Pugni chiusi, risate, abbracci

2 Settembre 2014

Sette anni fa il segretario piangeva. Piero Fassino, arrivato alle fine delle 27 cartelle del suo discorso, era al suo ultimo comizio da leader del partito. Erano commossi anche i dirigenti politici alle sue spalle. Lacrime pure tra i militanti, in totale circa 5omila ad ascoltare sotto la pioggia, sul prato del parco Nord di Bologna. Era il 16 settembre 2007, un cielo grigio, dopo giorni torridi. Sotto il palco si vedeva ancora qualche bandiera rossa.

 

Fassino passava il testimone, neanche un mese dopo ci sarebbero state le primarie che avrebbero eletto Veltroni primo segretario del Pd. Il giorno dopo il direttore dell'Unità, Antonio Padellaro, elogiava il segretario nel suo editoriale intitolato «la forza di Piero». Era stata l’ultima celebrazione di un partito che allora si chiamava Ds e che da lì a poche settimane si sarebbe sciolto. La fine di una storia: la cerimonia conclusiva dell'ultima festa nazionale dell'Unità.

 

Sette anni dopo la festa dell’Unità risorge. Riportata in vita da Matteo Renzi, dopo un purgatorio di sei edizioni come Festa Democratica. «Chi è quel pazzo che cambierebbe il nome alla Nutella?», ripeteva nel 2007 il tesoriere dei Ds Ugo Sposetti, mentre si aggirava arcigno tra gli stand. «Dobbiamo tutelare un brand: dobbiamo tornare a chiamare le nostre feste, feste dell'Unità», ha detto nel corso di una recente direzione nazionale del Pd, Matteo Renzi.

 

Rinnovatori e apparato tutti d’accordo. La nuova vita comincerà proprio da Bologna. Sarà la stessa cosa? Che cos'è cambiato in tutto questo tempo? Di sicuro non ci sarà il comizio finale. Negli ultimi anni il rito è stato sostituito da una più comoda intervista al segretario. Fassino ora fa un altro mestiere, sindaco di Torino e presidente dell'Anci, i professionisti del retroscenismo lo danno addirittura aspirante al Quirinale. Veltroni scrive libri e dirige documentari.

 

 

Trova le differenze 

 

Nell'estate del 2007 la politica si divideva su temi che oggi appaiono lunari: c'era un «allarme sicurezza», con i cosiddetti «sindaci sceriffi» di centrosinistra alle prese con il «pericolo lavavetri»; i ministri del governo Prodi andavano alle manifestazioni contro il governo Prodi; Fioroni (ve lo ricordate Fioroni?) si schierava contro il Pd nel Pse. La crisi economica era a un passo, nessuno sembrava curarsene, nessuno poteva sapere. Al parco Nord c'era lo spazio per gli stand di due quotidiani di partito: L'Unità, ovviamente, che aveva persino una miniredazione di volontari, e Europa, con le copie distribuite da hostess di un agenzia interinale. Quest'anno il quotidiano di partito sar.

 

La star indiscussa della festa era una sola: Massimo D'Alema. L'allora ministro degli Esteri era il più acclamato dai militanti del partito. Ascoltato in religioso silenzio e applaudito con ineguagliato fervore. Si aggiravano senza grosso seguito invece i trentenni come Federica Mogherini e Andrea Orlando. La prima era vice responsabile esteri della segreteria di Fassino, il secondo si occupava dell'organizzazione del partito. Mogherini rispondeva paziente, nell'afa pomeridiana, continuamente interrotta dagli annunci di servizio dei compagni dagli altoparlanti, a domande sulle imminenti primarie tra Obama e Hillary.

 

Prudentemente non si schierava tra i due. Ne discuteva con il responsabile esteri della Margherita di Rutelli, Lapo Pistelli, ora suo sottosegretario (in ascesa) al ministero degli Esteri. Orlando, ancora lontano dal ministero della Giustizia, partecipava a dibattiti semideserti con oscuri esponenti dello Sdi sul futuro del socialismo europeo. Sempre nell'assolato pomeriggio, negli orari riservati agli eventi di secondo piano. La prima fila dei dibattiti serali era occupata dai cosiddetti big: Rutelli, Bindi, Cofferati, Marini, Veltroni, Casini. Nessuno di loro sarà in prima fila quest'anno.

 

 

Il primo V-Day e il presidente della provincia di Firenze

 

Alcune storie politiche finivano, altre debuttavano. Negli stessi giorni, nella stessa città. Sabato 8 settembre Piazza Maggiore era stata occupata dal primo Vaffa Day di Beppe Grillo. In qualche modo una data storica: la piazza di Bologna, di solito monopolio della sinistra veniva occupata da qualcosa di indecifrabile. È l'inizio di una scalata: la settimana successiva Beppe Grillo terrà uno spettacolo applauditissimo alla Festa dell'Unità di Milano, nel 2013 si prenderà Piazza San Giovanni a Roma. Il giorno dopo il ministro per lo sviluppo economico Pierluigi Bersani commentava da Cernobbio: «Se c'è la febbre non si può sempre pensare o dire che il termometro è rotto». La fine è nota: nel 2013 il partito di Grillo avrebbe preso gli stessi voti (qualcuno in più) del partito di Bersani.

 

Eppure nel centrosinistra c'era anche qualche politico particolarmente attento ai nuovi movimenti. Per esempio, il 32enne presidente della provincia di Firenze, Matteo Renzi, in quei giorni dichiarava ai quotidiani locali: «Grillo dimostra di saper gestire la rete come nessun altro. Sui contenuti, talvolta sfiora il grossolano. Ma è significativo nelle forme che usa, nelle modalità. Ha capito meglio di tanti altri che i partiti vecchio stile non hanno alcun futuro». Il giovane esponente della Margherita non si era fatto vedere a Bologna nel 2007. In fondo non era la festa del suo partito.

 

Quello di allora era un Renzi prudente: gli avevano chiesto di fare il capolista nel suo collegio, per le primarie a sostegno di Veltroni, e lui si era tirato indietro. Un altro Renzi? No, lo stesso. Era impegnato a organizzare una sua prima Leopolda: una due giorni sulla scuola, l'aveva chiamata «La stazione delle idee». La Leopolda in cui fu coniata la rottamazione arriverà solo nel 2010.

 

In quei giorni il giovane presidente della provincia avrà preso appunti seguendo il dibattito sulle riforme. A fine agosto Veltroni pubblicava su L'Unità un «Decalogo per cambiare questa politica in crisi». Primo punto: «superare l'attuale bicameralismo perfetto, assegnando alla Camera la titolarità dell'indirizzo politico, della fiducia al governo e della funzione legislativa e facendo del Senato la sede della collaborazione tra lo Stato e le autonomie locali». Secondo: «operare una drastica riduzione del numero dei parlamentari: 470 deputati e 100 senatori». Gli faceva da controcanto il ministro per le riforme del Governo Prodi, Vannino Chiti: proponeva la sua “bozza”: 400 deputati e 200 senatori. Suona familiare? Siamo sempre allo stesso punto? No, in sette anni le cose cambiano. Lo si può chiedere a chi c'era, a quella festa.

 

 

Tre giovani promesse

 

Claudia Muzic, 31 anni, nel 2007 non aveva nessuna esperienza di politica attiva. «Mi sono iscritta al Pd l'anno dopo, mi sono avvicinato a quel mondo proprio durante la festa. Ero finita lì quasi per caso, cercavano volontari per la comunicazione». Quest’anno Claudia è stata eletta sindaco (Pd) del suo comune, Argelato, in provincia di Bologna. «Nelle prossime settimane sarò a fare il mio turno da volontaria a uno dei ristoranti della festa». Certo, non sarà come nel 2007. «Il nucleo storico dei volontari invecchia, ma da queste parti c'è stato comunque un ricambio. Magari i ragazzi non montano gli stand, ma si danno comunque da fare».

 

Oppure prendete una delle attrazioni folcloristiche di quei giorni. La Rota di Montespertoli: una ruota (rossa) di un carro veniva fatta girare come una ruota della fortuna. In palio: olio, vino, salumi, formaggi dalla Valdelsa. Da quarant’anni uguale a se stessa in tutte le feste dell'unità toscane. Quell’anno a fare da imbonitore c'era Diego Ciulli, un ragazzo di 23 anni già brillante promessa del partito, il consigliere regionale più giovane d'Italia. Alla festa di Bologna cercava di attrarre gli avventori in un colorito vernacolo toscano. «Non ci capivano, ma ci si divertiva lo stesso», dice Diego. Oggi lui non fa più politica: nel 2011 è andato a lavorare per Google al dipartimento relazioni istituzionali come policy analyst. Per contratto non può nemmeno parlare di partiti.

 

Anche Lara Ricciatti, 29 anni, nel 2007 era una dei volontari. Arrivava da Fano, aveva la tessera dei Ds ma aveva già deciso di non aderire al Pd. «Mi sono iscritta alla Sinistra Giovanile a 14 anni, non mi riconoscevo nel partito che stava nascendo», dice. Un anno e mezzo fa è nato suo figlio. «L'ho chiamato Enrico, non è un nome scelto a caso». Dall'anno scorso è deputata di Sel. Molti ora nel suo partito si mettono in cammino per entrare nel Pd. «Io no, non sono pentita delle scelte che ho fatto». Quest'anno passerà comunque da Bologna «Ci vado per l'aspetto romantico. Non è cambiato solo il nome della festa, si è persa quell'idea di partito basata sul volontariato, tornare al vecchio nome non basta per riportare le cose indietro».

 

Falce e tortello

 

Nonostante tutto quest'anno Bologna conferma il suo primato: è stata la città che ha ospitato più feste nazionali dell'Unità. In sessant'anni di storia la celebrazione del Pci-Pds-Ds è passata per dodici volte da qui. La prima volta nel 1951. Mentre il ministro dell'interno Scelba emanava divieti e restrizioni per colpire l'attività del Pci, il partito riusciva comunque a prendersi i giardini Margherita e a portare in corteo per la città enormi ritratti di Togliatti. Nel 1974, al comizio finale di Enrico Berlinguer c'erano un milione e duecentomila persone. Nel 1981 qui era arrivata in visita persino una delegazione del Partito comunista cinese. Dieci anni dopo, archiviato il Pci, fu sempre qui che si tenne la prima festa del Pds di Occhetto.

 

«In queste zone il cambio del nome non è mai stato digerito, tant'è che la festa locale ha continuato a a chiamarsi festa dell'Unità», dice Anna Tonelli, storica dell'Università di Urbino, autrice di Falce e tortello: Storia politica e sociale delle Feste dell'Unità (Laterza, 2012). Curiosamente a decidere di porre fine alla festa nazionale dell'Unità erano stati gli ex Ds, a riportarla in vita è un ex Margherita. «La mossa di Renzi è tipica di chi conosce bene i meccanismi della comunicazione – continua Tonelli – L'ho visto partecipare a feste qui in Emilia Romagna già lo scorso anno, mostrava già la capacità di comprendere l'importanza delle feste come veicolo politico».

 

In quelle che una volta si chiamavano regioni rosse resiste il nucleo storico dei volontari, nonostante il numero dei tesserati sia in calo anche qui. «I militanti che la organizzano sono sempre gli stessi. Spesso partecipano alla festa anche se non hanno più la tessera del partito. Il problema è il dato anagrafico: lo zoccolo duro invecchia. Qualche giovane arriva, ma il ricambio non è sufficiente. Una volta i ristoranti e i servizi erano tutti gestiti dai militanti, oggi vengono dati in appalto. Organizzata così la festa ha poco futuro. Per sopravvivere dovrà cambiare radicalmente», osserva la storica.

 

 

L'apparato e i debiti

 

Nell'ultimo bilancio del Pd risulta un debito accumulato (tra il 2009 e il 2013) di 10.812.480 euro. Nel frattempo i contributi pubblici per i rimborsi al partito sono passati da 24.700.000 di euro nel 2013 a 12.800.000 nel 2014. I numeri (riportati da Europa) invitano alla parsimonia. Anche per questo la nuova festa dell'Unità sarà più breve del solito: dieci giorni, dal 27 agosto al 7 settembre. L'ultima rassegna dei Ds, nel 2007, durava 26 giorni. «Una versione "compatta", per concentrare meglio la comunicazione», ha detto Lino Paganelli, responsabile nazionale della festa.

 

Sono cambiate tante cose, dal 2007 a oggi. Una no: Lino Paganelli. Si occupava della festa con i Ds di Fassino, lo fa ancora oggi nel Pd di Renzi. Paganelli è da tempo un sostenitore dell'ex sindaco di Firenze: nel 2012 fu il primo pezzo dell'apparato ex comunista a sostenerlo alle primarie contro Bersani. Quest'anno anche lui ritornerà a Bologna. «È anche un omaggio all'esperienza e alla capacità organizzativa dei volontari bolognesi», ha detto.

 

Qui il Pd sa di poter contare su oltre 5mila volontari, 19 ristoranti e sui 30mila metri quadrati di superficie del parco Nord, grande area espositiva alla fine di via Stalingrado. «Riportiamo la festa in Emilia Romagna, che ancora una volta non ha tradito il suo apporto al voto al Pd nazionale», ha detto il segretario regionale Stefano Bonaccini. Il riferimento è alle europee, dove il Pd è arrivato da solo al 52% , e alle amministrative, dove ha conquistato più del 90% dei Comuni. Certo, a turbare la serenità pre festa sono arrivate le impreviste dimissioni del governatore Vasco Errani. A Bologna si discuterà anche della sua successione, eredità contesa tra renziani della prima ora (l'ex presidente del consiglio regionale Matteo Richetti) e della seconda ora (l'ex bersaniano Bonaccini).

 

La notte dei comunisti viventi

 

Chi delle feste di Bologna sa davvero tutto è Lele Roveri, 42 anni, oggi direttore artistico della Fiera di Bologna. Per otto anni si è occupato di organizzare la rassegna del partito. La prossima sarà la prima festa senza di lui. «Sì, ma l’ossatura rimane quella di sempre, i volontari sono gli stessi. C’è stato un po’ di ricambio, l’effetto Renzi ha avvicinato al partito persone nuove», dice. Roveri lo conferma, in questi anni c'è stato un cambiamento in particolare: «Il partito nazionale non ha più la forza economica del passato, da questo punto di vista è ridotto quasi a un organo di rappresentanza. Per questo si sceglie una location comoda, dove c'è già una forte organizzazione».

 

Solida organizzazione e tradizioni radicate. Come quella a cui si poteva assistere nei giorni della festa del 2007, attorno alle due di notte, quando ormai i cancelli erano chiusi, l’ultimo bar aveva finito gli amari, e rimanevano solo i militanti storici e quelli dell’organizzazione. Nel silenzio della notte del parco Nord, all’estrema periferia settentrionale della città, c’era un appuntamento fisso per gli irriducibili. Dopo intere giornate tartassati dalla radio ufficiale che mandava a ripetizione Il cielo è sempre più blu, una specie di inno della segretaria Fassino, e i successi di Caterina Caselli, finalmente arrivava l’ora della liberazione.

 

All’improvviso dagli altoparlanti qualcuno faceva partire l’Internazionale Socialista, ad altissimo volume. A quelle note i ragazzi un po’ brilli si mettevano in piedi sulle sedie di plastica, i vecchi militanti a guardia del fortino venivano fuori. Tutti cantavano a squarciagola. «Compagni, avanti il gran partito…». Seguiva Bandiera Rossa. Pugni chiusi, risate, abbracci. Qualcuno la chiamava la notte dei comunisti viventi. Testimoni garantiscono che il rito si è svolto immutato ancora fino allo scorso anno. Chissà se la tradizione verrà rispettata anche quest'anno, nella prima Festa dell’Unità dell’era Renzi.

 

Una prima versione di questo articolo è uscita su Pagina 99

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