Le cronache crepuscolari di Peeping Tom
La prima cosa che colpisce ad apertura sipario della scenografia di Chroniques è che non ci sono le consuete ambientazioni iperrealistiche, come giardini, salotti, case, alberghi, che poi diventano teatro di immagini oniriche dentro cui si sviluppa la vertigine coreografica di Peeping Tom. Vertigine complessa e articolata tanto da strutturarsi come racconto corale, come ad esempio in Triptych, o A Louer e altri spettacoli. Nella nuova creazione della compagnia fondata da fondata da Gabriela Carrizo e Franck Chartier, che ha debuttato in prima nazionale al Teatro Valli di Reggio Emilia il 27 e 28 settembre, nell’ambito del “Festival Aperto”, ci si trova subito in una scena più semplice, disegnata da Amber Vandenhoeck, che presenta un mondo compatto, grigio e in penombra, che rimarrà – nel disegno di luci di Bram Geldhof – sempre in questa dominanza crepuscolare. Sulla scena solo alcuni massi dello stesso colore, alle spalle pannelli egualmente di richiamo lavico, su un lato un tavolo.

Sul palco iniziano a comparire diverse figure, dai costumi (disegno di Jana Roos, Yi-Chun Liu e Boston Gallacher) sembrano alludere a varie epoche: in primo piano un uomo di età mitica, forse un Sisifo o Prometeo, in piedi sul masso, poi strane figure con copricapi tondi e tuniche monacali, mentre l’ambiente sonoro dai rumori di foresta vira verso armonie che ricordano le scale pentatoniche scivolose suonate dagli Erhu cinesi (e poi si evolverà integrando massicce dosi di musica classica). Da qui in poi vedremo successioni di quadri temporali che, nella poetica di flusso ed estensioni tipica anche del lavoro sui corpi di Peeping Tom, scivoleranno una nell’altra, quasi a creare un album di quadri con accenni a varie epoche fino alla modernità, tutte coesistenti. È il tempo, infatti, il tema dominante di questo nuovo lavoro, fotografato però in una dimensione di trasformazione e metamorfosi che fonde presente storico e arcaico, in una dilatazione “lunare”, in un “affresco” monocolore cupo e malinconico della storia umana. La struttura in metallo, davanti al fondale, ricorda le impalcature dei restauratori. La ballerina vi è aggrappata, come in altre epoche fecero Michelangelo o Masaccio. Forse l’aspirazione di Gabriela Carrizo, ideatrice di Chroniques, è di scrivere una riflessione sul senso del tempo umano ma in una sincronicità di quadri in cui le figure umane, scrive la regista nelle note, sono “intrappolate in un labirinto temporale, dove mutano e si scontrano nel tentativo di sfidare l’immortalità”.

Progetto ambizioso che sottende una autoriflessione probabilmente. Chroniques, diretto da Carrizo in co-realizzazione con Raphaëlle Latini che firma anche il paesaggio sonoro, segna un passaggio oggettivo, dato che è la prima volta che è in scena un nuovo gruppo di danzatori-creatori: Simon Bus, Seungwoo Park, Charlie Skuy, Boston Gallacher e Balder Hansen. La loro prestazione è buona, con alcuni picchi, ma nel complesso non si vedono le invenzioni figurali dei corpi che contraddistinguono i lavori di Peeping Tom. È anche la creazione coreografica più semplice, a tratti monotona. È un mondo al lavoro, sono corpi nel passaggio all’Antropocene, e all’età della pietra e del ferro, con i monaci che maneggiano caraffe, martelli, scalpellano, creano sostanze alchemiche. Umanità nella trasformazione della materia, senza dimensione narrativa: in Chroniques dominano frammenti, lampi, presenze, visioni. Dentro un tempo che – nel balenio che dona le conquiste contemporanee della fisica quantistica – è solo spazio di trasformazione e non una successione lineare, in senso anti-storico, fatto di sovrapposizioni di metonimie che come razzi fanno comparire segnali di allusione a fondazione di imperi, conquiste coloniali, sviluppo della civiltà industriale. Tutto in una motilità senza requie, con tratti di giocosità: buffi rapporti con il mondo petroso che in realtà è gomma, con effetto Kindergarten. Una vena infantile anche nell’entrata in scena di guerrieri-nani conquistadores che usano i copricapi tondi dei monaci come grandi scudi da cui sporgono solo piedi e teste. Così come comico è il “salary-man” in abito standard che scopre la violenza.

Nel caos dei tempi, una delle componenti dominanti è proprio la brutalità – ad un certo punto, una “partitella” con cui i monaci prendono a calci una mano tranciata – che però sono quasi accidenti, gag comiche. Lo è la “scoperta” di un’arma da fuoco, con richiami alla sequenza inziale a 2001 odissea nello spazio di Kubrick, con movenze del danzatore quasi da primate (e questo è davvero un bell’assolo e l’arma sembra dominare il corpo che si contorce oltre l’immaginabile nel tentativo di domarla). I colpi esplodono, corpi vengono abbattuti. Resta però l’atmosfera ludica e infantile del gioco, in cui i corpi cadono quasi sbadatamente, a sottolineare la fragilità umana. L’impressione è che pesi anche una certa visione pessimista. Le “cronache”, nonostante anche l’apparizione di una figura con tuta rossa, da astronauta interplanetario, che simbolizza i tentativi utopistici extramondani, sono ben diverse dallo spirito di quelle Cronache di Narnia, ad esempio, del cattolico C.S. Lewis e non alludono a teleologie positive come in quel caso. Quelle create da Peeping Tom sembrano più allegorie di una tempesta sull’orlo di un abisso. Nelle note di regia Carrizo scrive che “i corpi rivelano altri comportamenti e possibilità di essere, senza sapere se si trovano al crepuscolo o all’alba della loro esistenza”.
Si resta in una sospensione, con tonalità emotive e cromatiche da impasto opaco. Si può associare la Bufera di neve di William Turner o il Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich. Nella nebbia compaiono verso la fine anche strani animali meccanici, e qui il pensiero corre subito a due lavori recenti, uno di FC Bergman Le opere e i giorni e l’altro di Marco D’Agostin Asteroide (in scena nella rassegna di Reggio Emilia) perché in entrambi gli spettacoli (che hanno un’idea vagamente di storia planetaria se non cosmica come in Asteroide) alla fine compare un identico animale meccanizzato – nei casi citati è proprio il modello di cane robot, di ultima generazione. Peeping Tom ne usa uno più grezzo, con arti ferrosi, collegati a un motore che genera movimenti scomposti e casuali. Richiama le creature dei Mutoid Waste Company per la Fura del Baus. In ogni caso è il simbolo di una creatura insondabile che rappresenta forse proprio l’imperscrutabile futuro, in sintonia con la poesia della sorpresa del movimento del gruppo belga. La sensazione di cupezza, tuttavia, di futuro incerto e difficile da immaginare, resta e forse appesantisce l’impressione generale.
Non c’è un finale tragico e apocalittico, ma circolare, con le cinque figure – l’uomo prometeo, il salary man, i monaci-conquistadores – che tornano tutte in scena e sistemano la confusione degli oggetti sul palco che si è creata. Quasi un “chill-out” metateatrale e anche una exit strategy di mestiere, per un lavoro sempre di un livello raffinato, ma decisamente più debole e irrisolto sul piano dell’inventiva coreografica e drammaturgica, rispetto a spettacoli precedenti.
Chroniques sarà il 2 e 3 ottobre al Teatro Danza Festival di Torino e l’8 e 9 ottobre alla Triennale di Milano nell’ambito di Fog Festival.
Fotografie di Virginia Rota.
