Sembra vivo!

1 Luglio 2023

Sembra vivo! a Palazzo Bonaparte rientra certamente tra le “mostre da vedere a Roma”: è una mostra che esclama, che interroga, che invita ad andare e vedere con i tuoi occhi. Come Tommaso davanti a Cristo risorto anche tu, spettatore, davanti a tante di queste sculture iperrealiste ti domanderai se siano vive oppure morte, e di fronte a un occhio lucido, una grinza della pelle o un sopracciglio visto da vicino, esclamerai con la mostra: Sembra vivo! Una mostra spettacolare, nel senso di vedere (ma vedere in che senso? con quali occhi?). Una mostra che del verbo spectare interpella tutti gli eredi semantici: dallo spectaculum allo spectator, dallo speculum allo spectrum. Spettacolo, Spettatore, Specchio e Spettro preparano la scena ai veri protagonisti dell’esposizione: Vita e Morte – Vita che sembra morta e Morte che sembra viva.

“Sembra viva! Quante volte lo abbiamo detto o pensato, restando a bocca aperta – sorpresi o impauriti – di fronte a un’immagine talmente simile al vero da venir presa per un essere umano in carne e ossa” (Pietro Conte, In carne e cera. Estetica e fenomenologia dell'iperrealismo, 2014). “In carne e cera” scrive Pietro Conte, accostando creativamente realtà e finzione, vita e morte. Tuttavia la cera, questo materiale tradizionale, nelle oltre quaranta sculture presenti in mostra, non compare quasi mai: prevalgono invece le più contemporanee resine e il silicone, il poliestere e il poliuretano, il bronzo e il gesso.

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Zharko Basheki, Ordinary man, 2009-2010.

Eppure ben prima della scultura iperrealista degli anni ‘70 – ben prima di quando il gallerista Icy Branchot coniò per il titolo di una mostra a Bruxelles l’espressione “Hyperréalisme” (1973) – la scultura “iperrealista” già da tempo viveva “in carne e cera”. Si pensi ai ritratti di santi e donatori nelle chiese: Aby Warburg ricorda che nella sola Chiesa della Santissima Annunziata di Firenze attorno al 1530 erano presenti circa 600 figure in cera a grandezza naturale, tra cui quella di Lorenzo de’ Medici, dono votivo per essere sfuggito ai pugnali dei pazzi del 1478. Ritratto in cera modellato da Orsino Benintendi, uno dei tanti “fallimmagini” dell’epoca, quando questo ramo di attività artistica era assai fiorente, almeno a Firenze. Si pensi poi alla storia di Marie Tussaud, prestigiosa lavoratrice di cera che su ordine dei capi della Rivoluzione Francese ricavò le maschere mortuarie dalle teste dei ghigliottinati. Trasferitasi nei primi dell’800 da Parigi a Londra, con le sue opere Madame Tussaud diede vita al primo museo delle cere, suo omonimo, ora celeberrimo e con sedi in tutto il mondo. Anche a Roma esiste, dal 1958, un Museo delle Cere che è il primo in Italia di questo genere, e che curiosamente si trova a un isolato da Palazzo Bonaparte. Da una parte le riproduzioni in cera di Freddie Mercury, Albert Einstein, Gandhi e George Clooney e dall’altra le opere di Duane Hanson, Jacques Verduyn, Carole Feuerman e Maurizio Cattelan. 

Indubbiamente si tratta di due tipologie di esposizioni differenti, tuttavia il confronto è stimolante. Al di là della qualità artistica – le figure del Museo sembrano infatti avere una “brutta cera” – è la presenza dei personaggi famosi che è interessante, il desiderio collettivo di farsi una foto con loro. Questa attitudine dello spettatore a entrare nella cornice dello spettacolo, evidente al Museo delle Cere, è altrettanto visibile nei visitatori di Palazzo Bonaparte: ci si vuole comunque fare un selfie con Andy Warhol. Kazu Hiro, l’artista giapponese che nel 2013 ha realizzato questo ritratto, acutamente ha scelto di porre la grande testa di Warhol su una base metallica specchiante, per mostrare questo gioco di specchi, spettatore e spettacolo: "specchiati anche tu spettatore e prendi parte allo spettacolo, ma per 15 minuti, non non di più!" sembrano dirci Hiro e Warhol.

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Selfie.

Era il 1967 – la scultura iperrealista stava per nascere – e mentre a New York Andy Warhol realizzava altre serigrafie di Marilyn Monroe, Guy Debord a Parigi pubblicava La società dello spettacolo. “La rappresentazione ha preso il posto del vissuto” scrisse allora Debord avvertendo, come già Duchamp, che il retinico occupava i territori della vita respirata, che il vedere spodestava il vivere. Sembra vivo! è un titolo che racchiude questi due aspetti, ma che rischia di accentuare l’aspetto visivo, sensazionale, spettacolare: guarda ad occhi aperti!

Sembrerà paradossale ma per godere davvero di questa mostra, bisogna vederla almeno un po’ ad occhi chiusi, per cogliere quell’invisibile che ogni opera d’arte comunica, anche la più iperrealista. Ne sono un esempio le opere della prima sala al secondo piano, la più intima della mostra: Cornered (2011) ed Embrace (2014) di Marc Sijan assieme a Woman and Child (2010) e Kneeling Woman (2015) di Sam Jinks. Opere così delicate da commuovere e far chiudere gli occhi. Opere che sembrano vive, che viste da vicino si rivelano "morte", ma che se contemplate a lungo, assumendo quasi la loro immobilità, acquistano nuova vita, resuscitano, come il Cristo del rosario di Valter Adam Casotto nella stessa sala. 

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Valter Adam Casotto, Stringiamoci a coorte, 2017.

Non si esclamerà allora che tali opere sembrano vive, perché sono vive! Se osservate in questo modo, andando oltre i tempi e i modi fotografici di visitare una mostra, queste sculture mostreranno ben altro che abilità tecnica. Lo stesso Marc Sijan in un video presente in mostra sottolinea che “le opere migliori sono quelle che parlano di te, non per la tecnica ma per la verità interiore che esprimono”. Non si tratta semplicemente di specchiarsi, ma di attivare i neuroni specchio ed emozionarsi, come se ci si trovasse davanti a una persona.

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Marc Sijan, Embrace, 2014.

La fotografia compulsiva dei visitatori non aiuta, perché li illude di aver impresso in sé qualcosa di intimo e vitale, quando il più delle volte non sono che esteriorità e immagini morte. “Si direbbe che il Fotografo” scrive Roland Barthes in La camera chiara “debba lavorare moltissimo per fare sì che la Fotografia non sia la Morte”, per far sì che un soggetto fotografato non senta di “diventare oggetto”, anzi “spettro”. La fotografia agisce come Medusa: pietrifica i corpi di chi la guarda, li trasforma in statue iperrealiste e li uccide. 

“Per tutti la morte ha uno sguardo” scrisse Pavese in Verrà la morte e avrà i tuoi occhi. Si tratta allora di “chiudere gli occhi” come suggerisce lo stesso Barthes: di uscire per un attimo dalla modalità fotografica dei nostri occhi per soffermarsi sul negativo che non vediamo. Oltre lo specchio, oltre il nostro riflesso c’è un altro con cui empatizzare – che sia un essere vivente o un’opera d’arte che sembra viva – e ciò richiede tempo e battiti di ciglia.

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Tony Matelli, Josh, 2010.

La morte, indirettamente presente nel titolo della mostra, è esplicitamente presente nelle opere dello statunitense John De Andrea: American Icon Kent State (2015) e nel suo Galata morente (Dying Gaul, 2016), non in marmo bianco come quello dei Musei Capitolini, ma in bronzo policromo. C’è poi uno straniante corpo senza testa che sembra morto: Elie (2009) della scultrice belga Berlinde De Bruyckere, l’unica opera in cui è presente della cera. Ci sono inoltre i 100 piccioni morti di Maurizio Cattelan, Ghosts (2021), che si specchiano all’infinito in una sala dedicata ai loro “spettri”: davvero morti e impagliati secondo la tecnica della tassidermia. Altri 8 piccioni si trovano nel bookshop all’uscita, confusi tra i libri e i peluches, e un altro si trova all'ingresso, sulla sfera del mondo che Marte Pacificatore stringe nella mano destra.

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Riproduzione in gesso del Marte Pacificatore di Antonio Canova + Ghosts di Maurizio Cattelan.

Così come per la fotografia alle sue origini, quando bisognava posare per ore affinché rimanesse impressa una traccia di vita, anche per la scultura iperrealista i tempi di posa non sono brevi: Duane Hanson per le sue opere (Cowboy with Hay, 1984-90; Two Workers, 1993 quelle presenti in mostra) ammette di impiegare due o tre giorni di pose. Interessante notare che le sue prime opere, criticate come "non opere d’arte", rappresentavano spesso persone morte: ne è un esempio Abortion (1965) che si ispirava alla tecnica in gesso di George Segal. Anche Degas nel 1881 ricevette molte critiche per la sua piccola danzatrice di quattordici anni: “non in un'esposizione d'arte" lo invitarono ad esporla "ma in un museo di zoologia, d'antropologia o di fisiologia”. Era una statua in cera ma con tanto di vestiti e capelli umani, proprio come Hanson che chiese ai Due lavoratori di dargli parte dei loro vestiti, capelli e peli originali! Duane Hanson, padre della scultura iperrealista, ci ha prima sorpreso e poi abituato a vedere nelle sale dei musei turisti e lavoratori, morti-ma-che-sembrano-vivi, abitarle assieme a noi, al punto che davanti all’opera di Fabrizio Spucches, presente in mostra vicino a uno specchio, viene da crederlo morto. Sembra morto! è il titolo della performance, che a proposito di spettri fa prendere uno vero spavento ai visitatori.

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Jacques Verduyn, Pat e Veerle, 1974.

Tra le donne in bikini di Jacques Verduyn del 1974, Pat e Veerle, che prendono il sole sulla loro sembra-viva pelle e quest’uomo vivo in mutande del 2023, la mostra raccoglie una trentina di artisti che negli ultimi 50 anni della mortale natura umana hanno saputo cogliere la vita, anzi le vite, perché spesso hanno nomi propri. C’è Caroline (2014) di Daniel Firman, c’è Josh (2010) di Tony Matelli, c’è Catalina (1981) di Carole Feuerman e c’è Lily (2013) di Jamie Salmon. Ci sono le gocce di sudore, ci sono i nei, ci sono le rughe.

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Marc Sijan, Woman and Child, 2010.

“Mi piacciono le rughe” dichiara Duane Hanson “perché mostrano un corpo che ha vissuto”. E viene voglia di continuare con Alda Merini, di cui tra l’altro è presente in mostra qualche verso di un’altra poesia: “Ogni ruga sui nostri volti è una storia vissuta, con coraggio, orgoglio, sorriso, pianto, amore. Sono come le parole di un libro aperto, sfogliato dal tempo davanti agli occhi del mondo”. L’iperrealismo scultoreo forse più di altri stili riesce a trasmetterci la presenza di un corpo che ha vissuto, un corpo potremmo dire “in carne e c’era”.

Forse dovremmo smettere un vizio, quello di vedere nello specchio di queste opere riemergere un viso morto, dovremmo smettere di esclamare “Sembra vivo!”, perché è una sentenza di morte che ci incatena ad un'impressione visiva, mentre l’arte è viva, e gli occhi, se chiusi ogni tanto, sono capaci di vedere anche questo. Verrà la vita – osiamo variare – e avrà i tuoi occhi.

In copertina, Fabrizio Spucches, Sembra morto! 2023.
Sembra vivo! dal 26 maggio all’8 ottobre 2023
Palazzo Bonaparte, Piazza Venezia, 5, Roma.

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