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Calvino, Un dio sul pero

27 Novembre 2023

Tutti sanno che il libro d’esordio di Calvino è il romanzo Il sentiero dei nidi di ragno, uscito nell’ottobre 1947; e molti non ignorano che a quell’altezza cronologica avevano già visto la luce la maggior parte dei racconti poi editi in Ultimo viene il corvo (1949). Ma all’intensità creativa dello scrittore ligure durante quel decennio fa riscontro una altrettanto spiccata coscienza autocritica. Calvino diventa Calvino attraverso un percorso serrato, che implica una severa valutazione e selezione delle proprie opere: un lavoro di auto-definizione, di costruzione di sé in quanto scrittore, non privo di esitazioni e ripensamenti. Per apprezzare l’importanza e la natura di questo processo era indispensabile disporre di un quadro complessivo: che oggi abbiamo finalmente a disposizione, grazie all’impegno e alla competenza di uno dei massimi studiosi di Calvino, Bruno Falcetto. Del quale, sia detto per inciso, è davvero singolare che non sia stato ancora pubblicato un volume di saggi calviniani: ma speriamo che la lacuna venga colmata a breve.   

Un dio sul pero. Racconti e apologhi degli anni Quaranta, da poco uscito negli Oscar Mondadori, raccoglie 50 narrazioni brevi, suddivise in tre parti. La prima, intitolata Racconti 1945-1949, presenta 16 testi, la maggior parte dei quali pubblicati su giornali o riviste, più alcuni editi postumi in varie sedi (e già compresi nel terzo «Meridiano» dei Romanzi e racconti), nonché la novità assoluta – una vera sorpresa – di una narrazione fantastica dal titolo Ogni notte di sabato una monaca è bionda, di cui si dirà più avanti. La seconda, Chi si contenta. Raccontini e apologhi 1943-1944, conta 28 testi, tutti precedenti la stagione della Resistenza, assolutamente decisiva nella formazione dell’autore (che ne avrebbe parlato addirittura come di una seconda nascita); e tuttavia, dopo avere a suo tempo ideato il titolo e abbozzato un indice, Calvino riprende nel 1946 l’idea di una raccolta e ipotizza un indice nuovo, il che significa che, dopo tutto, non sentiva troppo lontana quell’esperienza, nemmeno dopo aver scritto Andato al comando o Campo di mine. La terza parte, intitolata Primi racconti 1941-1945, comprende sei testi, tutti inediti: i reperti più antichi di un cantiere letterario che in precedenza aveva prodotto solo puerilia teatrali. 

Gli anni Quaranta sono per Calvino, come scrive benissimo Falcetto, «anni di precoci maestrie e laborioso apprendistato». Il punto di partenza è una scrittura «a matrice umoristica», una «scrittura “disegnata”»: il giovane Italo, appassionato lettore di giornali umoristici («Bertoldo», «Marc’Aurelio», «Settebello»), dimostra un’inventiva estrosa e bizzarra e uno spiccato gusto della comicità surreale (L’uomo che chiamava Teresa ricorda le storie del signor Veneranda di Carletto Manzoni), ma anche la capacità di mettere a fuoco con efficacia sia temi antitotalitari e antimilitaristi (Coscienza), sia spunti di carattere esistenziale: «Sono “corti” che narrano di identità deboli, elusive, manovrabili, con una vocazione all’inerzia, disposte al mimetismo, che poco si riconoscono nei propri atti». Basti citare Non fidarsi è meglio, tutto giocato sul filo del paradosso; Chi si contenta, il testo eponimo di un’eventuale raccolta, che mette alla berlina sia l’ottusità del potere, sia la fatuità delle masse; La pecora nera, che anticipa uno dei più noti apologhi del Calvino maturo, La coscienza a posto (alias Apologo sull’onestà nel paese dei corrotti); Solidarietà, con un protagonista che si direbbe uno Zelig ante litteram (il gusto del travestimento avrà interessanti sviluppi, ad esempio nella fiaba La città abbandonata del Teatro dei ventagli). Si tratta di testi brevi, lunghi di solito non più di due pagine, che però, per sintesi, chiarezza delle situazioni e immediatezza espressiva, si possono anche prestare bene a un uso didattico. Ironia, umorismo, scatto fantastico: molti dei tratti distintivi del Calvino maggiore si manifestano qui allo stadio embrionale, ma non senza una loro misura stilistica, spesso felice. 

Un interesse particolare hanno naturalmente i racconti meno acerbi, non di rado decisamente pregevoli, e non troppo lontani da quelli che hanno poi trovato stabile collocazione nella bibliografia calviniana. È il caso di Flirt prima di battersi, Vento in una città, Amore lontano da casa, Come non fui Noè, solo per citarne alcuni: e non si può non ricordare Come un volo d’anitre, il primo racconto politico con un protagonista «a livelli minimi di consapevolezza» (la scelta su cui s’impernia la strategia del Sentiero). Molto giustamente Falcetto mette in luce il crudo sostrato esistenziale delle narrazioni partigiane. «Scritture del trauma», secondo una sua pregnante definizione: del resto, lo stesso Calvino aveva parlato di trauma a proposito dell’impatto con la violenza della guerra nella Prefazione 1964 al Sentiero. A tale proposito vale la pena di citare la dichiarazione di un capo partigiano, Bruno Luppi, il «comandante Erven», riportata nel recente volume di Daniela Cassini-Sarah Clarke Loiacono Italo Calvino. Il partigiano Santiago (Fusta editore, Saluzzo, 2023). Calvino aveva militato nel reparto di Erven nella seconda metà di giugno del 1944: poco dopo la Liberazione, di una sua testimonianza intitolata Le battaglie del comandante Erven rendeva conto il volume curato da Mario Mascia L’epopea dell’esercito scalzo, (A.L.I.S., Sanremo, s. d. ma 1946). In una lettera a Pietro Ferrua (Savona, 19 maggio 1981) Luppi ricorda il seguente episodio: «un giorno una pattuglia nostra aveva catturato un fascista (civile) e tutto il distaccamento era per la sua fucilazione. Poiché si trattava di un caso particolare, io adunai una specie di tribunale; ebbene Calvino fu con me nel sostenere di rimandare a fine guerra il giudizio su costui e non fu condannato». 

Per il resto, nella seconda metà degli anni Quaranta la narrativa breve calviniana gravita – sostiene Falcetto – fra due poli, storie di coppia e storie operaie: gravate queste ultime da quel rischio di grigiore che riuscirà fatale ai tentativi di romanzo del decennio successivo (episodio principe, I giovani del Po). Un inedito assoluto, e per più versi sorprendente, è invece Ogni notte di sabato una monaca è bionda, «storia di sbalordimenti e trasformazioni multiple», che ha per protagonista una monaca «mutante». Il testo è rimasto allo stadio di manoscritto, indizio di un esperimento precocemente abbandonato. Curioso è tuttavia vedere un Calvino che sembra ispirarsi a Barbey d’Aurevilly, magari per effetto della allora recente edizione della raccolta Le diaboliche (Les diaboliques) tradotta da Camillo Sbarbaro (Bompiani 1945). E se è facile constatare che la direzione che aveva imboccato nel suo lavoro era ormai troppo diversa, non potranno sfuggire alcuni motivi ricorrenti nell’immaginario calviniano (la monaca trasformata in femme fatale presagisce sia la Claudia della Nuvola di smog, sia la bifronte figura di Bradamante / Suor Teodora nel Cavaliere inesistente).    

Quanto ai primi racconti, due sono gli aspetti più notevoli. Innanzi tutto, la precoce opzione di Calvino per una scrittura «agile e libera» (Falcetto), cifra stilistica che contraddistinguerà a lungo anche le sue prove più celebrate. In secondo luogo, la capacità di messa a fuoco: fin da questi suoi preistorici tentativi, Calvino sembra avere un’istintiva  capacità «di scegliere e far leva su cosa non raccontare» (corsivo mio). Infatti nella sua carriera prediligerà la forma del racconto, della short story, e più avanti del racconto-descrizione, del racconto-saggio, del dialogo e del poemetto in prosa (Le città invisibili). Tanto più interessante risulta dunque questo inventario del cantiere del Calvino anni Quaranta, giovane ancora, ma già avviato a divenire un indiscusso maestro della scrittura breve.

martedì 28 novembre ore 11
Biblioteca Europea

Leggerezza
con Andrea Cortellessa

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