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Diario russo 14. L’odore della metro

3 Luglio 2022

“Mi manca l’odore della metro”, a un certo punto mi dice mia figlia, mentre siamo in macchina diretti da Parma, dove ero a far esami, verso casa. “Anche a me”, le rispondo, pensando alle metropolitane di Mosca e di Pietroburgo, e nel mio caso soprattutto alle reazioni della mia prima volta in un vagone della linea 2 della città sulla Neva, dove in alcuni stazioni si aprono solo dei pesanti portelloni metallici ai lati di una enorme e lunghissima sala, installati per prevenire i danni in caso di allagamenti. All’epoca c’era ancora lo sbuffo di vapore, cinematografico d’inverno, quando la differenza delle temperature costringeva a veri e propri rituali di vestizione entrando o uscendo dalle stazioni, e dove contava l’abilità del sapersi vestire a cipolla (o a cavolo, come dicono in russo).

Le scale mobili, a Pietroburgo, sembrano portare al centro della Terra, inoltrarsi dritte come la prospettiva Nevskij verso il basso, illuminate dai lampioni degli anni Cinquanta di gusto decò-poststaliniano, alternati, sin dagli anni Novanta, dai cartelli delle pubblicità. A réclame di ottici e supermercati si susseguono ritratti di Aleksandr Puškin, con i versi del suo Cavaliere di Bronzo dedicati a una Pietroburgo maestosamente apocalittica: T’amo, creatura di Pietro/Amo il tuo grave e armonioso aspetto.

In queste settimane di operazione speciale, però, son apparsi altri manifesti, e altre parole, con il nastrino di San Giorgio a mo’ di Z e lo slogan, ormai da anni ripetuto con tetro orgoglio dalla propaganda e dal merchandising putinisti, “non abbandoniamo i nostri”. E forse è anche questa continua, pervasiva, opera di pubblicità lugubre, con tanto di punto di reclutamento aperto sulla piazza dell’Hermitage, a far pensare a come i ricordi siano sempre fatti di una materia delicata, intangibile, sempre a rischio di essere deturpata con poco.

Ricordi e quotidianità, la guerra, li stravolge. Trovare il prima e il dopo diventa spesso difficile, perché la distinzione vien segnata dalle atrocità, come se proiettassero in retrospettiva le proprie ombre su quel che è avvenuto fino al 24 febbraio. E fino a quella data non vi era però nessun paradiso, né tanto meno una realtà “normale”, però forse si pensava, come dice quella frase fatalista tanto amata da alcuni russi, che “il tempo avrebbe messo tutto al suo posto”. La domanda allora diventa quasi scontata, e se il posto della Russia di Putin era già predeterminato, era già contrassegnato dalla guerra?

D’altronde, l’ex direttore dell’Fsb succede a Eltsin in un contesto di un conflitto atroce, spesso dimenticato o interpretato parzialmente anche qui da noi, quello ceceno, e le stragi, i bombardamenti, gli attentati di quegli anni hanno avuto un ruolo nel forgiare il sistema di oggi, servendosi della paura e del controllo sui processi elettorali e sui media e inoculando l’idea che non vi sia alternativa alcuna.

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Senza Putin non vi è la Russia, ha tuonato più volte l’ambizioso Vjačeslav Volodin, presidente della Duma e in passato a capo dell’Amministrazione presidenziale, sapendo di mentire, visto che da qualche anno si vede come suo possibile successore al Cremlino. Ma è questo tipo di massime a gettar luce sulla povertà intellettuale di un settore importante dell’establishment, pronto ad abbracciare ogni nuova velleità ideologica proveniente dalle labbra del capo, provando un po’ a conservare il proprio posto, un po’ a farsi strada. 

L’idea di un eterno presente totalitario, di volta in volta presentatosi in differenti forme, non è per forza respinta dai sostenitori del sistema, perché permette di giustificare la posizione secondo cui non sia possibile governare il paese in un altro modo. Questa convergenza su cosa sia la Russia, la sua storia, la sua condizione, da parte del Cremlino e di alcuni suoi oppositori certe volte risulta essere talmente evidente da poter essere un vero shock.

Leggevo stamattina la traduzione in russo di un articolo di Gregory Yudin, sociologo oppositore della guerra e tra i migliori osservatori delle trasformazioni e della quotidianità del putinismo, originariamente pubblicato in tedesco sulla testata svizzera Neue Zürcher Zeitung. Tra tante cose condivisibili, Yudin scrive di una impressione che ho avuto anch’io leggendo Il futuro è storia di Masha Gessen, a proposito di un’intervista a Olaf Scholz, dove il cancelliere sostiene di aver capito la Russia leggendo il libro della giornalista: Questo libro – scrive Yudin – batte ripetutamente nel corso di qualche centinaio di pagine su un unico pensiero: la Russia non cambierà mai, il suo passato, il suo presente e il suo futuro sono nel totalitarismo, e ogni tentativo di cambiare è inutile. Vladimir Putin e i suoi critici liberali da tempo si trovano d’accordo proprio su questo: la Russia non la si cambia.

E questa impressione amareggia e fa rabbia al tempo stesso, perché si tratta di una resa incondizionata al concetto che non esistono popoli, società, persone in grado di autodeterminarsi, un’idea in grado di metter d’accordo tutti coloro che di solito strepitano, dai social e dai media, dicendo di aver posizioni diverse, ma accomunati dal disprezzo e dalla paura di possibili alternative. Alternative che sembrano esserci, nel loro piccolo: dal 24 febbraio al 30 giugno vi è stato un solo giorno, in Russia, quando non vi son stati né fermi né arresti per proteste contro la guerra, il 13 giugno. Ogni giorno, in ogni angolo del paese, c’è chi è pronto a testimoniare la propria contrarietà alle atrocità di questi mesi. È poco? Forse sì, ma è in loro che vi è la speranza di poter tornare ad aver dei bei ricordi, a una quotidianità dove non sarà possibile negare i bombardamenti sui centri commerciali, perché la guerra non ci sarà più, forse.

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