Maria Tasinato

5 Dicembre 2011

Santiago di Compostela è lontana dall’Appennino tosco-emiliano, soprattutto se il viaggio si fa a piedi, per centinaia e centinaia di chilometri, rispettando i ritmi ondivaghi, eppure precisissimi, del cammino francese. Una strada che è nel mito ormai e che del paesaggio sempre teneva conto, per dare al pellegrino riposo e sollievo, nel tempo in cui chi camminava compiva il proprio itinerario ad Deum. Maria Tasinato ha compiuto la scorsa estate il suo sogno di recuperare quel passo antico, quell’andatura filosofante, quel peripatetico discorrere con sé. Fino a tempi recenti la sua abituale scena era Padova, dove nelle aule fruste del Liviano ha per lungo tempo fatto proseliti discettando della “velenosa bellezza” (questo il titolo di un suo notevolissimo studio sull’Encomio di Elena di Gorgia da Leontini) della filosofia, tra gli splendori della sofistica e le epifanie del mondo tardo-antico. Platone è il suo nemico, perché è responsabile del maggiore crimine del sapere di Occidente: quello di concepire l’amore come frutto di mancanza e non come pienezza, “come rimedio a imbattibile melanconia e non come affermazione del principio vitale della felicità”.

 

Nella produzione recente di Maria (L’invidia del filosofo, 2008) egli viene rappresentato nelle vesti di un arido complottatore, intrigante e infido, un antipatico mestatore che danneggia il genere umano in generale, senza scordare i suoi nemici personali. Qui la nostra diventa allora la paladina di Agatone, autore di teatro scomparso nelle pieghe micidiali dei sorrisetti di compatimento e delle slealtà platoniche, a cui ha cercato di dare ad ogni costo un volto, in specie nel volume, dedicato al teatro, Passeggiando con la mimesis (2007). Come accadeva a Kavafis quando parlava di lottatori, circensi, bei ragazzi dell’antichità alessandrina, alla signora dei boschi, che ama lo spazio naturale delle montagne dell’Italia centrale, l’occhio si fa chiaro quando tratta di figure centrali per lei. Del perduto tragediografo cerca un barlume di ritratto in accenni di Aristofane, trovando risonanze imprevedibili. Il libro che l’ha rivelata fu quell’Occhio del silenzio (1986), magistrale indagine della storia della lettura silenziosa come fenomeno filosofico dell’Occidente, che nella versione francese ebbe un’appassionata prefazione di Pierre Klossowski. Indagando quel tempo, turbato, ricchissimo e travagliato, che fu al confine tra la classicità e il mondo moderno, la scrittura trovava nella rima, nello spazio segreto tra mente e libro, il segreto di una pratica, che escludeva ormai l’oralità favorendo la meditazione, il riserbo solitario.

 

In un giardino montano pieno di antiche presenze, amiche e nemiche, vive oggi l’autrice, attendendo epifanie del Logos, ma cimentandosi anche nella narrativa, sempre pronta a giurare sulla bontà di colei che scatenò la guerra di Troia, che nella sua radicale traduzione ispirò l’unico sofista di cui ci sia giunta intera un’opera a firmare: “un encomio che allo stesso tempo era il suo giocattolo”.

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