The Space Between. Gordon Matta-Clark e le Twin Towers

12 Settembre 2011

Una foto in bianco e nero, di piccolo formato (25,4 x 20,3 cm), stampata in venti copie, intitolata Anarchitecture: The Space Between o anche Untitled (Anarchitecture). La foto è anonima, ma non vi è alcun bisogno di didascalie: si tratta delle Twin Towers prima dell’11 settembre 2001. La foto risale al 1974 – appena un anno dopo l’inaugurazione del World Trade Center – quando viene esposta a 112 Green Street, uno spazio alternativo di SoHo, in occasione della mostra inaugurale del gruppo Anarchitecture. In opposizione alla politica autorale delle grandi opere architettoniche che ridisegnavano all’epoca l’orizzonte di Manhattan, come il World Trade Center di Minoru Yamasaki, Anarchitecture promuoveva l’anonimato della fotografia. Sappiamo pertanto che dietro all’obiettivo vi era l’animatore delle loro pratiche artistiche sperimentali e non strutturate, ovvero Gordon Matta-Clark.

 

Guardare oggi questa foto vuol dire leggerla attraverso l’11 settembre – impossibile resistere al richiamo dell’azione differita o dell’après-coup. Questo cortocircuito tra passato e presente rende però sinistre le due X che Matta-Clark traccia sopra un disegno delle torri, con la scritta: “Erase all the buildings for a clear horizon”. Lo stesso vale per Two Highrises (with Disruptions)/Two Witnesses (Red and Green) di John Baldessari, una foto del 1990 con le torri gemelle che si sbriciolano. Nel caso di Matta-Clark, si tratta meno di un gesto di distruzione o cancellazione che di una metaforica obliterazione, in cui il segno lascia vivere quanto vuole negare. Il segno della matita nera sovrapposta sull’architettura è lo stesso segno che, nelle opere successive, affetterà letteralmente in due gli edifici suburbani con l’aiuto di una sega elettrica. Alla base di queste due pratiche artistiche, ritroviamo la stessa interrogazione: cos’è lo spazio architettonico? come rapportarsi agli spazi privati, alla loro inaccessibilità e non trasparenza? come resistere attivamente alla razionalizzazione dello spazio urbano?

 

 

Anziché insistere sul rapporto tra passato e presente, tra la costruzione  e il crollo del World Trade Center, mi sembra che questa foto presenta altri rapporti, in particolare tre su cui vorrei soffermarmi. Il primo rapporto, il più evidente, è quello tra pieno e vuoto: il soggetto della fotografia è lo spazio tra le due torri piuttosto che la celebrazione dell’architettura appena inaugurata. Matta-Clark ribalta, qui come nel resto della sua produzione, l’idea modernista secondo la quale l’edificio isolato è l’elemento positivo e lo spazio circostante quello negativo, un vuoto o tutt’al più una cornice. Matta-Clark prova un senso di claustrofobia nella confusione metropolitana tra spazio esterno e spazio interno, spazio pubblico e spazio privato. Il suo sguardo si dirige verso il vuoto, verso le porzioni di cielo che filtrano dal labirinto architettonico, consapevole allo stesso tempo che nessuna evasione è possibile. La fetta di cielo ritagliata dalle torri non è l’orizzonte su cui si stagliano i grattacieli in primo piano, come in un paesaggio classico. Allo stesso modo, l’orizzonte non è più la linea orizzontale che lo sguardo attraversa da est a ovest, doppiando il tragitto del sole, bensì una linea verticale, un frammento, una semplice estensione in-between che riposa sullo stesso piano delle torri, come sulla superficie di un collage. Penso per associazione alle foto di Lee Friedlander, in cui il paesaggio esterno inquadrato dal parabrezza si confonde con quello riflesso dallo specchietto retrovisore. Giustapponendo e facendo coesistere due dimensioni della realtà non percepibili simultaneamente, Friedlander esprime la sensibilità cubista propria del collage che negli Stati Uniti in quello stesso periodo, alla fine degli anni cinquanta, viveva una nuova vita grazie al neo-dada.

 

Matta-Clark adotta un punto di vista riabbassato, lo stesso che adotterà successivamente in Conical Intersect (1975), una sorta di telescopio – “il mio amato Buco ciclopico”, lo chiamava l’artista – scavato all’interno dell’unico palazzo non ancora demolito nel quartiere dello sfavillante Centre Georges Pompidou. A Parigi come a Manhattan, è sempre questione di un vuoto: quello di un palazzo destinato a essere demolito per far spazio al nuovo quartiere e alle ambizioni politiche gaulliste; quello del cielo, etere informe prima di prendere una forma geometrica, stretto tra l’architettura delle Torri Gemelle. Sotto questo aspetto The Space Between è simile a Slab (Cloud), la scultura minimalista di Robert Morris, una lastra appesa al soffitto, realizzata in compensato nel 1962 e rifatta in alluminio nel 1973. A Parigi come a Manhattan, Matta-Clark reagisce alla speculazione edilizia: lo sventramento del quartiere Les Halles magnificamente testimoniato in Non toccare la donna bianca di Marco Ferreri (e che prima o poi andrebbe esaminato in parallelo con Conical Intersect), e l’espansione di Wall Street che preannuncia la svolta liberista delle politiche economiche negli anni ottanta. Matta-Clark si mette alla ricerca di una via di fuga, di spazi, o meglio di vuoti, inutilizzabili, inappropriabili, su cui non si può speculare (nel senso finanziario del termine). Cerca le faglie delle proprietà immobiliari, delle real estate, come nel suo progetto Fake Estates (1973-74).

 

Un secondo rapporto di The Space Between è quello tra architettura e fotografia, o meglio una rivisitazione dell’architettura attraverso la fotografia da parte di un architetto. Matta-Clark, non va dimenticato, è uno dei pochi artisti contemporanei ad avere una formazione da architetto. A scattare The Space Between è un ex-studente della facoltà di architettura della Cornell University, che trascorre un semestre di studio a New York nel 1969, assistendo alla conclusione della prima torre. La Cornell University era segnata all’epoca da un misto di formalismo e modernismo, e Le Corbusier era considerato come il maestro assoluto. Matta-Clark reagisce a questa educazione accademica nonché all’architettura mainstream dell’epoca, come testimonia la sua partecipazione a una mostra collettiva all’Institute for Architecture and Urban Studies nel dicembre 1976, in cui esponeva assieme ai suoi poco amati maestri Richard Meier, Charles Gwathmey, Michael Graves. Con un atto vandalico, Matta-Clark rompe tutti i vetri dell’istituto, sostituendoli con delle foto di finestre a loro volta rotte di un palazzo del South Bronx (Window Blow Out, 1976).

 

A scattare The Space Between è un ex-studente di architettura il cui sguardo si è formato sulle riproduzioni classiche degli edifici architettonici, con il soggetto ben centrato, il rispetto per l’articolazione dello spazio (facciata, visioni laterali, retro), l’assenza della presenza umana che interferisce con la piena apprensione della struttura. Matta-Clark opera dei sottili décalage di questo sguardo architettonico ufficiale. Facendo astrazione dallo skyline di Manhattan, rende le coordinate spaziali così vaghe che la sua foto potrebbe essere ruotata di 180 gradi senza perdere alcuna informazione. Scegliendo un’angolatura inusuale, decentrando la visione dei grattacieli, insiste sulle linee sghembe e sull’asimmetria. L’Anarchitecture – un tentativo di “making space without building it”, come diceva Matta-Clark, l’incontro tra anarchia e architettura che evoca il situazionismo quanto la “de-architecturisation” di Robert Smithson (di cui Matta-Clark è stato assistente) – è agli antipodi della fotografia concettuale di Bernd e Hilla Becher, che negli stessi anni allestiscono un archivio visivo delle tipologie di architettura industriale. Le foto anarchitettoniche condurranno Matta-Clark a intervenire materialmente sul corpo stesso degli edifici già nel 1975, un anno dopo la mostra da 112 Green Street. La fotografia e il video continueranno a essere utilizzati per documentare i building cut sin spazi suburbani lontani da Manhattan.

 

I tentativi di Matta-Clark di definire, o semplicemente di circoscrivere, l’esperienza di Anarchitecture ne costituiscono una parte integrante. Negli appunti lasciati dall’artista (disponibili da una decina d’anni e tali da aver cambiato il modo di considerare la sua opera), si legge ad esempio:

 

A response to cosmetic design

completion through removal

completion through collapse

completion through emptiness

 

L’operazione sul linguaggio è determinante quanto quella sull’architettura; le parole stesse diventano un materiale da maneggiare e combinare come una scultura. Le poesie visive di Carl Andre ne sono probabilmente l’esempio migliore.

 

Quest’ultimo riferimento mi permette d’introdurre un terzo rapporto messo in gioco da The Space Between, quello tra architettura e scultura. In questo caso si tratta di una vera e propria confusione tra i due, a causa della difficoltà di determinare la scala degli edifici. Secondo Matta-Clark, la differenza tra architettura e scultura è del resto solo nelle tubature: “one of my favourite definitions of the difference between architecture and sculpture is whether there is plumbing” – come i tubi colorati del Centre Pompidou che si intravedevano attraverso il suo Conical Intersect. In The Space Between, con la punta dei grattacieli fuori campo, gli edifici si liberano dalla referenza architettonica ed evocano delle sculture minimaliste, come le enormi lastre di acciaio esposte da Richard Serra al Grand Palais di Parigi (Promenade, 2008). Mi vengono in mente anche le gambe di un mostro gigantesco ripreso in piena marcia, come nell’installazione di Ilya e Emilia Kabakov alla Fondazione Querini Stampalia (Biennale di Venezia, 2003). Le sale espositive erano qui invase dalle gambe di visitatori giganti del XIX secolo, mentre sul muro si intravedeva la parte inferiore di quadri antichi che scomparivano oltre il soffitto, facendo dello spettatore un novello Gulliver a Brobdingnag.

 

Mi rendo conto che le tre relazioni prodotte da The Space Between– vuoto e pieno, architettura e fotografia, architettura e scultura – lasciano inevaso un punto fondamentale, ovvero cosa pensasse Matta-Clark delle Twin Towers. Difficile rispondere in modo univoco. Due spinte opposte sembrano co-presenti, in questo scatto come nelle altre fotografie di Anarchitecture. Da una parte la posizione di Matta-Clark è critica; come ricorda l’artista Alan Saret, suo collega ai tempi dell’università, durante le riunioni del gruppo Anarchitecture si ribadiva che “there were enough things built in the world and the world didn’t need any more”. Dall’altra parte, Matta-Clark contatta il consulente grafico che si occupava del programma artistico del World Trade Center, si presenta come il rappresentante del gruppo Anarchitecture e propone la sua collaborazione artistica. In altri termini, da una parte Matta-Clark si ribella alla speculazione edilizia che cambiava il volto di downtown e minacciava quartieri come SoHo, dove aveva trascorso l’infanzia e dove aprirà il ristorante-cooperativa Food, con la sua open kitchen, luogo di ritrovo e scambio per gli artisti. Dall’altra, è innegabile che subisce il fascino della capacità di Manhattan a incrementare la congestione, per riprendere la lettura di Rem Koolhaas in Delirious New York. La capacità metamorfica della metropoli non poteva sfuggire a un artista invaghito dei processi alchemici di trasformazione ispirati alla lettura di Jung e a un’innata predisposizione verso il surrealismo da parte paterna. Tra le prime opere di Matta-Clark vi è del resto Photo-Fry (1969), ovvero delle fotografie fritte in padella e condite con delle lamine sottili di foglie d’oro.

 

Alchimia a parte, e al di là dei possibili intenti maligni dell’artista quando prova a mettersi in contatto con lo staff artistico del World Trade Center (in cosa consistevano i servigi artistici accennati nella sua missiva?), vorrei azzardare un’ipotesi più rischiosa: che Matta-Clark provasse invidia davanti all’architettura delle Twin Towers. Basta pensarle come un unico edificio diviso in due per intravedere la consonanza con la sua pratica artistica, con i suoi tagli. Il vuoto tra le torri diventa così uno “Squared Intersect”, per parafrasare Conical Intersect.

 

Siamo tornati infine al vuoto tra le torri, allo spazio in-between il cui senso resta aperto. Mi chiedo, in chiusura, se uno dei soggetti segreti di questa fotografia sia quello che Duchamp – che usava giocare a scacchi con Matta-Clark nel Greenwich Village – chiamava inframince, l’infra-sottile. Un concetto quanto mai sfuggevole, se nei quarantasei appunti sparsi lasciati dall’artista francese manca qualsiasi definizione e si legge persino che l’inframince non è un sostantivo ma un aggettivo. Duchamp ne fornisce però alcuni esempi preziosi: lo spazio tra il fronte e il retro di un foglio di carta, il calore di una sedia appena abbandonata, le persone che passano all’ultimo momento nei portelli della metro, il sibilo provocato dallo sfregarsi di due gambe in movimento, il fumo del tabacco quando sa anche della bocca da cui esala, l’intervallo tra la detonazione di un fucile e la pallottola sul bersaglio, i raggi X e gli odori, i riflessi di luce sulle superfici e sugli specchi, una pittura su vetro vista dal lato non dipinto. L’inframince segna una separazione impercettibile, insufficiente per distinguere il maschile dal femminile, e soprattutto uno scarto minimo tra due oggetti realizzati in serie dallo stesso modello, tanto più questi appaiono identici. Una questione di intervallo: The Space Between.

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