Shoah: una risposta a Marcello Veneziani

4 Febbraio 2014

Marcello Veneziani su “Il Giornale” del 29 gennaio scrive:

“Perché un evento tragico di settant’anni fa, unico tra gli orrori, tiene banco in maniera così prolungata, unanime e pervasiva nei media e nelle rievocazioni?”. “Perché col passare degli anni anziché sopirsi, si acuisce la memoria della Shoah, oggi più di trent’anni fa?”

Continua: “La Shoah sta prendendo il posto della crocifissione di Gesù Cristo. Ovvero è l’Evento Cruciale che segna il Lutto Incancellabile per l’Umanità, lo Spartiacque Unico dei tempi e l’avvento del Male Assoluto, con la Redenzione seguente. Stavolta non è il Figlio di Dio a finire in Croce e sacrificarsi per noi, ma è un popolo a essere immolato, eletto o maledetto secondo le due versioni classiche, e a redimere l’uomo dal Male. Benché Assoluto, il Male stavolta è storico e non satanico. E prelude non alla Resurrezione ma alla Liberazione. Non l’ascesa dei risorti in cielo ma la liberazione degli insorti in terra. Non riesco a trovare altra spiegazione all’Enfasi Assoluta, Indiscutibile, Indelebile sulla Shoah”.

E risponde: “Questo forse spiega il tacito, inesprimibile fastidio che sfiora quanti pure non c’entrano nulla coi negazionisti e coi razzisti né denunciano campagne di speculazione sull’olocausto: Cristo ieri messo in croce oggi messo tra parentesi. Con Lui si relativizza la fede, la civiltà cristiana. Al Suo posto c’è la Shoah, religione dell’umanità, Auschwitz prende il posto del Golgota e il 27 gennaio sostituisce il Venerdì Santo”.

Proverò a replicare brevemente: la distruzione degli ebrei d’Europa e l’immane violazione dei diritti che ha colpito tutti i portatori di alterità secondo il nazismo e il fascismo, gli “estranei alla comunità” (ebrei, rom, sinti, slavi, resistenti, oppositori politici, portatori di handicap, omossessuali, testimoni di Geova, asociali) costituisce una frattura di civiltà nella modernità ed è un evento che induce a pensare in termini etici ai valori della società di cui facciamo parte.

 

Nella sua specificità, la Shoah è una sorta di modello inclusivo, un tragico riassunto concentrato del “male” della e nella storia: studiosi di storia e scienze sociali lo individuano come paradigma per comprendere la costruzione dei meccanismi di violenza delle società; testimoni e scrittori, Levi e Delbo solo per citare due esempi-chiave, ne hanno parlato come reagente per poter meglio comprendere diversi fenomeni di reificazione dell’umanità e di offese alla dignità, in tempi e luoghi diversi.

 

In una storia con un canone eurocentrico, dare centralità allo studio del sistema concentrazionario e delle pratiche genocidarie naziste significa parlare di violenza, di modernità, di burocrazia, di cooperazione delle vittime, di obbedienza, di sottomissione all’autorità. È una storia che riguarda la memoria culturale europea, all’interno delle vicende che riguardano la storia del lavoro, della reclusione e del controllo disciplinare, le tecniche militari, l’esperienza coloniale, la morte seriale e tecnica, la razionalità strumentale. Mi limito a citare due voci importanti, scelte appositamente tra la storiografia precedente alla legge del Giorno della memoria, quando si discuteva della centralità pedagogica di insegnare la Shoah.

 

«Il nazismo mise in evidenza, con consequenzialità omicida, fenomeni patologici e contraddittori insiti al processo di sviluppo delle società moderne» (Peukert 1989).

 

«I meccanismi sociali politici e psicologici sfociati nel genocidio degli ebrei possono riprodursi oggi, sebbene in un contesto mutato e su scala diversa, colpendo in primo luogo altre minoranze indifese, esposte all’intolleranza, alla xenofobia e alla violenza razzista: gli immigrati, i neri, gli arabi, gli omosessuali, gli “antisociali”[…] Educare dopo Auschwitz significa non accettare la più piccola manifestazione del razzismo né la più piccola discriminazione, significa non contemplare il passato ma interrogarlo alla luce del presente» (Traverso 1994).

 

Si può fare finta di non comprendere tutto questo? Forse solo provenendo da una cultura antidemocratica. Veneziani è teorico della cultura di destra e non può sorvolare così sulle implicazioni culturali e politiche del suo background.

La seconda domanda è infatti sconcertante. Per anni, dopo la guerra, la Shoah e la memoria delle vittime sono state ignorate, oggetto di oblio e rimozione; solo molto tardi sono entrate nell’attenzione dell’opinione pubblica. La domanda è provocatoria nella misura in cui la parte politica a cui Veneziani afferisce, e di cui «Il Giornale» è simbolo, in Italia è transitata dall’antisemitismo alla ricerca del consenso nella destra israeliana, tendenzialmente scaricando sul “cattivo tedesco” tutte le responsabilità che erano del fascismo e interpretando un concetto etico e drammatico come quello di “zona grigia” come un vago concetto ideologico buono per cancellare la nozione di responsabilità.

Arriviamo al finale dell’articolo, quello più problematico per come è posto e per la confusione di piani logici e tematici. Lascerei perdere il problema vistoso, che c’è e non può essere ignorato, dell’antisemitismo cristiano o della posizione contraddittoria della Chiesa di Roma rispetto a deportazione e sterminio.

 

Il punto è che il cristianesimo ha a che fare con il mito, intendo con questo storia sacra, la Shoah con la storia. Mi spiego: esiste un Gesù storico e una religione che a lui si ispira, storicamente importante. Che Gesù sia il “Figlio di Dio” e che sia risorto è qualcosa che riguarda invece chi si riconosce in quel particolare tipo di credenza che si definisce fede.

 

Veneziani dà per scontato che un posto dentro la cultura sia stato occupato, in termini mitologici (come oggetto di valore e significato) prima dalla Crocefissione e ora, afferma, dalla Shoah. Ma in questo modo trasforma in luoghi comuni culturali entrambi gli oggetti (il che potrebbe anche offendere simultaneamente cristiani e ebrei), tradendo una visione “opportunistica” e politica della religione che ne fa un tratto identitario, come nella linea teorica dei neo-conservatori “atei devoti”.

Poi sembra prendere atto di questa “rioccupazione” come del risultato di un processo, chiamiamolo “secolarizzazione” o “disincanto del mondo”, ma deplora il fatto che sia avvenuto quando parla di “relativizzazione della civiltà cristiana”. Soprattutto usa uno schema sacrificale, quando sostiene: Gesù viene sacrificato per redimere gli uomini/un popolo viene sacrificato per “liberare gli insorti in terra”. Uno schema sacrificale è un ragionamento teologico e ogni lettura in questi termini della storia è fuorviante, ovvero rischia di distogliere dalla comprensione della realtà: un sacrificio è un tributo che si paga a una divinità per qualcosa. Non è un ragionamento che possa essere condiviso da chi non si riconosce in quella credenza o in quella teologia.

L’articolo pare apprezzare che il sacrificio “cristologico” sia un mito di fondazione dell’occidente e pare considerare invece il moderno sacrificio “ebraico” come una degenerazione in quanto umanizza il divino. In altri termini, descrive un processo di sostituzione che avviene nella cultura, prima dio oggi l’uomo, che non sta bene se la memoria pubblica mette l’uomo al posto che prima spettava a dio, con ciò in linea con la polemica cattolica contro il relativismo (temi forti di Woytila e Ratzinger).
In ogni caso ignora completamente i dibattiti teologici (non storici) sulla presenza o sull’assenza di Dio in relazione al male e alla violenza “inutile”, di diverso orientamento confessionale o laico e proprio generati dall’esperienza di Auschwitz.

Mettere i due fenomeni sullo stesso piano, Golgota e Shoah, significa ragionare in termini metafisici e metastorici, dimostrando di essere tradizionalisti antimoderni. Veneziani, mi sembra, propone una filosofia della cultura, ma non maneggia i suoi strumenti e finisce per usare le interpretazioni di Eliade, Evola e De Benoist in forma semplificata per il suo pubblico, mischiando analisi e giudizio: cosa significa “liberare gli insorti”? Se si intende l’emancipazione degli oppressi, il “comunismo” o qualche sua derivazione, saremmo larvatamente dentro radicati stereotipi antimoderni (e antisemiti). Illuminismo, ebraismo, rivoluzione contro tradizione, cristianesimo, ordine.
Altrimenti perché la Shoah, in quanto “religione dell’umanità” viene contrapposta alla “civiltà cristiana”? E, per inciso, cosa significa esattamente “civiltà cristiana”?

Infine, se davvero la centralità del Giorno della memoria fosse un monito per chiedere pace e tolleranza, tale sensibilità sarebbe da correlare a un “fastidio”?

Riprendo il punto: il sistema concentrazionario e di sterminio operato da nazisti, fascisti e collaborazionisti – chiamiamolo Shoah o Auschwitz, perfino Olocausto – è storia. Chiede di essere indagato con gli strumenti della storia e delle scienze umane, per comprendere come si creino meccanismi complessi di produzione della violenza, nella sequenza razzismo, marginalità, segregazione, deportazione, sterminio dentro la crisi delle democrazie. Può essere studiato e confrontato nell’ottica dei Genocide studies, con il rispetto che si deve al dolore e al trauma di ogni vittima.

 

Se qualcosa non ha funzionato nella comunicazione del significato del Giorno della memoria, dal punto di vista della ridondanza, della semplificazione, della retorica, del sentimentalismo (vedi il recente intervento di Bidussa), questo dipende molto dai media, dall’industria culturale e da quanti hanno sacralizzato o banalizzato il fenomeno, usandolo per fini che non sono la tutela dei diritti umani.

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