25 settembre 1952 - 15 dicembre 2021 / bell hooks: l’arte sottile di trasgredire

20 Dicembre 2021

“Quando ho letto Cime tempestose, da ragazzina della classe operaia che lottava per trovare se stessa, da emarginata, ho sentito che Heathcliff ero io. Per me era il simbolo di una specie di razza nera: era un emarginato, non gli era permesso stare al centro delle cose. Ho trasposto il dramma di vivere nel Sud dell'apartheid nel mondo di Cime tempestose e mi sono sentita in armonia con quei personaggi.”

 

È bell hooks, mancata il 15 dicembre scorso, a raccontarlo in una conversazione del 1998 con la scrittrice africana-americana Maya Angelou, per poi aggiungere: “Sono così turbata quando le mie studentesse si comportano come se leggessero solo donne, o gli studenti neri come se potessero leggere solo neri, o gli studenti bianchi identificarsi solo con uno scrittore bianco. Sono convinta che la cosa peggiore che ci può capitare è perdere di vista il potere dell’empatia e della compassione”.

 

Per hooks questa indisponibilità a identificarsi con il presunto altro da sé senza chiedersi chi abbia stabilito quell’alterità, in base a quali interessi e con quali reciproche perdite, è un’enorme e pericolosa lacuna dell’immaginazione, una disfatta del pensiero critico, forse della stessa capacità di pensare. Credo che bell abbia passato la vita a lottare contro quell’indisponibilità e a interrogarsi e interrogarci sulla sua origine e sulla sua ambigua natura politica.

Ciò che mettiamo fuori da noi, ipostatizzandolo come nemico, può insediarsi talmente a fondo dentro di noi da tenerci funesta e accecante compagnia per tutta la vita. Proiettare il sessismo solo sui maschi della specie umana, il razzismo solo sui bianchi, il classismo solo sulle classi privilegiate, senza tentare di scoprire come quelle forme di potere si siano convertite in pensiero egemonico a cui non si sfugge se non con una serratissima e non solitaria autocoscienza, è una strada politica senza uscita. Eppure si continua a percorrerla, mettendosi al riparo di una propria supposta intangibile identità, quando bisognerebbe ricordare che siamo in perenne mutazione, di continuo intra-agiti e intra-agenti, senza dimenticare mai da dove veniamo, in quale punto del mondo e della storia siamo stati lanciati alla nascita.

 

Parte da qui, alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, la ricerca teorica, che è già e sempre analisi politica e riflessione sull’esperienza vissuta, da cui scaturirà il suo primo saggio: Ain’t I woman: Black Women and Feminism. È la sua tesi di dottorato alla Stanford University degli anni roventi del Black Party e dei primi, audacissimi Feminist Studies, e dovrà aspettare fino al 1981 per trovare un editore statunitense disposto a pubblicarla.

Cos’ha fatto di tanto scomodo e dunque aurorale, in quelle pagine, la giovanissima bell hooks? Ha scompigliato le acque di un mare che rischiava di essere troppo solido. Il suo primo grimaldello è la radicale messa in discussione della politica dei due tempi: prima la lotta di liberazione del proletariato, dei neri, degli sfruttati… poi – in un’ipotetica società più ‘giusta’ di là da venire – l’emancipazione e i diritti delle donne. Il secondo è la problematizzazione, non la negazione, delle grandi categorie che unificano e separano: donna, uomo, bianco, nero. bell le smonta come si potrebbe fare con una vecchia pendola, per capire come sono fatte e come funzionano. C’è, al loro interno, tutto il variegatissimo e contraddittorio sapere esperienziale che fa di noi quello che siamo e/o siamo stati fatti diventare? Come identificarsi in esse senza dis/identificarsi dalla complessità che ci costituisce come individui e come appartenenti a gruppi sociali mutevoli e in costante fusione?

 

L’essenzialismo è per hooks uno strumento ideologico ad alto rischio, perché dà risposte ancor prima che siano formulate le domande. A smentirlo è proprio la realtà, sfuggente, mai binaria, mai finalizzabile. Ciò che le sta a cuore è la verità dei corpi, la materialità delle cose e dei luoghi in cui si formano i sentimenti, le idee, i gusti, i ricordi, la volatilità del desiderio, l’incontestabilità del piacere. Sono questi gli strumenti di indagine che le fanno da bussola in oltre quarant’anni di prolifica produzione intellettuale e artistica e che diventeranno uno dei cardini del suo attivismo culturale da un lato e della sua pratica pedagogica dall’altro. La trasmissione dei saperi – come scriverà nella preziosa trilogia inaugurata nel 1994 con il volume Teaching to Transgress: Education as the Practice of Freedom (Insegnare a trasgredire. Educazione come pratica della libertà, trad. it. Feminoska, Meltemi 2020), seguito da Teaching Community: A Pedagogy of Hope (2003) e da Teaching Critical Thinking: Practical Wisdom (2010) – non può prescindere dalla biografia incarnata di docenti e discenti, dalla loro passione condivisa per ciò che nasce, ogni volta nuovo e inaspettato, da uno specifico incontro di corpi, voci e storie in situazione. Le regole, i canoni, sono strumenti per invisibilizzare e zittire: affidarsi a essi è rimanere al di qua o ai piedi dell’ostacolo. Imparare è scostarsi dal sentiero tracciato in funzione di un inesistente soggetto universale e imporre la propria unicità, prendere parola ed esigere ascolto. Imparare è apprendere a pensare con la propria testa, dolorosamente, perché il pensiero produce coscienza e la coscienza apre gli occhi ai guasti del mondo.

 

“Fuori luogo” e tuttavia venerata tanto all’interno dei movimenti femministi quanto nel mondo accademico, negli Stati Uniti, in Europa, nel Sud globale, bell hooks ha saputo inventarsi un linguaggio complesso ma non oscuro e forme comunicative spiazzanti e agerarchiche. Per lei l’“alto” e il “basso” sono categorie artificiali, la cui funzione reale è creare aree di inclusione e di esclusione. Se un pensiero ti convince e lo consideri uno strumento potente di trasformazione per tutti – questo è stato per lei il femminismo – il primo obiettivo che ti devi porre è come farlo arrivare ai suoi veri destinatari, non solo ai tuoi ‘pari’, agli ‘identici’, ai ‘già convertiti’, ma a quella massa di persone dalle cui esperienze di vita hai tratto, a forza di ascolto e analisi, la tua teoria. Non si tratta solo di restituzione, ma di continua verifica. Il femminismo – come hooks annuncia nel sottotitolo di Il femminismo è per tutti (Tamu, novembre 2021) – è una “politica appassionata”: nasce da una passione e muove passioni. Le passioni agiscono e ci agiscono. Portarle sulla ribalta pubblica è un buon modo di non chiudersi nei piccoli poteri delle accademie o dei gruppi politici. Parlare d’amore e di conflitto, del nostro corpo che invecchia, si ammala e muore, della materialità minuta, là dove il diktat politico tradizionale ci vorrebbe presi (e distratti) dalle ‘grandi questioni’ che fanno sentire disorientati e impotenti, è un buon modo di essere presenti a se stessi e al tempo di vita che ci è dato.

 

 

Kara Walker, 2020, © Kunstmuseum, Basel

 

 

Chi avesse voglia e desiderio, in questi giorni ancora così prossimi alla sua morte, di vedere bell in azione, di ascoltarne la voce, il tono, i ritmi, le pause di silenzio, di osservare la sua gestualità e il suo modo di accompagnare con l’intero corpo pensieri e parole, può trovare online materiali impagabili, mai ripetitivi, mai seriali. Ogni volta che accettava di partecipare a un evento pubblico – intervista, conferenza, performance teatrale, talk show televisivo – bell si disponeva a piegare il mezzo ai suoi intenti, non a farsene piegare. Si disponeva innanzitutto a parlare con il suo pubblico e a divertirsi. Credo vengano da lì la vivacità, la necessità che sembra accompagnare le sue parole, la loro autenticità e il fatto che paiano dette in questo preciso istante, per noi.

 

 

Segnalo in modo particolare:

- una conversazione tra bell e il filosofo africano-americano Cornel West, svoltasi nel 2015 presso la New School di New York e intitolata “Transgression”. 

 

 

-  e un’altra con Marci Blackman e Darnell Moore, svoltasi nel 2015 sempre presso la New School di New York, intitolata “On confronting loss and moving from pain to power”.

 

 

Mi piace concludere con un’opera artistica e una brevissima poesia che, da tempi/spazi diversi, parlano con e di bell hooks.

 

 

Tell all my mourners

To mourn in red –

Cause there ain’t no sense

In my bein’ dead.

“Wake”, Langston Hughes

 

Sì, piangiamola in rosso, bell hooks, non solo “perché non ha senso che sia morta”, ma perché questo componimento poetico minimo, così sapientemente black, così prossimo al marronage, alla fuga dalla piantagione schiavistica come arte del sottrarsi e del reinventarsi la vita senza paura dell’ignoto e senza troppa progettualità, le somiglia. Nel ’98, proprio qui nella mia casa milanese, di ritorno da Bologna e Firenze, dove insieme alle amiche dell’Associazione Orlando e del Giardino dei Ciliegi avevamo presentato la prima edizione di Elogio del margine (Feltrinelli) e Scrivere al buio (la Tartaruga), oggi ripubblicati in un unico volume dalla casa editrice napoletana Tamu, lo leggemmo insieme e ne ridemmo di gusto. Come mi aveva ricordato Toni Morrison in un’altra occasione, “È difficile trovare elementi sfruttabili a fini di commedia nella vita dei neri americani, eppure ti assicuro che per farcela oggi negli Usa abbiamo bisogno di un enorme grado di umorismo e ironia. Per ridere ci vuole davvero una grande abilità psicologica. A forza di piangere, ci si ritrova a dover ridere e a sopravvivere. E io non potrei mai accontentarmi di sopravvivere”.

Già, le vite che ufficialmente “non contano” sono forse la promessa più luminosa di cui disponiamo per non accontentarci di sopravvivere e bell non si è stancata di ripeterlo e di dimostrarlo. Quel suo insistere sul concetto che il margine non è un destino e il centro non è una meta, quel suo “fare comunità” abitandoli entrambi senza appartenere né all’uno né all’altra, le hanno permesso e permettono a noi di pensare al femminismo come a una passione radicale che contesta il potere invece di reclamarlo. E la scrittura, che per hooks è uno spazio di resistenza, diventa un luogo da cui guardare altro e meglio, anche quando tutto sembra condurre alla stasi, al per sempre o al mai più.

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