Conoscenza a zig zag
Se cerchi una cosa e ne trovi un’altra, non è che non trovi niente o non arrivi da nessuna parte. Semplicemente ti accorgi che i percorsi non sono lineari. Come in Il giardino dei sentieri che si biforcano di Borges, le accelerazioni, le battute di arresto e le circostanze occasionali, le lunghe latenze e le improvvise esplosioni, fanno parte di ogni cammino, anche quello dell’evoluzione. Siamo noi che cerchiamo di sistemare indefessamente in presunte e attese linearità la complessità dei processi. Come avevano ben intuito Stephen Jay Gould e Niles Eldredge [Punctuated equilibria: the tempo and mode of evolution reconsidered, in Paleobiology 3(2): 115-151, 1977], la stessa evoluzione procede con un andamento che è fatto di lunghe latenze e di salti abbastanza immediati, sempre in termini di tempi biologici.
Quell’approfondimento aveva chiarito molte cose, dando un importante contributo allo sviluppo delle teorie di Charles Darwin. Come scrive proprio Gould nel suo contributo al libro di cui è coautore, [Oliver Sachs, Stephen Jay Gould, Jonathan Miller, Daniel J. Kevles e Richiard C. Lewontin, Storie segrete della scienza. Accelerazioni, battute d’arresto e serendipità, Mimesis, Milano 2023]: “Tutte le nostre immagini canoniche si basano sulla nozione opposta di progresso e di prevedibilità, e impediscono quindi una corretta valutazione del caso in quanto forza principale che influenza le direzioni della vita”. Una finissima critica che, mentre fa rimpiangere ancora una volta questo grande scienziato per la sua prematura scomparsa, coglie i limiti delle immagini veicolante dalle narrazioni divulgative sull’evoluzione e la storia della vita sulla terra, e in particolare della nostra specie. Tra scale e coni, è tutto un florilegio di celebrazioni della centralità e della superiorità di homo sapiens, in cui vige sistematicamente l’associazione sia tacita che esplicita tra evoluzione e progresso.
Rivisitare quel modello vuol dire non solo avere un’immagine più realistica dell’evoluzione, ma assumere un atteggiamento costantemente critico anche rispetto alla stessa rivisitazione. Gli inganni della mente richiedono un continuo esercizio del dubbio e la nostra propensione spontanea non va esattamente in quella direzione. Se si esce dall’immagine della scala evolutiva che vede noi umani in cima, come massima realizzazione della vita sulla Terra, o dall’immagine del cono che vede il progresso incrementale in ogni fase successiva del processo evolutivo, si può ricavare una rappresentazione più corrispondente alle conoscenze, spesso scarse, che abbiamo sull’evoluzione. Ma, come sostiene lo stesso Gould con una buona dose di autoironia, questa stessa immagine rivisitata, pur contrastando con l’immagine del progresso lineare, non coglie il concetto filosofico più radicale che emerge dai moderni studi sulla preistoria della vita multicellulare: la nozione che le estinzioni si verificano per un caso fortuito e non in virtù della prevedibile superiorità di poche discendenze fondamentali, e che ogni specifica discendenza sopravvissuta fino a oggi (compresa la nostra) deve la propria esistenza alla contingenza di una sorte favorevole.
Concorre decisamente ad approfondire la critica di Gould, il contributo di Richard Lewontin contenuto in questo libro importante, per capire qualcosa di più su come funziona il processo di conoscenza e come procede la scienza. Occupandosi di geni, ambiente e organismi, Lewontin mette in evidenza i limiti del programma della biologia meccanicistica, che è consistito sostanzialmente nel descrivere le parti componenti della macchina biologica e nel mostrare come i pezzi si saldino tra loro e si muovano in maniera tale da rendere la macchina un tutto unico. Secondo Lewontin quel modello ha funzionato per rivelare i dettagli della macchina animale. Il problema è che la metafora della macchina lascia fuori qualcosa, e la biologia meccanicistica ingenua, che non è altro che fisica portata avanti con altri mezzi, ha cercato in tutti modi di cacciare dentro, via forza, quello che rimane fuori, a spese di un’immagine veritiera della natura.
Scrive Richard Lewontin: “I problemi della biologia consistono soltanto in un’accurata descrizione della scrittura e del funzionamento delle macchine organiche, ma anche nella ricostruzione della loro storia”. Gli organismi, secondo Lewontin, possiedono una storia a due livelli. Ciascuno di noi ha iniziato a vivere come una cellula uovo fecondata che ha subito processi di crescita e trasformazione volti a produrre gli individui che noi siamo. Allo stesso tempo, in aggiunta alla storia individuale della loro vita, gli organismi possiedono anche una storia collettiva che ebbe inizio tre miliardi di anni fa con rudimentali agglomerati di molecole, che è giunta ora a metà strada con decine di milioni di specie diverse, e che terminerà tra altri tre miliardi di anni, quando il Sole consumerà la Terra espandendosi in una fiammeggiante sfera di fuoco.
Se ci chiediamo perché è così difficile inquadrare i fenomeni evolutivi all’interno della sintesi meccanicistica possiamo fare un’importante scoperta: i processi storici hanno una proprietà scomoda, la loro contingenza. “I sistemi per i quali la storia è fondamentale sono sistemi in cui influenze esterne alle strutture giocano un ruolo importante nel determinare la loro funzione, a un punto tale che se tali forze esterne variano, anche la storia del sistema cambierà”. Il problema della metafora dello sviluppo consiste proprio nel fatto che essa fornisce un’immagine impoverita dell’effettivo realizzarsi della storia della vita di un essere vivente. Lo sviluppo non consiste semplicemente nell’attuazione di un programma interno; non è solo un dispiegamento. L’esterno conta. In qualsiasi momento della storia della vita di un organismo vi è una contingenza nello sviluppo, tale per cui il passo successivo dipende dalla condizione dell’organismo stesso in quel particolare momento e dei segnali ambientali che lo raggiungono e coinvolgono.
Semplicemente, l’individuo è il risultato unico e irripetibile sia dei propri geni, sia della sequenza temporale di condizioni ambientali che lo attraversano, e non c’è modo di sapere in anticipo, a partire dalla sequenza del DNA, quale sarà il suo aspetto, se non in termini generali. “In qualunque sequenza di ambienti a noi noti”, scrive Lewontin, “i leoni generano leoni e gli agnelli generano agnelli, ma nessun leone è uguale all’altro”. Semplicemente non sappiamo quanta parte della differenza tra le funzioni cognitive degli esseri umani sia una conseguenza delle diversità genetiche, quanta parte sia il risultato di diverse esperienze di vita, e quanta sia dovuta alle interferenze casuali nello sviluppo. Secondo il darwinismo, esistono meccanismi totalmente interni agli esseri viventi che causano le loro variazioni reciproche per quanto riguarda le caratteristiche ereditarie. In termini moderni si tratta di mutazioni nei geni che controllano lo sviluppo.
Queste variazioni non sono indotte dall’ambiente ma vengono prodotte in modo casuale rispetto alle esigenze del mondo esterno. Indipendentemente da tutto ciò, esiste un mondo esterno costruito da forze autonome al di fuori dell’influenza dell’organismo stesso, che stabiliscono le condizioni per la sopravvivenza e la riproduzione delle specie. L’interno e l’esterno si confrontano solo attraverso il processo selettivo di sopravvivenza e riproduzione differenziata di quelle forme organiche le quali per caso si adattano meglio al mondo esterno autonomo. In questa prospettiva l’organismo diviene il nesso passivo tra forze interne ed esterne. Sembra quasi non esistere un attore nella sua stessa storia. Se lo straniamento, operato da Darwin, dell’ambiente dall’organismo era un passo necessario verso la meccanizzazione della biologia, in quanto sostituiva la compenetrazione mistica tra interno ed esterno, priva di qualsiasi base materiale, oggi siamo in grado di verificare che Darwin avesse torto ad affermare l’autonomia del mondo esterno.
Un’ulteriore verifica del fatto che la conoscenza procede a zig-zag: ciò che è un passo necessario nella costruzione della conoscenza in un dato momento, può diventare un impedimento in un altro momento. L’ambiente di un organismo non è un insieme indipendente preesistente di problemi, al quale gli organismi stessi devono trovare soluzioni, poiché gli organismi non si limitano a risolvere problemi ma in primo luogo li creano. Proprio come non esiste organismo senza ambiente non esiste ambiente senza un organismo. L’adattamento è una metafora sbagliata che necessita di essere sostituita da una metafora più appropriata come la costruzione o come il concetto di coevoluzione. “La visione corretta dell’evoluzione consiste quindi in una coevoluzione degli organismi e del loro ambiente”, scrive Lewontin, “in cui ciascun cambiamento all’interno di un organismo è sia la causa sia l’effetto dei cambiamenti nell’ambiente.
L’interno e l’esterno in realtà si compenetrano e l’organismo è tanto il prodotto quanto il luogo di questa interazione.” Un simile orientamento consente di riconoscere come sia impossibile la richiesta in base alla quale gli uomini dovrebbero smettere di modificare il mondo. Plasmare il mondo è la proprietà universale degli organismi viventi, inestricabilmente legata alla loro natura. Quello che probabilmente possiamo e dobbiamo fare è decidere qual è il tipo di mondo in cui vogliamo vivere e poi cercare di governare al meglio i processi di cambiamento, così da riuscire ad approssimarci a quel mondo.
Anche se, come tendiamo a fare, immaginiamo la storia della conoscenza come un continuo, come un progresso o uno sbocciare simile a quello dell’albero della vita, ciò che nella maggior parte dei casi si incontra, tuttavia, è molto distante da un maestoso dispiegamento da ogni senso di continuità. “Nella scienza tutto è forte, disinvolto e splendido come nei racconti di fate”, scrive Robert Musil in L’uomo senza qualità. Sia a proposito della scoperta progressiva dell’inconscio cognitivo, laddove gli esisti inattesi della falsificazione del mesmerismo e gli ostacoli frapposti da quella che Miller nel libro chiama efficacemente “la lunga siccità del comportamentismo”, svolgono un ruolo di circostanza occasionale o serendipità; sia a proposito del lungo e incompiuto cammino riguardante le ricerche sul cancro documentato ampiamente da Kevles, siamo di fronte al complesso e incerto itinerario che porta ad una scoperta.
Oliver Sachs, nel suo contributo al libro, mostra come un fenomeno ritenuto fino a un certo momento insignificante e trascurato come i disegni geometrici dell’aura dell’emicrania, possa assumere improvvisamente una nuova importanza alla luce di un modo diverso di guardarlo e di un diverso paradigma interpretativo. Accade così che quel fenomeno ci mostri, nella forma di una visione allucinatoria, non solo l’attività elementare all’interno della corteccia cerebrale, ma un intero sistema organizzato, un comportamento universale all’opera, a partire dal quale si apre la strada per comprendere e affrontare in maniera diversa un fenomeno molto diffuso come l’emicrania. Così come lo scotoma in senso neurologico denota una disconnessione o iato nella percezione, è essenzialmente un buco nella coscienza provocato da una lesione neurologica, alla stessa maniera, in modo metaforico si sperimentano processi di scotomizzazione nelle dinamiche di conoscenza e nell’evoluzione della ricerca e del pensiero scientifico. Non dissimile da quello che accade in altre circostanze come quelle riguardanti la totale cecità ai colori che segue un danno o lesione cerebrale, la cosiddetta acromatopsia.
Anche in questo caso la diffidenza verso un’ipotesi particolarmente anticipatoria ha creato una lunga latenza prima che se ne riconoscesse il valore e qualcuno, come è accaduto con Semir Zeki, scoprisse cellule specifiche sensibili alle lunghezze d’onda al colore nella corteccia cerebrale della scimmia, facendo in modo che quel tipo di problema, l’acromatopsia, finisse per essere legittimato come una valida condizione neurologica. Ciò vale anche per la cruciale importanza del prendere nota delle eccezioni, e di non dimenticarle o respingerle in quanto insignificanti, come può accadere quando si producono premature semplificazioni e sistematizzazioni nella scienza che finiscono per accecare le persone e calcificare la scienza stessa, impedendole di pervenire a processi di crescita vitali.
Forse qualcosa di più di un’analogia esiste tra la nostra storia evolutiva e il nostro stile di conoscenza, fra i modi di procedere dell’evoluzione del vivente e lo sviluppo delle nostre teorie e delle nostre conoscenze su noi stessi e sul mondo. Del resto come dovremmo poterci pensare e pensare quello che esiste, se non a partire da come siamo fatti e come diveniamo quello che siamo? Se si tolgono i veli dell’immagine fiabesca e pretenziosamente imperturbabile del modo lineare di intendere la conoscenza scientifica, emergono storie di particolare fascino e significato per comprendere un po’ meglio come conosciamo. È quello che fanno cinque autori, scienziati molto famosi e uomini di cultura, componendo questo libro che si intromette nel retrobottega della ricerca e ne svela non pochi inattesi segreti. Il fatto è, come scrive nel libro Oliver Sachs, che le idee sembrano sorgere, fiorire, muoversi in tutte le direzioni, venir abortite ed estinguersi in modi del tutto imprevedibili. A Gould piace ripetere che, se il nastro della vita potesse essere fatto girare una seconda volta, suonerebbe in modo completamente diverso.
Supponiamo che John Mayow avesse effettivamente scoperto l’ossigeno intorno al 1670; che la macchina differenziale di Babbage, un computer, fosse stata effettivamente costruita nel secolo scorso; il corso della scienza non sarebbe dunque potuto essere completamente diverso? Fantasie, che danno il senso di come la scienza non sia un processo ineluttabile. Verifichiamo così che nel processo di conoscenza costituito da incertezze e procedimenti a zig-zag, non è sufficiente apprendere qualcosa o arrivare a qualcosa, ma è necessario che il sistema cervello-mente sia in grado di accogliere quello che scopre e di mantenerlo. Quel processo di accoglimento, cioè la capacità di creare uno spazio mentale, una categoria con connessioni potenziali, e la capacità di crearlo con prontezza, risultano cruciali nel determinare se un’idea, una scoperta prenderà piede e darà frutto, o se verrà dimenticata, sbiadirà e morirà senza seguito. La prima barriera si incontra nella propria stessa mente, nel permettere a sé stessi di incontrare nuove idee e poi di portarle a un livello di coscienza pieno e stabile, di dar loro forma concettuale, mantenendole nella mente anche se non incontrano, o contraddicono le proprie concezioni, credenze e categorie.