di un convegno internazionale promosso dall’Accademia d’Italia nel novembre 1932 dedicato all’Europa in cui emergono le linee culturali di una cultura conservatrice dell’idea di Europa e che ancora sono tornate a fondare l’immaginario politico di questo nostro tempo. E dunque a presentarsi come un’offerta politica a fronte di una domanda che si origina dallo smarrimento.

Quando Bloch commenta i testi di quel Convegno in realtà analizza quelle che egli coglie come caratteristiche ascrittive dell’idea di Europa, o meglio di una idea di civiltà. 

Sono i temi che il geografo Giotto Dainelli fissa nella sua relazione di apertura intorno alla questione dell’ Europa come unità geografica in cui la questione degli intellettuali e della loro decadenza si lega direttamente a un drastico ridimensionamento della funzione civilizzatrice dell’Europa come sostiene il Conte Gonzague de Reynold e in cui non è improprio avvertire l’eco dell’antiamericanismo profondo che attraversa la cultura europeo-continentale negli anni tra le due guerre e soprattutto successivamente alla “grande depressione”.

In discussione è così la geografia e il suo uso pubblico come visualizzazione della propria identità storica. In forma diretta nel corso del convegno lo afferma Ernesto Giménez Caballero per il quale l’Europa è tale solo all’interno del paradigma cattolico, altrimenti non è. Oppure l’orientalista Giuseppe Tucci, che dedica la sua relazione al tema “Oriente e Occidente” e per il quale il tema del fascino delle culture orientali e dell’orientalismo è il sintomo di una sostanziale rinuncia dell’Europa alla sua vocazione imperiale.

Ma è soprattutto Francesco Coppola, esponente di punta del nazionalismo italiano, a esprimere la posizione più compiuta intorno all’immagine e all’idea di Europa quale per molti aspetti essa continuerà a mantenersi nella riflessione culturale anche di coloro che si dichiareranno europeisti in questo secondo dopoguerra

Secondo Coppola la crisi in cui versa l’Europa ha un carattere strutturale e non è conseguenza del tracollo economico. È la condizione di perdita della supremazia che definisce le modalità della crisi europea. Una condizione in cui l’Europa aveva rischiato di vivere nel conflitto che l’aveva opposta all’Islam ma che a Lepanto era stata definitivamente stroncata. Sono gli Stati Uniti da una parte e la realtà della Russia sovietica dall’altra, ovvero ciò che Coppola denomina come Antieuropa, a porre la crisi dell’Europa.

Stati Uniti, Russia sovietica e rivolta delle periferie contro le metropoli coloniali, soprattutto nelle aree a prevalente presenza islamica, sono i sintomi più evidenti della natura di questa crisi secondo Coppola, per il quale la difesa della civiltà europea minacciata sta nel riconoscere la tavola dei valori sostenuti dal fascismo. Quella tavola di valori, fondata su confini e sulla missione civilizzatrice dell’Europa, si consegna sostanzialmente immutata alla cultura europeista del secondo dopoguerra.

La sfida di questo nostro tempo è riaprire quel laboratorio e rifare daccapo l'Europa, costruendo un nuovo vocabolario in cui la sfida del futuro è non vivere di nostalgia, e forse, per riprendere le parole da cui siamo partiti, tenere la testa volta al «passato da non ripetere».

Quando pensiamo che il nostro possibile futuro consiste preliminarmente nel tenere la testa volta al «passato da non ripetere», forse sarà bene avere chiaro che quel «passato da non ripetere» non è solo quello dei nostri nonni (per la generazione Z quello dei loro bisnonni), ma quello di ora. O ancora meglio la macchina mitologica che a fine millennio ci ha fatto pensare di essere finalmente oltre quel «passato da non ripetere»., mentre per certi aspetti ci eravamo – e ci siamo – ancora dentro.

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