5 per mille

Orlando decentrato e Angelica furiosa

16 Giugno 2025

Pochi giorni fa si celebrava il quindicesimo anniversario della morte di Edoardo Sanguineti, magnifico poeta apparso con il Gruppo 63 e scomparso nel 2010. Dovevano proprio incontrarsi, lui e Luca Ronconi, nel 1969: due trentaqualcosenni che, nella calda estate che precedeva il caldissimo autunno, avrebbero realizzato in campo teatrale la rivoluzione che non riuscì nel campus universitario. Sanguineti curò la drammaturgia di quell’Orlando furioso che cambiò la vita professionale di Ronconi e il modo di pensare il teatro in Italia. Nel cast c’erano Mariangela Melato, Ottavia Piccolo, Massimo Foschi, Liù Bosisio, Duilio Del Prete, Michele Placido e tanti altri. Tanti, quasi una sessantina: dove li infili tutti quanti? Non certo in un teatro! Per l’occasione, a Spoleto, furono allestiti diversi spazi all’interno di una chiesa, che permettevano alle scene di svilupparsi simultaneamente: il pubblico decideva cosa guardare, quali sequenze seguire, dove e quando spostarsi, in libertà e autonomia. L’itineranza del pubblico non era una novità, ma un recupero. Il dramma sacro dell’età media e tutte quelle feste, processioni e rappresentazioni allegoriche di cui abbiamo parlato il mese scorso implicavano l’attività del partecipante. Così com’era un recupero la macchina teatrale a vista, l’esposizione dell’artificio, e quell’idea per cui il teatro doveva essere invenzione, ingegno, gioco, meraviglia. Dunque, quale miglior testo che l’opera maestra dell’Ariosto? Ma se è un poema...?! Non è mica teatro! – dirà qualcuno. E allora? Il potenziale teatrale di un testo non sta tanto nella sua natura, ma nell’uso che se ne fa. Questa presa di posizione – che in termini teorici si definisce post-drammatica – ha contraddistinto gran parte del teatro più interessante della seconda metà del Novecento e anche gran parte della carriera di Ronconi, che con documenti narrativi, poetici, cinematografici e saggistici ci ha fatto dei capolavori. Ma non divaghiamo – che qui è un attimo, che ti perdi – e torniamo al nostro Ariosto.

Dell’Orlando si ricorda di solito la pazzia del protagonista, Astolfo che ritrova il senno del suddetto sulla luna, Rinaldo in campo, Angelica che non si trova e il celebre chiasmo che forgia l’incipit: le donne, i cavallier, l’arme, gli amori; e poi, insomma, le cortesie, l’audaci imprese e tutto il resto. Un resto che è proprio tutto, perché nei successivi 38.736 versi succede veramente qualsiasi cosa. Il filo conduttore? Non c’è. Certo, certo, il furioso paladino eponimo... Ma questo è solo uno dei tanti fili, che si dipanano e si aggrovigliano l’uno sull’altro, per poi separarsi di nuovo, fuggendo in direzioni diverse e rifuggendo l’idea di un’unità di azione e di un personaggio centrale. La furia, cioè la follia, è in fondo una fuga dalla realtà; e siccome il poema stesso è una follia bella e buona, ecco che non solo Orlando, ma tutto l’Orlando vaga e fugge e si rifugia continuamente nel fantastico. Non è un caso che Cervantes lo menzioni tra i libri preferiti di quell’altro gran girovago che era l’ingegnoso hidalgo Don Quijote; o che Calderón de la Barca, un secolo dopo, lo prenda un po’ a modello per La vida es sueño – che sarà poi un altro capolavoro ronconiano, e si capisce perché. Il regista, in una bella intervista dei primi anni duemila, ammetteva di essere uno a cui piace fuggire, e che il suo ideale di spettacolo fosse uno spettacolo in fuga. Parlava di Infinities, che tutto sommato aveva molto di orlandesco: in entrambi i casi, l’abolizione del palco e dello spazio centrale in favore di una molteplicità simultanea di scene obbligava lo spettatore e la spettatrice a prendere un personale punto di vista sull’oggetto della propria visione. Invitandoci a cambiare costantemente prospettiva, ci ammoniva a non star fermi sulle nostre posizioni; ci esortava a muoverci, scoprire nuove vie, esplorare nuove possibilità.

Nel poema, tutti i personaggi sono in costante movimento; e, tra questi, una su tutti: Angelica. A dispetto del titolo – che, diciamocelo: è un po’ un’operazione di marketing sulla scia del successo che aveva avuto Boiardo con l’Orlando innamorato vent’anni prima – la vera protagonista è la principessa del Catai. E infatti la prima parola del poema è “donne”: prima ancora dei cavalieri e delle armi e degli amori, Ariosto menziona le donne. Una donna l’ha fatto impazzire, ci rivela da subito l’autore; evidentemente una di cui era innamorato e che invece rifiuta il suo amore. Sarà per questo, che tutto inizia con Angelica che fugge...? E da cosa fugge, la nostra eroina? Fugge da Rinaldo, che la insegue perché è innamorato di lei. E da Sacripante, che pure è innamorato di lei. E da Ruggiero, che – pensate un po’ – è innamorato di lei. E da Orlando che... avete capito. Quattro uomini armati la vogliono e la inseguono: cosa dovrebbe fare Angelica, se non scappare? Anche perché questi disgraziati alla fin fine sono attratti solo dalla sua bellezza fisica, la sua immagine. Ci credo, allora, che Angelica vorrebbe sparire! – e Ariosto la accontenta subito, recuperando da Boiardo un magico anello che permette di diventare invisibili. Ora: un corpo invisibile è qualcosa di straordinariamente interessante, perché c’è, ma si sottrae allo sguardo; è lì, ma non può essere colto da quello strumento di controllo per eccellenza che è l’occhio. È una presenza che si combina con un’assenza, quella dell’immagine, dell’eidos, fondamento dell’idea e quindi dell’ideale... Scomparendo, Angelica – che, l’avrete immaginato, si chiama così mica per niente – smette di essere un’idealizzazione dell’amore angelicato e torna a essere presenza di e per se stessa: non più soggetta allo sguardo degli uomini, ma libera e autonoma. E questo ci può dire molto di molte cose che riguardano oggi il rapporto del femminile con il corpo, e del corpo femminile con lo sguardo maschile, e dello sguardo maschile con la violenza, e della violenza con un sistema di potere di cui è spesso il centro.

Ci può dire molto perché Ariosto ci lascia un’opera aperta, un dispositivo ludico che ha come regola del gioco la possibilità inesauribile delle letture possibili. È questo, dopotutto, che affascinò Italo Calvino al punto da spingerlo a dedicare all’Orlando una strepitosa guida alla lettura. «Un classico è un libro che non ha mai finito di dire quel che ha da dire», o no...? Così, un paio di stagioni fa, al Piccolo Teatro di Milano, mi sono messo a lavorare sul materiale ariostesco con l’idea di parlare dell’amore idealizzato a un pubblico di adolescenti. A quell’età, tutte le strade sono aperte, ancor di più quelle che percorre il sentimento, spesso fuori controllo. Come si comportino gli ormoni a quattordici anni è una specie di magia, inspiegabile quanto quella che porta Angelica a innamorarsi di Rinaldo quando lui la rifiuta, e Rinaldo ad amare Angelica quando è lei a rifiutare lui: «ingiustissimo Amor, perché sì raro corrispondenti fai nostri desiri?» – l’abbiamo pensato tutte e tutti, almeno una volta nella vita. L’amore è ingiustissimo, certo! Ma in una società che promuove un modello di pensiero prettamente razionale, la cosa appare molto difficile da accettare. Ancora di più per un maschietto che fa dell’iper-razionalità l’alimento della sua ossessione. Ma come: io la amo, e lei non mi ama? Non è giusto, lei deve amarmi! E qui iniziano, spesso, quei problemi di cui continuiamo a trovare le brutte conseguenze tra i fatti di cronaca.

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Opera © Christiane Spangsberg.

Ecco, il rapporto tra Orlando e Angelica può essere riaperto, per noi, sotto questa luce. Per Orlando è impossibile pensare che lei sia innamorata di un altro, e dunque la stalkerizza per una trentina di canti, incapace di concepire che un “no” è un “no”. E anche davanti all’evidenza, come quando trova i nomi di Angelica e Medoro incisi nella pietra, non riesce ad accettare la verità; è più facile pensare che lei si stia inventando tutto, che stia giocando con lui, che «finger questo Medoro ella si puote: forse ch’a me questo cognome mette». Insomma, non gli entra in testa di non esser lui il protagonista dell’amore della donna che desidera. Una situazione di questo tipo si rivela perfettamente leggibile per l’adolescente di oggi; così come sono perfettamente leggibili i modelli alternativi che Ariosto introduce nel poema. Prendiamo Bradamante: è una ragazza che pratica un mestiere tutto maschile, quello delle armi, ma non per egotismo o per il gusto di schiacciare l’avversario; al contrario: vincente in duello, sceglie deliberatamente di non dar morte né a Sacripante, né a Brunello. Inoltre non fugge, ma insegue. Insegue il suo fidanzato Ruggiero, che sta nel bando opposto, tra i Saraceni – dimostrando così anche una certa apertura mentale verso i matrimoni multietnici... Prendiamo Medoro, modello di mascolinità non tossica: è l’unico cavaliere che non perseguita Angelica e per questo Angelica si innamora di lui. È debole, ferito, ha bisogno di cure; tutto il contrario del paladino virile che non smette un attimo di correr dietro alle pulzelle. Va bene, va bene... Ariosto non ne fa certo un discorso di genere; a lui interessa piuttosto la variazione, l’ibridazione, la non conformità... Ma facendo questo, apre sicuramente una questione sulla crisi del “normativo” che noi possiamo raccogliere. Perché, in fondo, l’Orlando furioso è un grande gioco di decentralizzazione, che invita a mettere in discussione l’immagine egemonica che abbiamo delle cose; una riflessione sullo scontro tra il reale e l’immaginario, e dunque sul rapporto tra realtà e rappresentazione, e dunque sul potere delle immagini.

Certo, le immagini! Il mago Atlante ha costruito un castello dove tutto è finzione, in cui nessuno sa più distinguere ciò che è vero da ciò che è falso, ciò che accade realmente da ciò che è messo in scena. I cavalieri che ci entrano trovano il simulacro di quello che desiderano e ivi si fermano, smettono di vagare e rinunciano alla loro ricerca. Il palazzo di Atlante è un enorme contenitore di immagini a disposizione di tutti, in cui il mondo reale è sostituito da quello virtuale; ma quanto è rischioso confondere il mondo con un’immagine del mondo, una cosa con l’eidos della cosa! Ben lo sa Astolfo, che spezza l’incantesimo e se ne vola via sul suo ippogrifo. Già, Astolfo, Atlante, Ariosto... l’Autore... iniziano tutti per A. Il paladino che gira il mondo in groppa a una bestia fantastica, il mago che crea castelli in aria e Ludovico che inventa e scrive tutto questo... non sono forse un po’ la stessa persona? Dopotutto, lo scrittore non è un cavaliere scarrozzato qui e là dalla sua immaginazione...? Un mago che fa apparire, con la sua fantasia, un mondo di bellissime illusioni destinate a svanire...? L’umanesimo sta finendo e stiamo per entrare nel Barocco... è la sorpresa, la meraviglia, che percorre tutta questa storia: è come un labirinto di scene in cui è facile, per chi legge, perdersi.

A proposito... la nostra idea di labirinto – quello della settimana enigmistica, per intenderci – è in effetti un’eredità barocca. Il labirinto dell’antichità, quello greco, era costruito in modo molto diverso: aveva un’unica entrata, che era anche l’uscita, e un centro che era il centro del problema. Il labirinto barocco, invece, ha separato entrata e uscita, eliminando la centralità del centro, che diventa puro vezzo; e infatti al centro dei labirinti di siepi ci troviamo una panchina, uno specchio, un roseto... Il gioco sta ora nel perdersi e poi trovare l’uscita; e più ci si perde, più ci si diverte, perché il divertimento vive della moltiplicazione infinita delle possibilità. Qui si rivela già la complessità di una modernità in cui le cose che sembravano avere una loro posizione privilegiata non ce l’hanno più: dove prima c’era la Terra, ora c’è il sole; dove c’era il Mediteraneo, c’è l’Atlantico; e dove c’era la religione, c’è la scienza... Insomma, abbiamo capito che è possibile spostare determinati modelli dal centro, perché il concetto stesso di “centro” non è che un dispositivo narrativo! Siamo noi che decidiamo cosa centralizzare, a seconda di come usiamo lo sguardo; e siamo noi che possiamo decentrare certe immagini e certe idee, mutando punto di vista, aprendo nuove vie e recuperando un periferico che, proprio nella sua “a-normalità”, non è solo stupefacente, ma anche utile. Da qui che nuove narrazioni e nuove teatralità possono aiutare a generare nuovi paradigmi di pensiero, mettendo in discussione i modelli che la tradizione ha consolidato come egemonici. Cosa che, di questi tempi, non è solo auspicabile, ma anche terribilmente urgente.

Per saperne di più

L’Orlando furioso di Ludovico Ariosto raccontato da Italo Calvino, pubblicato per la prima volta nel 1970, lo trovate tra gli Einaudi; mentre l’Orlando furioso di Ariosto-Sanguineti per Luca Ronconi, curato da Claudio Longhi, è edito da ETS. Nella nostra collana di saggi di Doppiozero, invece, una decina di anni fa abbiamo pubblicato una bellissima lettura di Gianni Celati su Angelica che fugge, ancora disponibile qui.  Il testo dello spettacolo Orlando hater e Angelica furiosa, che ha debuttato al Piccolo Teatro di Milano nella stagione 2023/34, è appena uscito nell’edizione di Il teatro tiene banco per Il Saggiatore. Uno dei punti di partenza che mi ha portato a rileggere il classico in questa chiave è il lavoro di Amleta, preziosa associazione attiva dal 2020 contro la disparità e la violenza di genere nel mondo dello spettacolo, che potete qui seguire.

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In copertina, opera © Christiane Spangsberg.

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