Infinito. Luigi Ghirri tra mito e storia

6 Novembre 2022

Nel 1998, sei anni dopo la morte prematura di Luigi Ghirri, si tiene a Modena e a Reggio Emilia una manifestazione di tre giorni in suo ricordo. Fra gli altri, sono presenti l’amico Gianni Celati e i componenti del gruppo Pierrot e la Rosa, lo studio bolognese di filmmaker che abitualmente accompagna lo scrittore nelle sue incursioni nell’audiovisivo. Dalle riprese effettuate in quei giorni prende gradualmente forma Il mondo di Luigi Ghirri, presentato per la prima volta l’anno successivo alla diciassettesima edizione del Torino Film Festival. 

È un film, come ha ricordato Nunzia Palmieri, che nasce dal desiderio di rendere omaggio a Ghirri “evitando scrupolosamente il gioco cinematografico della ‘messa in posa’, e lasciando che le immagini portino con sé tutte le imperfezioni e i piccoli accidenti in cui inevitabilmente ci si imbatte sul set”. Al tempo stesso, Il mondo di Luigi Ghirri è qualcosa di più di un’affettuosa e appassionata ricostruzione biografica: è quasi un exemplum, una moderna Legenda aurea, la storia del figlio del falegname che un giorno arriva a esporre, primo europeo, a New York, nella prestigiosa Light Gallery di Charles Traub. È la vita di un veggente, di un viandante, di un santo laico o, per usare le parole della moglie Paola Borgonzoni, di un “anarchico cristiano”, dotato dell’impassibile determinazione di Buster Keaton e della magica ingenuità di Stan Laurel. Un Ghirri, insomma, raffigurato come un eroe celatiano, parente stretto del Baratto o del Menini di Quattro novelle sulle apparenze.

Si tratta ovviamente di un ritratto “d’autore”, ovvero una ricostruzione affettiva, dichiaratamente parziale; e del resto già all’epoca non mancò chi, come Michele Smargiassi, con garbo faceva notare nel Ghirri di Celati “una cert’aria da artista sognatore e isolato” non del tutto aderente al vero. Eppure, la forza mitopoietica del film ha dato luogo a una narrazione “mitobiografica” in gran parte sopravvissuta fino a oggi. 

 

Infinito. L’universo di Luigi Ghirri, il film di Matteo Parisini presentato in prima mondiale alla Festa del cinema di Roma, tenta appunto di smarcarsi da questa mitobiografia. Dal Mondo di Celati all’Universo del sottotitolo di Parisini: la fortuna postuma di Ghirri nell’ultimo quarto di secolo si può misurare anche così. Una fortuna cresciuta in maniera quasi esponenziale, travalicando confini geografici e mediali, e per certi versi divenuta altrettanto ingombrante quanto l’aura mitica che circonda la sua figura. 

Come dice giustamente uno dei testimoni, il musicista e scrittore Massimo Zamboni, già membro dei CCCP e CSI, il mondo si è “accomodato” allo sguardo di Ghirri. È stato fra pochi a riuscire nell’impresa d’inventare mondi che prima non c’erano, a cominciare da quella pianura padana che lui fotografava ripetutamente, come fosse la sola pianura del mondo. È sufficiente scrollare i post sulla propria home di Instagram per rendersene conto: Ghirri è ovunque. Una pervasività dovuta non tanto o non solo alla capacità tutta ghirriana di restituire una “leggibilità estetica alla dispersione” del mondo reale, come ha scritto di recente Stefano Chiodi nel peraltro notevole Genius loci; ma a un’intima, costitutiva appartenenza a una realtà ormai mediata da strati e strati di immagini. 

Non è un caso, credo, che l’immagine fotografica di Ghirri sia divenuta essa stessa fonte d’ispirazione per il cinema. Non mi riferisco soltanto ai film dedicati alla sua opera, come quello di Celati o quello di Elisabetta Sgarbi (Deserto rosa-Luigi Ghirri, 2009); penso semmai all’impatto che il suo sguardo ha avuto sul cinema italiano degli ultimi trent’anni, dichiaratamente (Davide Ferrario per Sul 45° parallelo, Luca Guadagnino per Chiamami col tuo nome) e non (il compianto Carlo Mazzacurati per film come Notte italiana o L’estate di Davide, l’ultimissimo Gianni Amelio di Il signore delle formiche).  

Non va dimenticato, del resto, che lo stesso Ghirri è stato un grande consumatore di cinema. Dal ricordo delle comiche di Laurel & Hardy proiettate sui muri delle case di campagna, all’amore per registi come Wenders (di cui ricordava soprattutto le “mani da contadino”), Herzog, Fellini e Antonioni, Ghirri non aveva mai smesso di considerare il cinema un’importante fonte di ispirazione. In un dattiloscritto senza data, intitolato Il bollettino dei naviganti, Ghirri descrive la folgorazione provata davanti a una scena del film La strada: “Un uomo cammina lungo una strada che costeggia il mare, una donna sta stendendo il bucato, canticchiando una canzone. Sullo sfondo dei bambini giocano in uno spiazzo, e un po’ più lontano, un tendone da circo e una giostra. […] In questi pochi attimi, in questo aspetto così domestico, privo di enfasi e di retorica, in questo incontro molto dolce, mi si è rivelato tutto un modo nuovo di guardare nel paesaggio”.

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Il piccolo film di Parisini (73 minuti di durata), si trova insomma a dover fare i conti con tutto questo (e va detto che non è poco), chiudendo idealmente il programma di commemorazioni per il trentennale della morte di Ghirri. Per l'occasione, il regista ha potuto contare sull'aiuto dei famigliari del fotografo: la figlia minore, Adele, ha messo a disposizione l’immenso lascito fotografico del padre; mentre la figlia maggiore Ilaria, la sorella di Ghirri Roberta e la cognata Elena Borgonzoni hanno accettato di mettersi davanti alla macchina da presa come testimoni. 

Il documentario si presenta così come una sorta di pendant audiovisivo della ristampa accresciuta presso Quodlibet dell’antologia di testi Niente d’antico sotto il sole (ne ha scritto qui Marco Belpoliti), da cui peraltro sono tratte le parole del commento in voice over; e delle innumerevoli mostre che hanno costellato il trentennale, da quella di Polignano a Mare (Puglia. Tra albe e tramonti, ottobre 2021-febbraio 2022: ne ha parlato ancora Belpoliti qui) a quella di Reggio Emilia (In scala diversa. Luigi Ghirri, Italia in miniatura e nuove prospettive, aperta fino all’8 gennaio 2023), fino a quella di Modena (Luigi Ghirri e Modena. Un viaggio a ritroso, aperta fino al 20 novembre). 

Confezionato con sobria eleganza (la fotografia leggermente desaturata di Luca Nervegna, le musiche minimaliste di Simonluca Laitempergher), correttamente impaginato con il giusto piglio pedagogico (unica concessione al mainstream, la narrazione over affidata a uno Stefano Accorsi insolitamente sotto le righe), non si può dire che Infinito si caratterizzi per la novità delle sue soluzioni registico-narrative. La giustapposizione fra riprese “dal vero” e immagini di Ghirri appare talvolta eccessivamente didascalica, le intuizioni migliori sono spesso soltanto accennate, l’energia fin troppo trattenuta: come se Parisini non potesse o non volesse spingersi fino in fondo. Al contempo, tuttavia, il film rende conto e contribuisce alla meritoria opera di svecchiamento e rilettura che l’opera ghirriana ha conosciuto (e continua a conoscere) negli ultimi anni.

In questo senso, direi che è sintomatica l’esclusione dal racconto di figure come Lucio Dalla e Celati. Nel film i due compaiono soltanto di sguincio, e unicamente in fotografia: Dalla da lontano, mentre guarda quasi distrattamente l’obiettivo; Celati di schiena, viandante nel mare di neve (è un’immagine proverbiale, che finirà sulla copertina di Narratori delle pianure). La scelta di Parisini appare guidata da un senso di pudore (Celati e Dalla ormai non possono più testimoniare), ma anche dalla necessità di dare maggior respiro alla figura di Ghirri. A colmare il vuoto, oltre alle testimonianze già ricordate dei famigliari e a quelle degli amici (i pittori Franco Guerzoni e Davide Benati, il critico e storico dell’arte Arturo Carlo Quintavalle, ecc.), ci sono le riprese effettuate alla fine degli anni Ottanta dal gruppo Pierrot e la Rosa (una delle cose migliori del film) e i video amatoriali realizzati dallo stesso Ghirri poco prima di morire, primi approcci a quell’immagine in movimento che, secondo la testimonianza di Daniele De Lonti, sembrava attrarlo sempre più. 

Fra i miti che il film intende sfatare vi è innanzitutto la dimensione “provinciale” e “nostalgica” dell’opera ghirriana. Una dimensione che lo stesso fotografo aveva, se non proprio contestato, quanto meno provato ad articolare in maniera più complessa. Nel voice over, il film ripropone l’estratto di una introduzione scritta nel 1981 per il catalogo della mostra Paesaggio: immagine e realtà: “La provincia è il luogo per antonomasia, mescolanza di affetto e ripulsa, luogo dove si incrociano odio e amore, il tutto e il nulla, la noia e l’eccitazione”. E più avanti, da un’intervista del 1985 con Claude Nori: “Non ritengo che la mia opera sia limitata ad una dimensione provinciale: non intendevo trasformare le province nel simbolo dell’universo, ma le ritenevo un adeguato punto di partenza; poiché il vero simbolo della provincia è essere incapace di narrare la propria storia”.

“Affetto e ripulsa”: al pari dell’amato Fellini (la riflessione del 1981 muoveva proprio dal film I vitelloni), Ghirri ha fatto di questa dialettica il carburante della propria opera di fotografo. Del resto, come ha insegnato Giulio Bollati (Il modo di vedere italiano. Note su fotografia e storia, 1983), lo sviluppo della fotografia in Italia è stato a lungo condizionato dall’arretratezza industriale del Paese, dal suo tradizionalismo figurativo e dal suo estetismo. Ne era derivato, secondo Bollati, un “modo di vedere” teatraleggiante e cartolinesco, che avrà il suo apice nel fascismo e che perdurerà anche in seguito, “dovunque le strade asfaltate della civiltà abbiano tagliato fuori campagne deserte e vecchi paesi franati”. 

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Sulle prime, anche il giovane Ghirri sembra risentire di questa pesante ipoteca, negli anni delle campagne fotografiche in coppia con Guerzoni. I due si muovono in macchina tra Modena, Mantova, Reggio, Viadana, battendo le periferie ex-rurali a caccia di case diroccate o in rovina: “Eravamo alla ricerca di un mondo che credevamo sarebbe scomparso di lì a pochi giorni”, ricorda Guerzoni nel film. Il tema delle case che crollano tornerà molti anni più tardi nell’opera di Ghirri (sarà proprio a partire da un’idea dell’amico scomparso che Celati realizzerà nel 2003 il film Case sparse), ma in una chiave del tutto diversa. 

A differenza di quanto scrive Chiodi, infatti, Ghirri non è l’ultimo dei classici italiani, l’esponente di una linea “pierfrancescana” e classicista che cerca di conciliare modernità e tradizione. A partire dai primi anni Settanta, infatti, la sua rottura con il passato è netta, il rifiuto dell’estetismo radicale: “La prima cosa che mi colpi della fotografia d’allora era l’assoluta mancanza del presente”. Sarà proprio in contrapposizione alla stereotipia visiva delle fotografie Alinari che Ghirri, insieme ad altri fotografi, darà vita nel 1982 al progetto del Viaggio in Italia: è il tentativo di dare all’Italia quell’iconografia del contemporaneo che ancora mancava.

Nessuna nostalgia, dunque, ma semmai un continuo reinventare il passato (ancora un’attitudine felliniana). Intervistato da Parisini, lo storico della fotografia Paolo Barbaro spiega che per Ghirri la memoria era soprattutto un territorio “che si reinventa da percorrere e con cui è possibile giocare, in cui entra anche l’artificio, la finzione”. In questa chiave si possono leggere sia i primi lavori sull’album di famiglia (“il libro per restare”) e sull’atlante (“il libro per andare”, al centro del progetto Atlante, 1973); sia il lavoro sull’Italia in miniatura di Rimini (In scala, 1977-78). Il fantastico è un modo di abitare il quotidiano, in una continua dialettica fra lo spazio familiare (Ghirri aveva iniziato a scattare fotografie poco lontano da casa) e lo spazio dell’avventura, fra domestico ed esotico. 

Da questo punto di vista, uno dei momenti più riusciti e a suo modo toccanti è quello che mostra Luigi e la moglie Paola a Scandiano, mentre camminano a braccetto fra i baracconi di una fiera ripresi dagli operatori di Pierrot e la Rosa. La scena sembra quasi un rimando a Il paese dei balocchi, la serie fotografica realizzata fra il 1972 e il 1979. Ghirri si infila fra le attrazioni, la macchina da presa lo segue, indugiando sul retro dei baracconi: dietro l’ottovolante e la ruota, soltanto anonimi edifici di campagna, dai tenui colori morandiani. Sembrerebbe il tipico svelamento della finzione, ma Ghirri invita l’operatore a guardare meglio: “Quei due là, ve’…”, dice, accennando senza dare troppo nell’occhio a due ragazzi, teneramente abbracciati sul bordo di una terrazza affacciata su un terrapieno. La macchina da presa zooma in avanti, Ghirri commenta: “È bellissimo, eh?”. 

“Non riuscivamo a vedere quello che vedeva lui”, confessa Zamboni nel film. La capacità d’osservazione di Ghirri, in apparenza così immediata, non corrisponde però al cliché del dilettante di genio. Lungi dall’essere frutto di un’intuizione estemporanea, la straordinaria leggibilità delle sue fotografie è il risultato di un ragionamento complesso, tutt’altro che ingenuo o inconsapevole: un pensiero, come è stato detto, che si organizza per immagini. “Ho assistito al montaggio di alcune ricerche”, spiega nel film Arturo Carlo Quintavalle: “Per Ghirri, un libro o una ricerca è un romanzo, è un racconto. Per lui è importante il montaggio di questo racconto, la successione di fotografie… Montare le immagini in un modo che scattasse un conflitto, una somiglianza… Ghirri prevedeva degli stacchi ironici, dei momenti di pausa, di riflessione…”. 

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Infinito ci ricorda infine quanto Ghirri sia un artista pienamente novecentesco, che pensa per immagini e con queste dialoga. E se nel film del 1999 Celati insisteva sull’influenza di Giorgio Morandi e del libro Un paese della coppia Strand-Zavattini, Parisini mette in luce i rapporti di Ghirri con le avanguardie novecentesche (il collage di Max Ernst, le atmosfere sospese e irreali di de Chirico e Magritte) e con l’architettura contemporanea. In piedi, appoggiato al cavalletto davanti al cimitero di San Cataldo (Modena), Ghirri parla di Aldo Rossi, di come la sua Autobiografia scientifica sia “uno dei libri più importanti del dopoguerra”, e di come la sua non sia mai “un’architettura categorica, con la ‘A’ maiuscola, ma cerca di essere un’architettura che dialoga con l’ambiente circostante”. 

“È stato un grande pensatore”, dice l’amico e collega Gianni Leone, la persona che lo porterà a conoscere la Puglia e sarà uno dei nomi coinvolti nel Viaggio in Italia: “Più che un fotografo, quasi un anti-fotografo”. “Penso di essere un fotografo solo come seconda parte, per la prima parte sono una persona”, spiega il voice over, riprendendo una celebre dichiarazione di Ghirri. Infinito è un tentativo, in parte riuscito, di riportare il mito a una dimensione umana, storicamente determinata. Verso la fine del film, Parisini ripropone alcune delle inquadrature, girate dagli amici di Pierrot e la Rosa, che Celati aveva posto a conclusione del suo film. Grazie a un’accelerazione della pista visiva, là Ghirri si trasformava all’istante nel protagonista di una slapstick comedy, tutto scatti e movenze buffe. Stavolta, invece, Ghirri è mostrato a velocità normale: sale le scale, sbuffa, sistema fischiettando il cavalletto e la macchina, si china verso l’obiettivo, scatta. Non più personaggio, ma persona. 

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