Salabelle: tra riso e malinconia

27 Dicembre 2013

Per ricordare Maurizio Salabelle, dirò qualcosa sul suo romanzo Il mio unico amico, che per me, insieme a Il Maestro Atomi, è il suo libro più bello. C’è un fatto che accomuna i due libri: sono entrambi narrati da un ragazzino di dieci anni. La scrittura impassibile ma fitta di osservazioni, immagini, stramberie e invenzioni comiche di Salabelle, combinata con la prospettiva di un narratore così giovane e ricettivo, incapace di pregiudizi, ci ha dato due libri che non finiscono di stupire e che vanno annoverati, così a me sembra, tra le cose migliori della nostra letteratura di fine Novecento. C’è molto Novecento nei libri di Salabelle, da Walser a Buster Keaton, da Bove a Beckett a Tadeusz Kantor, ma è un Novecento ridotto a essenza e assimilato fin quasi all’oblio.

 

Il mio unico amico è la narrazione di un caso clinico, e anche, come dice bene il risvolto di copertina dell’edizione Bollati Boringhieri, ormai difficile da trovare, un racconto che “finge di essere un romanzo a sfondo sociale”. Antonio Didgy, il padre del narratore, ha sviluppato una dipendenza da vocabolario che nel corso di un’estate estremamente calda e soffocante mette nei guai tutta la sua famiglia. Ogni volta che la moglie, operaia di fabbrica e promotrice di una strampalata lotteria di quartiere, procura ad Antonio l’occasione per un lavoro, le cose volgono al peggio proprio per via della sua “bibliosi”. Antonio Didgy ha bisogno di verificare continuamente anche le parole più comuni, e la sola idea di doversi separare dal suo “Nazionale” di tremila pagine, gli risulta insopportabile. Piuttosto è pronto a mentire e a escogitare quel genere di sotterfugi in cui notoriamente eccellono tossicomani e alcolizzati.

 

I vicini che lo vedono sempre “sbilanciato e stranamente curvo su un lato” a causa del peso del volume, gli affibbiano il nomignolo di “Libro”, e di conseguenza il piccolo Giorgio diventa, nel quartiere, “il figlio di Libro”. Per lui che, insieme all’amico Lhardo, si occupa di vendere porta a porta i biglietti della lotteria materna, la vita si fa complicata, tanto più che anche dietro la vaporosa Elisa Gennari, vincitrice del premio “Endruss” riservato alla ragazza più profumata della città e oggetto delle sue più dolci fantasie, si cela un inganno (“... da allora in poi la guardai a lungo [in fotografia] tutte le sere quando nel mio letto troppo grande facevo fatica a prendere sonno”).

 

Come in quasi tutti i romanzi di Salabelle, entra in scena un medico dall’aspetto poco rassicurante. “Il dottore era un uomo obeso, con un camice troppo piccolo che era costretto a tenere del tutto aperto. La sua faccia era cosparsa di gocce di sudore e dava l’impressione di essere calda [...]. In un punto del tavolo c’era un volume lucidissimo intitolato Il medico competente”. Quando leggo queste descrizioni, qualche volta penso a cosa potrebbero farne dei cineasti come i frattelli Quay o un disegnatore come Robert Crumb. Sembra che ogni paragrafo di Salabelle contenga un riflesso di tutto un universo poetico.

 

Comunque sia, grazie al consiglio del medico, che suggerisce alla signora Didgy di sostituire il “Nazionale” con un vocabolario tascabile o meglio ancora in miniatura, superato il rifiuto iniziale da parte del diretto interessato (“No, non è possibile consultare un vocabolario del genere, è assurdo”, gemeva rossissimo per la collera), le cose sembrano migliorare.

 

Con la spinta della moglie, Antonio Didgy riesce a procurarsi un furgoncino a tre ruote per la distribuzione del latte e inizia a esercitare questa attività. Le cose sembrano funzionare abbastanza bene e lui sembra guarito, se non che un giorno, durante uno dei loro giri, Giorgio e Lhardo si accorgono che il traffico è paralizzato e in mezzo alla strada si è formato un capannello di persone.

 

Si avvicinano: “Tutt’a un tratto scorgemmo un’enorme quantità di liquido sparsa per gran parte della carreggiata. Era una sostanza vagamente bianca che mandava degli strani bagliori, ma non si capiva cosa fosse [...] Fu solamente quando ci facemmo largo e riuscimmo a dare un’occhiata fra i corpi che vedemmo un furgone con tre ruote rovesciato in mezzo alla strada, e ci rendemmo conto che l’uomo a terra non era altri che il babbo. Le sue bottiglie di latte intero erano tutte fracassate, e vari ruscelli di roba bianca stavano scorrendo un po’ dappertutto.

 

I pezzi di vetro galleggiavano nel latte e luccicavano sotto la luce. La ruota anteriore del camioncino, il cui battistrada era consumato, girava ancora con velocità nonostante il motore fosse ormai spento. Avanzai tra la folla, mormorai qualche “permesso” con voce arrochita dall’apprensione e mi avvicinai a mio padre che giaceva a terra. Era sdraiato in mezzo al latte, e aveva lo stinco della gamba destra che pareva piegato per una frattura. I vicini rimanevano fermi a pochi metri da lui esaminandone il corpo scheletrico, ma non osavano toccarlo quasi che la sua persona li disgustasse”.

 

Antonio si riscuote solo quando incrocia lo sguardo del figlio, allora si alza lentamente: “Il latte intero di cui era intriso cominciò a scendergli dai pantaloni in decine di rivoletti. Notai che nel punto della strada in cui era stato fino allora disteso c’era un vocabolario rilegato di rosso che non avevo mai visto. Anche se era imbevuto di liquido e pieno di strappi, si comprendeva perfettamente che era un esemplare comprato da poco...”

 

Dopo l’incidente Antonio non esce più di casa, finché un esorbitante aumento dell’affitto non costringe la famiglia Didgy a traslocare. Nel nuovo quartiere, sempre con il vocabolario sottobraccio, si fa una fama da intellettuale. In seguito a un alterco con un vigile urbano passerà una notte in questura e poco tempo dopo verrà picchiato da una banda di teppisti. Alla fine del romanzo, e dell’estate, lo troviamo in fin di vita su un letto d’ospedale, poi invece eccolo guarito anche dalla sua dipendenza da vocabolario, ma è ormai un uomo irriconoscibile, non solo per i lettori, ma, si direbbe, per i suoi stessi famigliari. Si tratta quindi di una ben strana guarigione...

 

Salabelle diceva di non essere interessato a scrivere romanzi nei quali l’autore e i lettori si rispecchiano e si riconoscono, quei romanzi che “parlano di noi”; concepiva i racconti come dei meccanismi, degli ingranaggi studiati per produrre un movimento o una giostra o qualcosa del genere. Ne abbiamo parlato più volte durante il suo ultimo anno di vita, quando ho avuto la fortuna di preparare con lui la prima edizione del suo romanzo “investigativo” L’altro inquilino (versione ridotta, in numero di pagine e di copie vendute, di un romanzo già annunuciato proprio nel Mio unico amico, dove la signora Didgy si immerge nella lettura di un best-seller di seicento pagine “di cui parlava ogni quotidiano e che si trovava esposto anche dai macellai” intitolato Il soffitto dell’appartamento) e l’edizione definitiva del Maestro Atomi.

 

Su questo punto, però, non riuscivo a seguirlo fino in fondo, per il semplice fatto che nei suoi romanzi io mi sono sempre ritrovato, e non solo perché mi capita di uscire di casa con la giacca imbrattata di dentifricio, come succede a certi suoi personaggi. Più che in tanti altri romanzi rubricati come realistici, a me sembra di ritrovare in Salabelle aspetti nascosti ma non per questo meno reali del mondo “così com’è”.

 

Quello che posso dire, in ogni caso, è che i suoi libri mi fanno ridere a ogni nuova lettura e che nello stesso tempo mi trasmettono una strana malinconia, il senso di una tragedia dissimulata, raggirata, e di un pianto trattenuto ma proprio per questo tanto più profondo.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO