Agire, riflettere, pensare / Tutti a casa … all smart worker

14 Giugno 2020

‘’I confini dell’esperienza non sono definibili, ma sono esplorabili. Ciò che ho cercato di fare è esplorarli camminando col pensiero così come ci si inoltra in un paesaggio familiare e sconosciuto a un tempo.’’

(Giuseppe Pellizzari, 2015)

 

Il pensiero per pervenire a una sua paradigmaticità ha bisogno di nutrirsi dell’ascolto di storie di donne e uomini. Anche col Covid-19. Tutto questo forse in maggior misura che in passato, anche recente.

 

- Verso le 13:00 del 24 gennaio scorso scivolavo con Marco Belpoliti sulle scale mobili della Stazione Centrale di Milano verso il largo emiciclo, da dove si diramano due linee della Metropolitana Milanese. Eravamo reduci dalla presentazione, generosamente organizzata dalla Scuola Centrale delle Coop Nazionali, di un libro dedicato a un tema particolare dell’opera di Primo Levi: molta gente, attenzione, ascolto e alla fine, dopo il dibattito, applausi, strette di mano, abbracci.
A metà del nostro scivolare silenzioso, Marco Belpoliti con un gesto largo del braccio destro, consentitogli dalla sua capacità di stupore e dalla sua fisicità empatica, sbotta improvviso: “Ma guarda ‘sta città!”. Pressati, spintonati da ogni parte, una folla strabocchevole, punteggiata da cinesi, giapponesi, con gli shopper del lusso, tutti a correre, dentro un brusio sommesso, ritmato dal non distaccare lo sguardo dagli smartphone. Devo aver accennato qualcosa che riferiva il tutto al dopo l’Expo, un evento a Milano utilizzato ormai a siglare e a commentare circostanze diverse. Poi anche noi due ci siamo salutati, frettolosamente strappati dalla folla e inghiottiti da due itinerari metropolitani diversi.

 

- Un’amica, da molti anni una professional di una multinazionale di telefonia fissa e mobile, mi racconta la sua adorazione per lo smart working e la sua speranza che diventi la modalità usuale di lavoro, che non si ritorni più indietro a quelle prigioni collettive, come l’ufficio non le piaccia per niente, lei capace com’è di inventarsi e sviluppare le sue relazioni fuori ufficio e come la sua casa sia molto più accogliente dei loculi di via …, nel centro di Milano, sito quasi irraggiungibile. Ascolto come travolto da uno straripare di inattesa soddisfazione, non sfiorato da un pur minimo dubitare, da una qualche riserva alla quale mi potessi agganciare per una conversazione riflessiva. Nulla. Ammutolito, sorrido nello schermo minimo del whatsapp visivo, chiedo di comuni amici, dei genitori un po’ malandati e saluto sorpreso, ma in fondo felice per tanta sincera dichiarazione di raggiunto benessere, un piccolo miracolo clandestino, privato, dentro le ansie collettive del Covid-19. 

 

- Michele De Lucchi, lunga barba da tagliare, dei nostri archistar internazionali fuori di ogni dubbio quello con il maggior profilo artigianale, racconta la sua esperienza di lockdown nella sua tana sul lago Maggiore e di come “Io all’isolamento non ci credo per niente. L’isolamento è una idiozia totale, per gli uomini, per la società, per la cultura, per l’educazione, per la vita in generale. L’arte di vivere, quella cosa che noi italiani abbiamo inventato e vendiamo in tutto il mondo, è fatta semmai di capacità di stare insieme: le piazze, i mercati, le chiacchiere ai caffè, gli anziani seduti a veder passare la gente … certamente rispetto l’emergenza, ma l’isolamento non è la formula con la quale vivere, che è quella dell’uomo sociale. L’Homo Sapiens anzi deve ancora fare molto per stare più e meglio insieme. Nonostante i duecentomila anni di tentativi, dobbiamo fare ancora molto per stare insieme, e non certo per stare isolati … tutto cambierà. Ma non nel senso che avremo nei supermercati carrelli lunghi 5 metri per non toccarci l’uno con l’altro. Piuttosto avremo merci più consapevoli, più rispettose, da comprare” [M. De Lucchi, “L’isolamento fa schifo”, La Repubblica, 19-4-2020]

Lo smart work è in sé, prima di tutto, prima di ogni riflessione, una modalità nuova del lavoro umano. Riflettendo sulla natura del lavoro si può sottolineare come “il lavoro sia momento di connessione tra mondo interno e mondo esterno, attraverso la mediazione del principio di realtà … il lavoro non sarebbe altro che la possibilità di appagare i nostri desideri accettando una dilazione tra il momento dell’insorgenza del desiderio o del bisogno e il momento dell’appagamento … questo è il lavoro: la capacità di accettare quella dimensione della realtà che è il tempo – che è la dilazione in vista di un appagamento – agita sempre in nome del principio del piacere, ma con modalità che tengono anche conto del principio di realtà” [Pagliarani L., “Il lavoro come momento di connessione tra mondo interno e mondo esterno attraverso al mediazione del principio di realtà”, Appendice a Bertolotti A.M., Forti D., Varchetta G. (1982), L’approccio socioanalitico allo sviluppo delle organizzazioni, Angeli, Milano]

Il pensare il lavoro attraverso le storie delle donne e degli uomini è, prima di tutto, un chiedere a chi lavora di riflettere sulla possibilità di imporre a se stesso una frammentazione, per recuperare, più avanti, una pur dolorosa nuova integrazione.


Il pensare per storie infatti “significa saper costruire nodi pertinenti e connessi a diversi livelli: connessione tra componenti della storia, connessioni tra gli ‘attori’ della storia” [Fabbri D., Munari A. (1984), Strategie del sapere, dedalo, Bari]. Non è detto che la differenziazione sia conquistata sempre in maniera chiara. Il ‘pensare per storie’ acconsente di ri-ascoltare voci lontane, rivedere sguardi sepolti attraverso accostamenti nuovi orientati a creare differenze tra possibili, diverse verità. Il ‘pensare per storie’ testimonia come il massimo impedimento al procedere dell’esplorazione di un evento, di una circostanza, di un’esperienza, sia un blocco concettuale e non la mancanza di dati di fatto e di eventi. Lungo il vertice di una ‘verità narrativa’ si può originare un dimensionamento creativo di senso e di significato.

 

Il Covid-19, un inatteso imprevisto, ha strattonato, sconvolto e precipitato in un cambiamento catastrofico i nostri due mondi, interno ed esterno, quelli connessi dal lavoro umano.
Si è smarrita, sciolta come neve al sole in poco tempo – anche se nessuno può escludere che non si sia appreso nulla e che si torni indietro come se nulla fosse accaduto, è già accorso altre volte – “una forma culturale della vita ‘dentro la quale’ si realizzi una magica maturazione che produce forme, intatte e perfette” [Donatelli P. (2018), Il lato ordinario della vita, Il Mulino, Bologna, pag. 15]. Abbiamo scoperto che “la forma della vita è vulnerabile: è conosciuta a partire da vulnerabilità ed è essa stessa un prodotto umano vulnerabile rispetto agli eventi fisici e storici e rispetto alla inclinazione umana a rifiutarla immaginando di collocarsi nel cielo, per così dire, al di sopra di ciò che è mutevole e cagionevole” [ivi].
Il nostro mondo esterno è improvvisamente collimato in uno scenario di imperfezione, casualità, fragilità, categorie ontologiche e epistemologiche da tempo indicate, evocate dalle più avvertite scienze della natura e dell’uomo: basti citare per le prime il neodarwinismo evoluzionista e per le seconde, il pensiero della “filosofia continentale”. Entità aborrite quali aver bisogno degli altri, la scoperta della fragilità, gli imbarazzi decisionali, sono diventati improvvisamente transiti obbligati, oggetto di civile conversazione, per lo più affidata ai devices più differenziati.
Abbiamo toccato con mano – e questa esperienza è lo spazio intermedio, ponte tra i nostri due mondi – come neotenia e plasticità siano i tratti distintivi della evoluzione della nostra specie: “nasciamo incompleti e quella incompletezza diviene l’utero della nostra plasticità, della nostra peculiare capacità di adattamento in base alla quale ognuno di noi, per essere se stesso, è allo stesso tempo ciò che diviene adattandosi” [Morelli U. (2010), Mente e bellezza, Allemandi, Torino]. Nasciamo incompleti di fronte a una natura inospitale, sempre identica a se stessa, indifferente, assolutamente estranea, mutevole quanto eterna. La risposta di noi umani, nutriti dall’istintualità alla sopravvivenza, è il transito culturale, la trascendenza da noi stessi volta a colmare il divario del nostro rapporto con la natura. E i duecento e più mille anni della nostra speciazione sono la storia della dismisura irriflessiva del rapporto del soggetto umano con la natura, fino alla globalizzazione e alla finanziarizzazione di ogni esperienza, note dominanti il nostro tempo.


La dinamizzazione – ossia l’accelerazione e la mobilitazione generalizzata di risorse, persone e capitali – quale paradigma totalizzante l’ordine sociale degli ultimi decenni, non ha segnato la sola sfera dell’economico, ma ha investito profondamente la vita politica, sociale e istituzionale, ad impattare inevitabilmente sulle dinamiche pulsionali e relazionali che attraversano le esistenze individuali. Il neoliberismo ha s-frenato il senso della potenza, sia a livello collettivo che individuale, incrementando nell’immaginario l’ideale di una autorealizzazione illimitata e onnipotente e alimentando una gabbia sempre più ampia di bisogni narcisistici che tuttavia non sembra più in grado di riconoscere, comprendere e governare. [Ariele, “Distintività dell’approccio psicosocioanalitico allo sviluppo organizzativo nel quadro delle trasformazioni contemporanee”, Paper interno, 2020 – De Carolis M. (2017), Il rovescio della libertà, Quodlibet, Macerata]. Nasce una ipotesi di lavoro, una sorta di question for identity: lo smart working alimenta il narcisismo individuale e collettivo?

Non si può ipotizzare la misura, ma si può, contemporaneamente, affermare che l’esperienza del Covid-19, pur in tutta la sua ambiguità, abbia scosso le radici narcisistiche della personalità individuale contemporanea, verso una fase di riflessione, di piegamento su se stessi, su quanto di ansiosamente doloroso, ci sta accadendo.


Uno studioso della classicità [Bettini M., “Rinascendo sulle orme di Virgilio”, Robinson, 30-5-2020] richiamando la poesia di Virgilio ricorda come “tra noi adesso e noi di prima si è interposto uno stacco di vita, una pausa vitae”. Questo frammento temporale tra un prima e una attualità è esperienza che mancava a molte generazioni. C’è stata “donata” dal Covid-19 e per moltissimi è stata concretizzata dall’esperienza dello smart working. La domanda, rubricata anche con la pratica pressoché universale dello smart working, è relativa al cessare della pausa vitae, al ritorno a quello che eravamo e al chiederci se “sapremo ricordarci del ‘noi’ che siamo stati e soprattutto, se sapremo ricordarci degli errori che avevamo commesso?” [ivi].
La pausa vitae è accaduta e siamo stati tutti precipitati nello smart working. L’esperienza dello smart working prima, durante il lockdown e ora, in questi giorni di fase 3, obbliga ad alcune constatazioni:

 

 

- lo smart working improvvisamente da esperienza elitaria limitata a circa 800.000 collaboratori ha accumunato qualche milione di neo home worker: masse di amministrativi, di operatori bancari, di operatori assicurativi, di logistici, di operatori di marketing, di programmatori, di analisti di sistemi, di pianificatori di processo, dell’ampio modo della burocrazia e della tecnocrazia pubblica; lo smart working ha consentito il non blocco della macchina produttiva rapportando back office e front office delle attività produttive considerate indispensabili all’interno del lockdown: la filiera alimentare, il comparto farmaceutico con gli indotti e la distribuzione relativi; lo smart working ha consentito una non sospensione delle attività delle libere professioni della consulenza, dell’auditing e della ricerca in generale; 

 

- lo smart working ha ridotto gli spostamenti fisici, con mezzi diversi per raggiungere il posto di lavoro con una riduzione netta dell’inquinamento; 

 

- lo smart working ha saturato le abitazioni e le famiglie, creando una nuova stratificazione sociale, legata ai diversi adattamenti topologici degli appartamenti: dal letto come posizione di lavoro al ricreare, nello studio di casa, quasi identica, la posizione di lavoro d’ufficio, agli spazi rubati alle cucine, i tinelli, i soggiorni, alle stanzette dei bambini, fino alle mansarde, alle cantinette, ai soppalchi, in un bricolage domestico infinito e creativo.

Al di là delle constatazioni, non si ritornerà a “tutto come prima”.

Lo smart working diventerà parte integrante delle nuove prassi di lavoro, con percentuali diverse, tra smart working e lavoro in ufficio, in relazione alle diverse tipologie produttive, alla cultura organizzativa delle singole organizzazioni, agli accordi con le controparti sindacali.

 

 

Al di là delle diverse fattispecie concrete, che non è facile e forse poco utile prevedere, lo smart working, straordinaria innovazione del modo di lavorare del nostro tempo, dovrà obbligatoriamente confrontarsi con:

 

- la relazionalità come ontologia specifica dei soggetti umani;

- la natura emergente, la ‘eccedenza’ evolutiva di Homo Sapiens: “non coincidiamo mai con noi stessi, viviamo protesi sull’orlo, ai margini di noi stessi. In quella contingenza ci individuiamo e la nostra neuroplasticità si esprime in una storia. Lo fa in ragione dell’incarnazione della mente (embodied), dell’emergenza delle relazioni situate (embedded), della sensibilità alle culture (extended). La mente relazionale esiste in quanto diviene nelle relazioni, proiettandosi costantemente nell’altrove e nella prospettiva del non-ancora” [Morelli U., op. cit. pag. 68);

- il bisogno di contenimento: il contenimento è il processo di trasformazione, che attraverso una relazione adulta con un altro da sé consente l’elaborazione di pensieri a partire da elementi emotivi grezzi. Il contenimento, in questo senso, significa offrire ai soggetti organizzativi degli spazi di pensabilità e di scoperta, sufficientemente protetti dalla pressione performativa, nei quali dare voce e forma alle tensioni emergenti [Ariele, op.cit.].

- i bisogni di riconoscimento, in altre parole, il processo di identificazione e di valorizzazione delle differenze (di pensiero, di interessi, di prospettive) che animano un contesto organizzativo e dal cui confronto può emergere una prospettiva nuova e un riassetto del sistema o di una sua parte; il riconoscimento delle differenze individuali, inoltre, intende mettere in evidenza la necessità di ricercare sempre un bilanciamento tra le istanze del singolo e le istanze dell’organizzazione, soprattutto oggi, in cui queste ultime tendono a imporsi con la forza di automatismi governati dalla potenza algoritmica [Ariele, ivi];

- la rivoluzione della digitalizzazione e la diffusione dello smart working vanno connesse con l’emergere di nuovi modelli organizzativi e le loro implicazioni sulle modalità di esercizio del potere nelle organizzazioni, con le evoluzioni metodologiche di sviluppo organizzativo recenti – il riferimento è agli approcci post lewiniani, di matrice costruttivista come la U-Theory e la Appreciative Inquiry – che, rivitalizzano la tradizione dello sviluppo organizzativo, coniugandola con una visione dia-logica ed eco-logica dello sviluppo umano [Ariele, ivi];

- la digitalizzazione, e in particolare la sua espressione invasiva dello smart working, hanno una così ampia influenza sulla cultura contemporanea e sulla nostra quotidianità, fino a incidere sugli aspetti più interni e intimi delle nostre esistenze, da meritare, fuori da ogni dubbio, uno sforzo collettivo dello sviluppo di un pensiero esplorativo, riflessivo, interpretativo connesso alle loro ontologie;

- occorre fare esperienza: l’azione in questa direzione, nella direzione di costruire un pensiero, da sola non è sufficiente. Si rischia un accumulo quantitativo di azioni acritiche. Per arrivare all’esperienza occorre accostare azione e pensiero, un convergere di una trascendenza del soggetto umano, dentro e fuori se stesso sulle proprie azioni, su cosa significhi in prospettive diverse la digitalizzazione e cosa stia succedendo al lavoro umano con l’azione dello smart working.

 

La digitalizzazione e una delle sue fattispecie più ricorrenti quale lo smart working non sono riducibili a un cambiamento. Sono in sé la quarta rivoluzione della storia evolutiva di Homo Sapiens dopo il transito dall’oralità al linguaggio, dopo la scrittura, dopo la stampa.
I media della digitalizzazione sono tecnologie che “incorniciano” il cervello conducendolo verso modelli di integrazione neocorticale coerenti con la loro struttura. L’alfabeto greco ha generato profonde mutazioni nell’attività cognitiva dei nostri padri, riorientando la scrittura da sinistra a destra, generando il verso del tempo ed elaborando relazioni di causa ed effetto.
Marshall Mc Luhan sosteneva essere la tragedia greca un quid …  question for identity una strategia inventata dai greci per superare la crisi di identità culturale dovuta all’introduzione dell’alfabeto, generatore del transito dalla tradizione orale alla tradizione scritta della memoria.
Nella nostra contemporaneità lo scenario è gremito da un affannarsi e da un moltiplicarsi di azioni d’uso di tecnologie digitali diverse e da poco pensiero.
La realtà immersa nello smart working – solo apparentemente appartata e isolata – è caratterizzata da una simultanea molteplicità di voci, disposte in sé a moltiplicarsi continuamente. La voce singola dello smart worker, al riposo nei luoghi privati di lavoro, con circospetta cura cercati e costruiti è, in realtà, attaccata dalla ininterrotta visitazione convergente di voci da direzioni diverse il cui rifiuto genera una diffusa colpevolizzazione.
Lo smart working può essere vissuto conseguentemente, fantasmaticamente, come un oggetto transizionale per progredire verso la consapevolezza della molteplicità vissuta delle diverse voci convergenti, per la definizione di un confine tra interno e esterno, nel vissuto che quel confine non possa mai consolidarsi: a questo punto “la domanda cruciale è se queste trasformazioni implicheranno una revisione dei nostri concetti di relazione e relazionalità… ci muoviamo su un piano orizzontale, tralasciando la dimensione verticale, la ricerca di profondità e senso. L’orizzontalità è diventata un funzionamento mentale, portatore di un finto benessere che promuove dipendenza e ci sottrae alle relazioni incarnate” [Lingiardi V. (2019), Io, tu, noi, UTET, Torino, pag. 40]. Il rischio dell’isolamento è oggi costantemente presente.


A fronte di tutto questo il neo smart worker è, in ultima analisi, esposto a un bivio ambiguo: o si arrende ai nuovi oggetti, inattesi, annidati, riconducenti a una forma di vita del presente pre Covid-19, sublimata nella costruzione di un mondo narcisisticamente perfetto, o, in alternativa, imbocca la strada, depressa, ma forse salvifica dove “lasciamo in pace i poeti, lasciamo che scrivano ciò che hanno voglia di scrivere  e che, qualsiasi cosa sia, possa arrivare a ciascuno di noi” [Sinick Ch., “La poesia supera la calamità”, La lettura, 444, 2020].
Rimettendoci allo stupore generato dall’azione diffusa quanto inattesa di smart working – questo elemento, medium nuovo di connessione tra il nostro mondo interno ed esterno – possiamo introdurci in uno spazio intermedio, che pur non approdando a una sintesi, possa assumere il ruolo di simbolo, di una nuova, tutta da inventare, prassi di lavoro.
E il simbolo “è un’essenza la cui energia porta con sé l’energia di un’essenza ‘altra’, superiore, dissolta in essa, e a essa unita, e quello che attraverso di essa si manifesta rivela una essenza superiore. Il simbolo è una finestra verso un’altra essenza che non è data direttamente” [Florenskij P.A. (1938), Lo spazio e il tempo nell’arte, Adelphi, Milano, 1995 pag. 356].
Bisogna agire, nella pratica individuale e collettiva dello smart working, e non solo agire, ma riflettere e pensare.

Se continuiamo a tenere vivo questo spazio è grazie a te. Anche un solo euro per noi significa molto. Torna presto a leggerci e SOSTIENI DOPPIOZERO