Vicenza: l’arte sfida il tempo

7 Gennaio 2024

Salite le scale, attraversiamo le logge della Basilica Palladiana di Vicenza quindi accediamo al Salone dei Cinquecento. Una volta all’interno, sovrastati dalla gigantesca copertura a carena, veniamo accolti da un grande disco verticale che ruota lentamente, la superficie è una materia rossa, incandescente, corrugata, viva. Lontani decine di metri, alla parte opposta della grande sala immersa nella penombra, scorgiamo due quadri incorniciati da una teca nera, presenze che sembrano emergere come dal fondo del tempo. E proprio sul concetto di tempo è incentrata la mostra “Caravaggio Van Dyck Sassolino. Tre capolavori a Vicenza” curata da Guido Beltramini, direttore del Palladio Museum.

L’esposizione – visibile fino al 4 febbraio – è promossa dal CISA e dal Comune di Vicenza con il supporto di Intesa Sanpaolo, Musei Civici Vicenza, Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza e Marsilio Arte. Sono proprio dei capolavori quelli accolti in Basilica: San Girolamo di Caravaggio, dipinto tra il 1605 e il 1606 (un eccezionale prestito della Galleria Borghese), Le quattro età dell’uomo di Anton Van Dyck (gioiello della collezione dei Musei Civici di Vicenza), dipinto vent’anni più tardi e l’opera No Memory Without Loss dell’artista contemporaneo e, accidentalmente, vicentino, Arcangelo Sassolino, prodotta per l’occasione.

La mostra è pensata come un dialogo a tre voci tra opere che hanno come argomento il tempo, nelle parole del curatore: «Da sempre l’arte è ossessionata dal tempo, ma cos’è il tempo? È movimento, è continuo divenire, è ciò che rende l’essere differente da se stesso. Nella mitologia greca Crono è la divinità che mangia i propri figli: il tempo ha bisogno di distruggere».

I due quadri antichi si confrontano sullo stesso argomento mostrando due modi opposti di approcciare il medesimo problema, Van Dyck sceglie l’allegoria dipingendo il tema classico dei quattro personaggi che rappresentano il ciclo della vita, metafora del passare inevitabile del tempo e sofisticato memento mori. Elemento questo, l’incombere della morte, esplicito nel San Girolamo di Caravaggio – con quel magro braccio del vecchio steso lungo il tavolo per intingere il pennino nel febbrile tentativo di terminare la propria opera e, insieme, per allontanare il teschio che gli ricorda l’approssimarsi della fine.

Qui Caravaggio, come in tutti i suoi dipinti, sceglie di rappresentare il soggetto nella sua evidenza riportandolo, si potrebbe dire, allo stato di “nuda cosa”. Da “naturalista” rappresenta ogni racconto, anche sacro, nella manifestazione di un accadere flagrante, per Caravaggio non sono possibili allegorie, come in Van Dyck, ma solamente “eventi”. Ferdinando Bologna, nel libro L’incredulità del Caravaggio (in cui opera una salutare ricollocazione storica di Caravaggio, togliendolo dalla cornice romantico-hollywoodiana in cui è spesso collocato) evidenzia come l’ostinazione al “vero” del maestro rappresenti «al massimo dell’evidenza la volontà di verifica – di accertamento per prova –, di accesso alla convinzione unificante per “esperienza” (porta principale della “natural filosofia”, in termini che ora possiamo dire galileiani a ragion veduta), da cui l’opera del Caravaggio prende il suo vero carattere».

n

E su questo punto – la verifica del mondo attraverso l’esperienza, interpretata in modo così radicale – il dialogo tra Caravaggio e Sassolino diventa strettissimo, quasi ineludibile. «Il lavoro di Sassolino – ancora con le parole di Beltramini – è un grande disco d’acciaio che ruota lentamente. Sulla sua superficie è spalmato uno spesso strato di olio industriale rosso ad alta viscosità. Il suo inevitabile colare a terra è rallentato dal moto circolare del disco. L’immagine permane ma non è mai uguale a se stessa, è un continuo ricomporsi, mutare, fallire. Se fermassimo il moto del cerchio l’olio cadrebbe rapidamente al suolo».

La potente, ipnotica opera di Sassolino (come tutto il suo lavoro, del resto) si fonda su una volontà di “accertamento per prova” delle qualità intrinseche della materia messe in uno stato di tensione quasi intollerabile (viscosità, gravità, movimento). Un accertamento che mette al centro l’accadere dell’opera nel tempo puntuale dell’esperienza dello spettatore: «il tempo di cui ci parla Sassolino – scrive Beltramini – non è un tempo astratto, è il nostro tempo, il tempo dell’esistenza».

È come se l’opera di Sassolino illuminasse di una luce nuova i quadri esposti e, viceversa, le opere di Caravaggio e Van Dyck riempissero di un significato inatteso l’oggetto contemporaneo aprendolo a una nuova possibilità di lettura e comprensione. Walter Benjamin direbbe una nuova costellazione di significati: «Erigere, insomma, le grandi costruzioni sulla base di minuscoli elementi costruttivi ritagliati con nettezza e precisione. Rompere, dunque, con il volgare naturalismo storico. Non è che il passato getti la sua luce sul presente o il presente la sua luce sul passato, ma immagine è ciò in cui quel che è stato si unisce fulmineamente con l’adesso in una costellazione. In altre parole: immagine è la dialettica in posizione di arresto».

Questa dialettica così stretta, quasi speculare tra Sassolino e Caravaggio, si era già mostrata, sebbene in misura minore, nella spettacolare installazione dell’artista al padiglione di Malta alla Biennale di Venezia dello scorso anno. Qui però il rapporto è così esplicito e diretto da essere ineludibile, una chiarezza dovuta all’esattezza con cui è stato individuato e circoscritto un tema (“elementi costruttivi ritagliati con nettezza e precisione”), alla scelta di non appesantire l’esposizione con altri oggetti di contorno o apparati esplicativi non necessari e alla felice presenza dell’opera di Van Dyck che fa da controcanto e, in qualche misura, da cartina di tornasole per questo esperimento – o “accertamento per prova” – delle possibilità euristiche di oggetti estetici così diversi di produrre significato per risonanza.

Una risonanza che avviene a quattrocento anni di distanza – quattro secoli che hanno dato forma al nostro presente – e contiene e riassume il conflitto intrinseco al nostro rapporto con il mondo naturale e lo sforzo moderno, tecnologico e insieme filosofico, di vincere il tempo. Ma il tempo non si vince, lo ricorda Guido Beltramini nelle note che accompagnano l’esposizione e, più banalmente, ce lo ricorda la vita ogni mattina. 

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO