I sentieri degli scrittori. Le Marmarole di Giovanna Zangrandi

31 Luglio 2023

«Ad Alma Bevilacqua che nel 1946-1947 costruì questo rifugio e che col nome di Giovanna Zangrandi ha lasciato eccelse e vibranti testimonianze letterarie di un animo forte e libero. La sezione di Treviso del Club Alpino Italiano pone a perenne riconoscenza e memoria».

Queste parole sono incise all’esterno dei Rifugio Antelao e sono la sintesi estrema di una vita, quella davvero forte e libera di Alma Bevilacqua, nata a Galliera, nei pressi di Bologna, il 13 giugno del 1910, divenuta “Anna” durante i giorni della Resistenza. Ormai identificata come fiancheggiatrice dei partigiani, nell’autunno del 1943 deve lasciare Cortina, dove lavora come insegnante di Scienze, e si unisce alle formazioni partigiane impegnate nelle montagne del Cadore: tra le Marmarole, nella zona di Forcella piccola, sotto il monte Antelao e in Val d’Oten. La passione per l’alpinismo e lo sci, praticati sin dai primi anni Trenta, hanno reso il suo corpo forte e allenato, così si rende utile sia come staffetta in bicicletta, pronta a macinare decine di chilometri per le valli, sia come guida delle formazioni partigiane tra le montagne.

Cambia ancora il suo nome, in Giovanna Zangrandi, nel dopoguerra, quando tenta il mestiere di scrittrice componendo romanzi, racconti e saggi. Proprio quest’anno sono stati ristampati Il campo rosso: cronaca di un’estate 1946, la storia della costruzione del Rifugio Antelao (edito dal CAI), I giorni veri: 1943-1945 (edito da Ponte alle Grazie) e alcuni racconti (editi da Monterosa); entro l’anno uscirà l’attesa biografia, scritta da Anna Lina Molteni.

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Una delle prime foto del Rifugio Antelao. Sullo sfondo le Marmarole.

Il rifugio si trova a 1.796 metri, sulla selletta di Pradonego, un pulpito di commovente bellezza sulle Marmarole, la parete argentata dell’Antelao e gli Spalti di Toro, ma lo sguardo può arrivare sino al Civetta e tante altre montagne, tutt’intorno distese di larici e abeti rossi. Giovanna ne restò incantata la notte in cui trovò riparo lassù durante un rastrellamento. Nel novembre del 1944, lei e altri due giovanissimi partigiani si erano trovati circondati dai tedeschi all’imbocco della valle di Oten; mimetizzandosi tra la bassa vegetazione erano però riusciti nascondersi e a fuggire verso l’alto, passando la notte in un piccolo roccolo, ancora oggi esistente e posizionato davanti al rifugio. Nei Giorni veri ricorderà con emozione quella notte di paura e poi di tregua sulla selletta di Pradonego: «Luna calante sul valico, nevaio intatto, un mondo in pace» e «una persa dormita sotto le frasche dei larici e il cielo vasto dell’Antelao».

Nei giorni e mesi successivi, immaginò di costruire il rifugio proprio lì, insieme all’uomo che ama, Severino Rizzardi, comandante partigiano: «una baracchetta chiusa, calda, con una stufa vera, accesa; finita la guerra forse arrivo ad averla sul valico delle Vedrette dove il prato è verde e deserto, protetto solo da pareti e da ghiacciai. Mi basterebbe tre metri per tre, ma chiuso, con un mastelletto di acqua calda per lavarsi e al mattino caffè vero. Avrò dei libri da leggere, tanti, da far passare il tempo delle bufere».

Per vedere quei luoghi e sentire qualcosa di quel senso di meraviglia e di libertà, il percorso più interessante è arrivare in auto a Pieve di Cadore prima e a Pozzale poi, salendo a piedi da Pozzale la strada sterrata, lunga ma in tranquilla pendenza, che conduce sotto il Monte Tranego, a 1.849 metri, si scende poi alla forcella Antracisa, a 1.693 metri, e si risale poi brevemente sino alla selletta Pradonego. Arrivare lassù d’inverno, con ciaspe o ramponcini, è certo faticoso, ma è forse la stagione migliore insieme all’autunno. Farlo in primavera, con lo spettacolo del rinascere della natura e le sterminate distese di fiori, è una buona alternativa. Il luogo è anche un ottimo punto di partenza per escursioni, verso l’Antelao o le Marmarole, in mezzo a una natura quasi incontaminata. 

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Alba sugli Spalti di Toro, visti dal Rifugio Antelao. foto di Giuseppe Mendicino.

Il rifugio è ancora oggi simile a quello realizzato dalla Zangrandi, molto sobrio ed essenziale, governato con gentilezza e tanto lavoro dal gestore Livio Zanardo e dal cuoco di origine nepalese Shailesh Sharma. 

Giovanna Zangrandi aveva pensato in un primo tempo di chiamare il rifugio “Ai Ghiacciai di Antelao”, per le magnifiche lingue glaciali che allora caratterizzavano quella grande montagna. Oggi quei ghiacciai sono ridotti a ben poca cosa.

Nel 1946 la guerra era finita, l’Italia era stata liberata con immani sacrifici, e il mondo sarebbe divenuto più civile e più giusto, speravano tutti, anche in Cadore e in Ampezzo. Giovanna aveva perso Severino, ucciso dai tedeschi alla fine di aprile del 1945, ma quel rifugio riuscì a costruirlo comunque, con due falegnami e due manovali, con impegno e fatica. Altrettanto faticoso fu poi gestirlo, e ben poco remunerativo; nel 1951, dovette cederlo al CAI di Treviso, che ne è tutt’ora proprietario. Intanto, tra lavori manuali e difficoltà economiche, Giovanna scrive. A Bologna si era laureata in Chimica, e da sempre ama leggere; prima della guerra aveva scritto su riviste locali dell’Ampezzo e del Cadore, e durante la Resistenza aveva riempito le pagine dei suoi quaderni di impressioni e fatti cui aveva partecipato o assistito durante la guerra. Sapeva raccontare con parole efficaci: dure nel rievocare eventi drammatici, leggere e quasi poetiche quando tratteggiava boschi e montagne. 

Lasciato il rifugio, si stabilisce a Borca di Cadore, dove per sopravvivere svolge lavori diversi, tutti manuali, continuando a scrivere: articoli, saggi e testi narrativi. 

Il successo giunge inaspettato con il romanzo I Brusaz, pubblicato da Mondadori nel 1954, che vince il premio Deledda. Vittorio Sereni, direttore letterario alla Mondadori è convinto delle sue qualità letterarie, e sarà l’artefice di un altro libro edito nel 1963 dalla casa editrice, I giorni veri: 1943-1945. Nel 1959 era uscito, edito da Ceschina, Il campo rosso cronaca di un’estate 1946.

Proprio negli anni in cui si consolida il suo mestiere di scrittrice, viene colpita dai primi sintomi del morbo di Parkinson, un male lento ma inesorabile, che le rende sempre più difficile usare le mani per scrivere, sia a macchina sia con la penna, e le gambe per camminare tra le montagne. 

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L'Antelao visto da una finestra del rifugio omonimo. foto di Giuseppe Mendicino.

Lei, donna forte e libera da sempre, perde lentamente anche la propria autonomia. In una lettera all’amico, alpinista e scrittore, Adolfo Balliano, presidente del Gruppo italiano scrittori di montagna, scrive: «…ora so che in montagna non andrò più, che con gli sci non andrò più, che quello che una volta era un corpo di atleta non servirà più. È rimasta la testa, e una spietata lucidità. Nella mia vita ho sempre guardato in faccia la realtà: l’ho misurata quando potevo andare in roccia, misuravo gli appigli e le distanze, e quella scuola mi ha insegnato a guardare in faccia anche altre misure e altre distanze, anche quelle dei vuoti che si aprivano davanti a noi».

Giovanna muore a Pieve di Cadore il 20 gennaio 1988, dopo molti anni di sofferenze per il progredire del male. Le sue foto e le sue lettere, conservate presso l’archivio Giovanna Zangrandi di Pieve di Cadore, curato da Roberta Fornasier, compongono il ritratto di una donna coraggiosa e libera, crudelmente provata dalla vita, ma invincibile. 

In copertina, Le Marmarole viste dal Rifugio Antelao, foto di Giuseppe Mendicino.

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