La storia messa in scacco dall’amore
Nel buio del teatro Goldoni di Venezia compare un cane da macerie, il soccorritore lo segue, con la luce d’emergenza sul caschetto fende l’aria avvolta nel fumo. Saliti sul palco dalla platea, il cane abbaia, dai resti diroccati vengono estratti due giovani. È una scena di immediata suggestione poetica e scacco metateatrale che il regista Fabrizio Arcuri ha ideato come incipit per l’adattamento (scritto da Fabrizio Sinisi come Dramaturg) di Ancora Tempesta, spettacolo tratto da questa ampia opera narrativo-teatrale di Peter Handke, al centro di un progetto del Teatro Stabile del Veneto che lo produce, dedicato al premio Nobel austriaco con incontri e convegni. Immer noch Sturm (così in originale, da un verso shakesperiano del Re Lear) è concepito come un’ampia sinfonia in cinque movimenti, che Sinisi ha efficacemente contratto in unica suite di circa due ore, in cui l’Autore, che si denomina testualmente come anonimo pronome (“Io”) in prima persona ci guida nel racconto dei fiumi carsici familiari, sfociati nella sua nascita. Uno scavo nella verità di quell’Io a cui Arcuri oppone come un Senhal, un controcanto, il cane da salvataggio Chabal, che non recita, ma salva davvero, dal suo punto di vista, due persone. L’animale è sempre nella sua verità, così vorrebbe essere l’Autore-Io, inchiodato all’irriducibile sdoppiamento della lingua, del testo, anche se attinge al pozzo della memoria, scavando e cercando di salvare un’autenticità. L’Autore è sul palco Filippo Dini che sarà sempre guida ma anche spettatore, con la sua fisicità affabulatoria, dentro il territorio opaco del ricordo, che prende forma in un disegno onirico della scena di Daniele Spanò e nell’atmosfera sospesa delle luci di Giulia Pastore, su due livelli di palco, stilizzate case e campanili, a sovrapporre sogno e finzione, fari di scena, una telecamera. Simultaneità e sincronicità fluttuano nelle atmosfere nebbiose della brughiera, in un tempo che è “Oggi, nel Medioevo, o quando” dice l’Autore nell’incipit e in un luogo, la valle Jaunfeld della Carinzia, che vorrebbe essere universale, con una panca, un melo, un muro diroccato. Un “qui e ora” nella Storia fatta delle guerre del XX secolo (ma anche del XXI) e di sempre.

Il teatro psichico di apparizioni e agguati emotivi, che l’Autore snoda con tentativo di vigile distacco brechtiano, sarà storia familiare ma anche riflessione e condanna della violenza della storia. Handke lo fa mettendosi in gioco, sotto un velo di anonimato, con la propria biografia e quella dei suoi avi, le loro scelte che come tutti marcano l’identità. L’Autore racconta la sua origine lacerata: nato in Carinzia, da avi della minoranza linguistica slovena, integrati a forza nell’Austria e poi nel Reich, a cui è imposto il tedesco. È una minoranza oppressa, ma come accade in La Storia di Morante, dentro lo scandalo che dura identico nella sua violenza da diecimila anni, per paradosso c’è il cuore di un altro “scandalo”: una madre che si innamora di un soldato nazista. E proprio da quella passione nascerà l’Autore, che sarà figlio di contraddizioni insanabili. In lui vivrà nella genetica una doppia genealogia, di oppressi e oppressori, sloveni e tedeschi, a cui si somma la scelta della famiglia della madre di lasciare la Carinzia per Berlino – che farà di lui di fatto a pieno titolo un parlante la lingua degli oppressori, senza ricordare quella degli avi, e quella con cui però – come Paul Celan – genererà scrittura, poesia. Esperienza simile ma opposta a Kaspar Hauser, a cui pure Handke ha dedicato una pièce, per il quale il linguaggio è coscienza di un’origine, ma anche dell’indottrinamento subìto, mentre per l’Io di Ancora tempesta il tedesco è prigione di carne, di geni, è una condanna come quella del prigioniero nella “Colonia Penale” di Kafka. La lingua è scritta sul corpo, è scrittura del corpo.
Ancora tempesta forma il resoconto di un bilancio di inconscio e di storia, con un impianto post-drammatico che Arcuri segue e reinventa, dalla voce narrante e didascalie come flusso recitativo, risolto sia da leggerezza interpretativa che da trovate sceniche (una su tutte il dialogo tra l’Autore e la TV da cui fuoriesce il corpo del conduttore del TG) facendone uno spettacolo con una fitta rete di meditazioni che virano più verso la grazia teatrale che la pesanteur filosofica. I personaggi-avi si presentano usando una telecamera, mimando provini o docufiction – gesto post-drammatico ma anche segnale epocale del modo di dire chi siamo – affidando flussi emotivi a protesi tecnologiche e digitali con cui scriviamo come fossero nostre, delle vite che non lo sono. Come noi è anche l’Autore-Io che ci parla sdoppiato dal palco, che racconta, ricostruisce, inventa, nelle cinque scene in cui scopre le storie degli avi che troviamo – con l’Autore – “tutti giovani” come li definisce (nelle foto in bianco e nero, dove sono sempre “tutti bellissimi”). Ecco la storia di una madre a suo modo ribelle (nell’intensità performativa di Margherita Mannino, nel doppio ruolo di nonna e madre) opposta al padre (Michele Guidi ) che sa solo essere patriarca del divieto, le vite degli zii dell’Autore, in quegli anni di guerra in cui è nato: Ursula ( Jessica Sedda) da subito convinta partigiana, mentre gli altri fratelli maschi Gregor, Benjamin e Valentin, due caduti al fronte e uno dato alla macchia anch’egli per combattere i nazisti (Isacco Bugatti Tommaso Russi e Simone Pedini).

Sono le scelte individuali, anche se indirette, a fare la Storia e insieme l’identità dei singoli. La storia perché è in quella comunità che accadrà l’unico episodio di guerra partigiana entro i confini del Terzo Reich. Lo scavo psicologico dell’Autore disegna nella stessa creazione del racconto gli eventi che trova/ricorda (ma forse inventa, modifica?) che appaiono qui nell’affabulazione di Filippo Dini, vero motore narrativo – e del ritmo di recitazione del gruppo – scivolando fluida, dando impulso emotivo alla prosa densa di Handke. Un Dini-Autore, ma anche attore-mago, che viaggia sui saliscendi del dramma con un filo di malinconia e umorismo e fa del suo personaggio un Prospero che estrae dal buio nebbioso i fantasmi, ci parla, tra dentro e fuori, nel rimpallo della scena, da spazi separati. Gli Antenati, più che personaggi in cerca dell’autore (la suggestione pirandelliana ci arriva dall’ultima regia di Dini) sono anime in cerca di un varco temporale, tra generazione biologica e storia, in cerca di un posto, non avendo una Heimat né più una lingua. Quel posto è l’inconscio dell’Autore, il “discendente” (“sei l’unico che ancora ci sogna” e quello è il suo destino paradossale di nomade: “Un posto lo trova chi se lo porta dietro”). Handke evoca e accusa il vento della Storia, che trascina macerie sebbene riservi anche mutamenti: ad esempio lo zio Valentin, col suo inglese, che guardava all’America, che sarà nuova patria dell’imaginario occidentale con la pace degli alleati (ma l’Autore è scettico “Che pace sarà?” si domanda. E Sinisi e Arcuri la fanno riverberare sul presente). Ma non c’è scampo per l’Autore, perché cercare rifugio tra gli avi è anche peggio: gli Antenati comandano, sono l’imperativo reazionario del clan, identitarismo come base del nazionalismo e di ogni guerra combattuta nel nome dei padri, dei popoli, di religioni, ideologie. Lo era stato il Reich, ma ricompare anche nello sgomento della partigiana Ursula di fronte alle foibe, primo sintomo delle guerre fratricide future della Jugoslavia. La violenza della storia non lascia speranza, è un meccanismo feroce, il messaggio di Handke è chiaro. La nazione, “rifugio e prigione”, ogni volta si ripresenta come incubo, come zombie della Storia e fa dire all’Autore: “la tempesta sta ancora infuriando. Tempesta continua. Ancora tempesta”.

La via d’uscita è forse una genealogia ibrida di una specie storta, fatta di non appartenenza, nella provocazione di farsi bastardo o scomodo, che fa specchio alle scelte di Handke, personali e intellettuali. Scegliere il cognome del padre nazista, farsi autore provocatorio di libri come Insulti al pubblico, essere critico verso la Germania, l’Europa, fino all’elogio della Serbia di Milosevic, provocando proteste quando gli fu assegnato il Nobel nel 2019. Tuttavia è proprio la biologia, più che l’ideologia antioccidentale, a riscattare Ancora tempesta e l’arte prima che l’intellettualismo. Arcuri e Sinisi più che Handke affidano rilevanza al personaggio della madre e al suo orgoglio dell’amore, che fu tale anche se “per una notte”, rivendicazione che ha il compito di smontare ogni logica amico/nemico. Lo stesso per gli antenati, lasciati alla fine senza posto né luogo, liberi da bandiere identitarie di odio, che ritornano nel nome di un “power of love” – le note di Frankie Goes to Hollywood risuono alla fine – e sopravvivono come anime sparse di intimità, che Filippo Dini, sceso in platea, spogliato del suo personaggio, ora convoca tra gli spettatori. Siamo in un post-dramma, in cui tutti siamo chiamati – i vivi e morti, i personaggi e le persone – ad essere una comunità di chi non ha comunità (secondo la definizione di Blanchot) senza patrie né guerre, di nuovo nel tremolio della penombra di un teatro che si illumina nel suo cielo-tetto, in tutta la sua bellezza e finzione. Anime che salutano silenziose, dopo aver raccontato le storie e le scelte, fatte, alla fine, secondo quella parola che il nonno proibiva: “Amore”. È l’Autore che ora la dice, nel nome del Padre e della sua lingua, ma col carico di un’eredità di genealogia culturale in cui Liebe (ma anche l’americana “Love”, perché no) porta con sé un carico di poesia. Una sorta di scacco che l’Handke poeta fa all’Handke militante dalla parte del torto, perché – come scrive Sinisi nella sua nota citando la scrittrice Han Kang – “nella notte più buia, il linguaggio ci chiede di che cosa siamo fatti”. Così è in Liebe che sta il bagliore di una sola notte luminosa d’amore, una materia della vita che si opporrà sempre all’oscurità di una diversa notte, quella della Storia, che porta con sé violenza, eserciti, bandiere, identità e appartenenze. Fossero anche le appartenenze agli amati, ma soffocanti antenati, Ancora Tempesta ci invita a gettarle via, con atti di amore ribelle.
Le fotografie sono di Serena Pea.
