Perché se ne è lavato le mani? / Il dilemma del giudice: Ponzio Pilato

21 Marzo 2016

«Può capitare, talvolta, di trovarsi a ricoprire un ruolo di gran lunga al di sopra dei propri mezzi: e di esserci finiti per caso, senza averlo in alcun modo cercato, o almeno non rendendosene conto», afferma Aldo Schiavone nelle pagine iniziali del suo bellissimo libro, Ponzio Pilato. Un enigma tra storia e memoria (Einaudi, 2016). Si riferisce alla situazione in cui si è trovato Ponzio Pilato, il prefetto della Giudea che ha condannato alla crocifissione Gesù di Nazareth, probabilmente nell'anno 30 della nostra era. La sua fama è giunta fino a noi soltanto per questo, altrimenti la Storia si sarebbe richiusa su di lui senza registrarne alcuna traccia. Invece, quel fatto che Schiavone sostiene con precise argomentazioni sia stato più una congiura che un processo in senso moderno, ha cambiato la storia del mondo e il peso di Pilato in essa. E forse lui stesso. 

 

Aldo Schiavone è uno storico di fama internazionale. Specialista di storia del Diritto Romano e di Roma antica, in questo saggio si propone di ricostruire, nel modo più storicamente attendibile e plausibile in base alle fonti e alla sua profonda conoscenza dell'amministrazione romana del tempo, la tappa finale della vita di Gesù. La vicenda è nota: i sacerdoti del tempio di Gerusalemme, appartenenti alla casta dei Sadducei, ritengono Gesù un bestemmiatore, perché si è detto Dio e perché la sua predicazione costituisce una grave minaccia di sovvertire la tradizione giudaica. L'accusa che gli rivolgono è passibile di morte, secondo il diritto degli ebrei, ma essi non hanno il potere, trovandosi sotto il dominio di Roma, di condannare ed eseguire una sentenza di morte. Per questo hanno bisogno dell'intervento del prefetto e dei soldati romani. Nella sua precisa ricostruzione, Schiavone ridimensiona il peso del popolo che a suo avviso era sostanzialmente assente o, al più, composto da un modesto numero di persone vicine ai sacerdoti e, probabilmente, da loro stessi convocate. Ma soprattutto fa emergere – ed è la parte più avvincente e innovativa del libro – il ruolo di Ponzio Pilato e di Gesù stesso nel determinarsi degli eventi. E riesce in un intento che sembrerebbe impossibile data l'universale notorietà dei fatti, creando una suspense da poliziesco, un senso di attesa e una curiosità di andare avanti a leggere come se raccontasse una vicenda dall'esito incerto e ignoto. Il che si deve alla sua passione e competenza, certamente, a una scrittura sobria, moderna, elegante e precisa al tempo stesso, in cui si riconosce la maestria del giurista, ma soprattutto all'avere voluto «descrivere e spiegare ciò che potrebbe essere accaduto» liberandosi il più possibile da quadri e interpretazioni del passato «per il solo piacere del racconto e dell'interpretazione, in solitudine e in libertà » (p. 10). La sua libertà intellettuale si avverte e ha reso un libro che poteva rischiare di essere superficiale o scontato, serio come un libro di storia, avvincente come un giallo e appassionato come un commento al Vangelo.

 

Dopo avere descritto la successione drammatica degli eventi che vanno dall'ultima cena all'interrogatorio di Gesù da parte dei sommi sacerdoti Hanna e Caifa, e dopo avere spiegato come tutto deve essersi svolto secondo un piano che non poteva non essere noto e approvato dall'autorità romana, Schiavone ricostruisce la situazione politica e sociale della Giudea del tempo. Comincia, così, a mettersi a fuoco la figura di Ponzio Pilato delineata in base alle poche notizie che si hanno di lui e a quanto ci è noto della struttura sociale, militare e culturale della Roma imperiale. Da dove venisse Pilato non si sa. Certamente apparteneva all'ordine equestre e aveva avuto esperienze militari prima di diventare, nell'anno 26 della nostra era, probabilmente all'età di circa 40 anni, prefetto della provincia imperiale della Giudea. Il territorio sotto il suo comando era più piccolo del Piemonte o della Lombardia, dice Schiavone, tuttavia era il teatro di uno scontro enorme, non solo culturale ma «antropologico e di civiltà», che ha segnato tutta la storia e l'identità dell'Occidente. Si trattava di un «microcosmo poliedrico e frammentato» in cui le tensioni politiche s'intrecciavano alle istanze religiose, in un groviglio difficile da districare, dove il senso di sé e il ruolo della memoria storico-religiosa del popolo ebraico sopravanzavano in modo spiazzante, per occhi stranieri, l'effettiva importanza di quella remota regione imperiale. Pilato non era un sanguinario, non era un uomo inutilmente crudele né, tantomeno, un pupazzo tentennante e incerto stretto tra la paura dei sadducei, dell'imperatore e del popolo giudaico. L'immagine che ce ne rimanda Schiavone è di un funzionario accorto e capace, presto consapevole dell'intenzione dei sacerdoti di farsi scudo della sua autorità e del pericolo di essere trascinato in una resa dei conti tra fazioni che avrebbe potuto scatenare un'insurrezione popolare dalle imprevedibili conseguenze. Perciò, per prima cosa costringe i sadducei ad ammettere esplicitamente la loro volontà di uccidere Gesù. La questione religiosa non ha alcun significato ai suoi occhi e non merita il suo coinvolgimento; la sedizione, invece, è di sua competenza. Pilato capisce, calcola i rischi di una sua presa di posizione e vuole interrogare il prigioniero. A questa decisione contribuisce, probabilmente, anche una certa curiosità nei confronti di Gesù, la cui fama doveva essere giunta anche a lui. 

 

Finalmente Pilato e Gesù si trovano faccia a faccia. Inizia l'interrogatorio più famoso della storia. Ma subito, sottolinea Schiavone, quello che avrebbe dovuto essere l'interrogatorio tra un accusato e il suo giudice, diventa un dialogo, a tratti metafisico, tra coloro di cui i due personaggi coinvolti si sentono i rappresentanti: Roma, ovvero il potere politico, e Dio, del quale Gesù è certo di essere il Figlio, l'intermediario. Comincia la parte più intensa e innovativa del saggio di Schiavone che spiega progressivamente la sua tesi, fondandola passo a passo sulle parole e gli atteggiamenti dei protagonisti così come sono riferite dagli evangelisti, soprattutto da Giovanni. È ben presto evidente che Pilato è conquistato dal mistero e dalla forza magnetica della personalità del suo prigioniero. Le accuse dei sacerdoti lo convincono sempre meno. Decide di salvare Gesù, e ne avrebbe il potere. Eppure non lo fa. Perché? Non è un vigliacco, né un pusillanime come molta letteratura ha cercato di dipingerlo. È legato, sì, alla classe sacerdotale per questioni di governo, ma non al punto di non potere prendere decisioni in contrasto con la loro volontà. Afferma più volte di ritenere innocente l'accusato e Giovanni esplicitamente dice che Pilato vuole rilasciarlo. Perché – di nuovo – non lo fa? Schiavone trova una risposta plausibile nelle pieghe del dialogo tra i due protagonisti. I Vangeli raccontano che quando Pilato domanda a Gesù se si rende conto che lui ha il potere di crocifiggerlo o di liberarlo e questi gli risponde che quel potere lo ha solo perché gli è dato dall'alto, il procuratore ne fu «spaventatissimo».

 

Non era il potere di Cesare che Pilato temeva, come è stato talvolta ipotizzato, secondo Schiavone, ma il potere e la presenza di un Altro che si manifestano ai suoi occhi nelle parole e nell'atteggiamento di Gesù con una forza e un'evidenza che lo sconvolge. Il ruolo tra accusato e giudice si è rovesciato: ora è Gesù a giudicare Pilato e, in parte, lo assolve perché la sua colpa è meno grave di quella di quanti lo hanno consegnato per farlo uccidere. Gesù non vuole morire, ha pregato e pianto, sudato sangue per l'angoscia e la paura, ma non intende sottrarsi al suo destino, fallire lo scopo del suo essere venuto nel mondo. Quando arriva davanti al prefetto, Gesù sa già – lo ha capito? lo ha deciso? – che dovrà passare attraverso la morte e la totale donazione di sé. Pilato non è più giudice ma strumento e tra loro, dice Schiavone, si stringe un patto «tacito e indicibile» che determina l'esito della vicenda. L'ultima domanda di Pilato, che possiamo immaginare gli abbia rivolto con un misto di pena e paura, forse di rabbia impotente, prima di cedere alla sua volontà, è ancora oggi la stessa. E ancora oggi è senza risposta: «Di dove sei?»

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