“Bestemmia”. L’umanità ferita di Valdoca
C’è una domanda addolorata e sgomenta che risuona con un accento cupo in Bestemmia, ultimo lavoro del Teatro Valdoca, che ha debuttato al Teatro Bonci di Cesena dal 17 al 19 ottobre (prodotto oltre che dalla stessa compagnia, da ERT-Teatro Nazionale) su testo di Mariangela Gualtieri con regia e scene di Cesare Ronconi: “Chiedo se fra me / e chi ha devastato (..) ci sia distanza vera” oppure se il nostro “vuoto” (un noi che chiama in causa anche chi pure si indigna per la devastazione del mondo o i genocidi) “non sia qualcosa che sta preparando anche me a quell’odio”. Un inedito pessimismo, affidato al “ragazzo pensoso” (Nico Guerzoni), quasi un doppio filiale della figura dell’autrice poeta, che nel ruolo di “donna che guarda” osserva, come noi spettatori, la scena al centro di una platea coperta di lenzuoli bianchi. Sono “come i sudari dei corpi dei palestinesi” recitano le note di regia o il cretto di Burri che copre con pietà le macerie di Gibellina. Coprono il vuoto, i corpi mancanti degli spettatori. I palchi del Bonci sono pieni, in tre repliche sold-out, ma quel monito d’essere il vuoto complice resta sospeso nell’aria, nelle coscienze.

Lenzuola bianche, inevitabili e forse non volute, ma marcatore metateatrale nella memoria visiva, sui mobili della villa della tenuta Ranevskaja, con il suo giardino di ciliegi raso al suolo, simbolica devastazione con cui Čechov nel 1904 annunciava l’intuizione di un XX secolo che avrebbe portato distruzioni morali e fisiche. In Bestemmia ci sono note di pessimismo, o di nostalgia verso una “cosa non cosa” che manca, come manca “lo sgomento d’esserci” rispetto a un tempo passato. Gualtieri e Ronconi stanno però oltre la paralisi stile ‘900, con la volontà di muoversi, di praticare una mobilitazione. Non solo con il ritorno all’azione scenico-teatrale dopo quattro anni dall’ultimo spettacolo vero e proprio (Enigma. Requiem per Pinocchio, del 2021) a parte gli assolo dei “riti sonori” di Gualtieri, ma con un invito a fare comunità. Si parte così dal simbolico avvio di spettacolo, un “Prologo dalla finestra del Teatro Bonci” con Mariangela Gualtieri che, radunati gli spettatori in piazza, pronuncia allarmata le sue “parole alla città” mentre qualche passante si ferma curioso, altri passano ostili, come un gruppo di bikers nella replica domenicale, che in tuta nera sgassano con le moto, rumorosamente (anche loro involontariamente simbolici di ciò che sta intorno al teatro-rifugio). Gualtieri, come Carmelo Bene dalla Torre degli Asinelli nel 1981, parla al suo presente, a “noi che tremiamo vedendo l’umano spietato”. Quaranta anni dopo le bombe del terrorismo che spinsero alla performance di Bene, il terrore è mondiale. La specie accelera in crudeltà, vedendo “i ricchi al comando e i sapienti scoraggiati nell’ombra”, vedendo il “deserto che chiamiamo pace”. Eppure, prosegue la poeta, “cerchiamo insieme un coraggio” nell’assemblea teatrale della comunità, fragile corpo a corpo, dove non si dimentica che esista il “ruvido umano” (come nel titolo dell’ultima sua raccolta per Einaudi del 2024) ma che si contrappone anche un “pensiero spalancato alla bontà”. Bontà è un concetto pericoloso, Gualtieri accetta il rischio, anche di un dettato poetico semplice e disarmante, ma con scintille di luce. La bontà non è “il bene” ideologizzabile e falsificabile (“non mi interessa il bene” si dirà più avanti). La bontà come atto puro, un’accettazione dei viventi che accade nel vivere, nell’imparare dal fiore e dall’animale più che dalla ragione, “Miglioreremo. / Siamo qui da poco/ Ancora non capiamo” ha scritto Gualtieri nei suoi versi. Siamo a teatro per iniziare a farlo.

Nel centro della platea avvolta nel suo sudario di luogo morente, una lettiga di fattura orientale, di legno, come altre volte usata da Ronconi, su cui Gualtieri siede, ascolta, a volte è sdraiata come se lavorasse col sogno, altre volte prende la parola. Al suo fianco una figura bianca ed esile, nel corpo mobile e indecifrabile creatura oltre il femminile-maschile ma anche l’umano stesso, Silvia Calderoni. La quale, come già fu Pinocchio in Enigma, è creatura danzante di dinoccolata fluidità, di nuovo emblema del vivente in futura evoluzione, per una specie che deve essere “rifecondata”, scrollandosi di dosso i presupposti della specie medesima. Come sempre con Teatro Valdoca è tutto evocazione di un “enigma” in cui parola e gesto teatrale sono scioglimento e condivisione, non potere di un Mago dominatore. E sta nell’agitarsi allegro della figura incarnata da Calderoni, a volte contratta, le mani sulle orecchie, come vittima di bombe che sentiamo sibilare e risuonare angoscianti nello sciame elettronico dei suoni. Oppure quando con abbigliamento bianco, con un cappellino-maschera di carta, prende per mano la poeta e insieme corrono leggere. Calderoni sembra un Ariel di terra, che affianca in duetto Gualtieri (che però è un anti-Prospero). Intorno spesso sale un canto di una voce sospesa e avvolgente, che davvero incanta, ed è affidato a Sara Bertolucci, che sulle tonalità di soprano crea un’eco di pace possibile, un “lullaby” sacro in attesa di un risveglio.

Bestemmia, rispetto ad altri lavori (da Paesaggio con Fratello rotto a Caino, al già citato Enigma, solo per stare negli ultimi vent’anni) è meno immaginifico, ci sono meno composizioni allegorico-coreografiche dei corpi e oggetti in scena, come se Cesare Ronconi avesse scelto solo tocchi pittorici sparsi, lasciando spazio al testo. Dal buio, nel gioco di luci a terra, come tracce di un affresco, ecco le ali tenute in braccio dal “Ragazzo pensoso”, “l’uomo dolce e forte” (Giuseppe Semeraro) con megafono o un ramo da rabdomante, trascinando una slitta, come un pastore errante. Un misterioso tubo, appeso di lato, oscilla tutto il tempo, lampade sparse in un’atmosfera sospesa, che riflette il “tempo dell’”attesa” in cui – come dice “L’uomo dolce e forte”, siamo “imprigionati”. L’impatto di scena è meno forte di altre volte, ma forse, per dirla con il poeta Mario Luzi, è come “battesimo dei nostri frammenti”, fatto nel necessario sottrarsi anche a sé stessi.
Bestemmia è più un concerto per diversi elementi artistici, visivi, linguistici, sonori. Questi ultimi sono una componente quasi portante: oltre la voce di Bertolucci, tra rumori e musiche il disegno di risonanze a cura di Lemmo ed eseguito dal vivo è davvero bello. Siamo di fronte al dolore degli altri, lo dice “la ragazza dei segni” (la bravissima Eugenia Giancaspro) alternando parole al discorso fatto con la LIS, la lingua dei segni, è sottrazione dal linguaggio, strumento complice di quel senso di spegnimento che avvertiamo nella nostra epoca, “una quasi morte che si impicca dentro me” dice la poeta in duetto. Susan Sontag avvertiva il pericolo che proprio lo spettacolo del dolore (e con le parole anche “sul” dolore) facesse annidare nella compassione l’inizio di un processo di distanza e autoassoluzione. In qualche modo un richiamo a sabotare la propria rappresentazione. Similarmente, in Bestemmia, e proprio nel cuore di questo concerto-rito sta il dire, ma senza il suono del detto, si sta fuori dalla parola (ovvero l’astrazione simbolica come unicum dell’umano, del Sapiens, tra i linguaggi dei viventi, piante comprese). La “ragazza dei segni” lo porta al centro, anche a nome non solo di chi non ode, ma anche della metà della specie umana, quella femminile, che nei secoli è stata “murata nell’espressione”. Se la parola può essere “bestemmia” o spada, questo diverso appello di segni è il parlare altro, nel corpo-linguaggio, tramite un’auspicata “bontà intelligenza vegetale” o di “animale che ama”, come la poeta invoca verso la fine, materia di senso diretta come luce del sole, o acqua che nutre. “No sapere no formule” aveva detto il “ragazzo pensoso”, consapevole di aver “perso a farsi sostanza / portato come ferita / l’essere verbo come cosa cruda”. Nell’anno di san Francesco, Gualtieri e Ronconi affidano alla “ragazza dei segni” la parte più significativa dello spettacolo, tra tanta parola poetica e suono: quel monologo in LIS che si percepisce nel silenzio, essere senza verbo, fecondazione, che diventano evidenti senza essere “significanti” fono-simbolici, segni che dicono tutto, nel loro assoluto non dire, raggiunta pienezza di significato proprio nel coincidere, quasi misticamente, col silenzio, “lux” senza bisogno della parola “fiat”, fotosintesi del sole, fecondazione, agire della vita a vivere, omaggio più puro alla parola stessa, salvata dal suo rischio di diventare, anche con le migliori intenzioni, vuota, il rischio di poter essere falsa o rumore bianco, mentre terminato il rito-concerto, nel farsi buio del teatro, il silenzio accoglie l’eco di un pulsare, una possibile traccia di universo e di particella, come proveniente dal buco bianco della vita.
Le foto dello spettacolo sono di Simona Diacci Trinity.