Intervista a Lorenzo Mattotti

30 Gennaio 2012

Abbiamo incontrato Lorenzo Mattotti in Italia, di passaggio da Parigi dove abita ormai da diversi anni. Illustratore tra i più noti al mondo, esordisce a metà degli anni Settanta come autore di fumetti. All’inizio del anni Ottanta fonda con Carpinteri, Jori e Igort il gruppo Valvoline, che reinventa il linguaggio del fumetto italiano.

 

Raggiunge la popolarità nel 2000, quando è chiamato a illustrare la locandina per il Festival di Cannes, ma già da parecchi anni collabora con Le Monde e The New Yorker. Tra gli ultimi lavori, la collaborazione con Lou Reed attorno a The Raven e le tavole dedicate al padre e alla madre all’interno del volume a cura di Yves Haddad, Père & Mère (Editions de la Martinière), che raccoglie i lavori di diversi artisti.

 

                                                                                           

Da poco pubblicato in Italia, Venezia (Edizioni Logos) è invece un vero e proprio reportage dalla città lagunare. Come scrive Claudio Piersanti nella prefazione,Venezia è stata raccontata e descritta innumerevoli volte, difficile è quindi sfuggire dallo stereotipo del già visto, ma illustrare è per Lorenzo Mattotti mostrare una percezione, entrare nell’intimità delle cose per rivelarne i sentimenti più reconditi. Fondere gli occhi con la mente tracciando un segno nuovo ogni volta, restituire la parola allo sguardo in un movimento ogni volta un po’ diverso, che ci appartiene e a cui apparteniamo, sedotti.

 

In questo breve dialogo, Lorenzo Mattotti scosta un poco la porta della sua officina mentale e ci accompagna tra i suoi ultimi lavori.

 

 


 

Quali sono le differenze nel concepire un lavoro come Venezia che proviene da una situazione reale e Pinocchio che è invece un oggetto letterario, un prodotto dell’immaginario?

 

Qui ci vuole un trattato teorico!

Se sono lavori che partono da bisogni personali, lo sviluppo può essere anche molto lento e con temi che crescono parallelamente con un segno che fa scaturire altre immagini che a loro volto aprono una porta per un mondo nuovo. E questo è totalmente un lavoro personale, in cui non si sa mai dove si andrà a parare.

Quando invece lo stimolo è esterno, dato da qualcuno che pone una scommessa o chiede una soluzione ad un problema, a quel punto mi domando quale sia la risposta migliore.

E questo provoca un incrocio di questioni, come reinterpretare, ma anche come pormi di fronte a questo nuovo soggetto.

 

                                                                          

Qual è il punto di partenza per un nuovo lavoro?

 

Sostanzialmente il problema riguarda le strutture e gli schemi grafici, che esistono anche nel fantastico, ma che si vorrebbe anche distruggere. Con Pinocchio ho iniziato partendo dalla mia firma grafica tradizionale a pastelli o a matita, quindi lavorando all’interno delle strutture che ben conoscevo. Poi però è stato necessario andare oltre. E mi sono posto una serie di domande per provare ad affrontare Pinocchio anche con segni diversi, con altre tecniche, con nuove forme.

Ogni volta il segno è il tuo pensiero e quando lo hai scelto è come se dicessi “io la penso così” perché il segno è come la parola e questo va capito prima di tutto.

 

 

Nell’affrontare un nuovo soggetto ha più spazio la mente, con il suo archivio di memoria, o lo sguardo, quel che vede di fronte a sé?

 

Venezia è una sorta di reportage e ho lavorato sullo sguardo. Avevo bisogno di filmare la città per ricreare la spazialità e il movimento. Uno sguardo registrato che reinterpreta e poi filtra. Il segno diviene il risultato dello sguardo, la sua emozione. Quando invece racconto storie, come nei miei fumetti, sono molto più legato alla memoria. La memoria è la stratificazione continua di azioni e cose fatte ed ha per me ogni volta una forma diversa. Necessità di una forma nuova che sappia contenere le emozioni di cui sono composti i suoi strati.

 

 

Il colore oltre la descrizione cosa diventa?

 

Il colore è un’esperienza e utilizzarlo come espressione a un certo punto non basta. Bisogna dargli l’emozione. Il passaggio dalla descrizione all’emozione è una storia già nel momento stesso in cui lo compio. Il colore si carica così di tensione e di angoscia, ovviamente ciò dipende anche dal soggetto. In Hänsel e Gretel domina l’affabulazione che è per me intrinsecamente legata alla memoria. Quando ho pensato a Hänsel e Gretel non ho pensato a un libro per bambini, ma a me bambino, ai miei ricordi infantili, alle mie paure e ho tirato fuori queste immagini in maniera totalmente emotiva. È stato necessario ritrovare un filtro infantile per dare forma alla storia, ma senza pensare a un codice specifico per bambini: volevo prima di tutto resuscitare qualcosa che avevo dentro.

 

 

Fortemente personale è anche Père e Mère, il lavoro che ha dedicato a suo padre e a sua madre. Suo padre un albero e sua madre una nuvola, due opposti?

 

Mi capita spesso di mettere nelle mie storie a fumetti un personaggio che si ferma sotto un grande albero. E in sogno, erano già sei anni che mio padre era morto, ho incontrato qualcuno, forse io stesso, che mi spiegava che quell’albero era mio padre. Ho continuato a pensarci anche da sveglio e riflettendoci mi sono reso conto che effettivamente mio padre era proprio un albero: molto silenzioso, che amava muoversi poco, ma anche distaccato dalle cose e un punto di riferimento solido, una presenza sicura. Un albero sotto cui andare per riposarmi o proteggermi per poi poter nuovamente andar via.

La nuvola invece perché mia madre, sempre un po’ più positiva, ed effettivamente un po’ tra le nuvole, aveva serenità e leggerezza. Oggi che è malata di Alzheimer è diventata completamente una nuvola. Ha perso tutta la memoria, ma con dolcezza: in pace con se stessa e con il mondo, ha una dolcezza infinita. È chiaro che poi quando si parla di genitori è tutto sempre molto complicato, ma in questo caso mi è venuto tutto molto naturale.

 

                                                                                             

Ha mai pensato di lavorare utilizzando l’Ipad, alla maniera di David Hockney?

 

Ma allora mi provochi!? (ride ndr) Certo ho visto la mostra di David Hockney, ma già mi avevano affascinato molto le sue prove che avevo visto in precedenza. Brushes, quel programma che registra tutte le fasi della creazione, mi aveva molto incuriosito. Quando un anno fa mi è stato chiesto da France 3 di fare la regia di un cartone animato che avrebbe dovuto andare all’interno di un film per la tv, quindi con un budget basso e tempi stretti, ho pensato, avendo visto proprio la mostra di Hockney, se per caso non si potesse utilizzare proprio Brushes per Ipad. L’idea è stata però non quella di fare un quadro, ma di utilizzare la registrazione attimo per attimo di tutti i segni che si fanno sulla tavoletta, un’animazione della metamorfosi. La maniera stessa in cui si disegna è un movimento, una danza. Abbiamo così lavorato in maniera sperimentale, ma per il grande pubblico. Piccole cose - è un mezzo che richiede principalmente leggerezza e semplicità - ritratti che si trasformano, quasi disegni da bambini, scarabocchi, ma che, in continua mutazione, non stanno mai fermi.

 

 

Come è maturato il suo rapporto con la tavoletta?

 

All’inizio si entra come in uno stato ipnotico, perché ogni segno che faccio viene registrato ed è come una registrazione in tempo reale della mia creatività. Portando al limite questa idea, è possibile immaginare di registrare la creatività secondo per secondo. Vedere il segno nel tempo esatto in cui compare è la visualizzazione del pensiero. Una sensazione vertiginosa che rischia però di diventare anche un’ossessione.

Non è il disegno in sé la cosa affascinante, ma dove la trasformazione continua può portare. Un po’ quello che fece Henri George Cluzot filmando Picasso mentre lavorava sul vetro, registrando la continua e imprevedibile mutazione del disegno. Hockney stesso ha detto: “per la prima volta vedo come ragiono disegnando”.

 

 

                                                                                        

Illustrare è fondere immaginazione e realtà?

 

Io passo spesso dalla realtà al totale immaginario che alle volte mi risucchia, faccio tantissimi disegni che non so nemmeno io cosa vogliano dire.

L’immaginario non è banalmente un immaginario illustrato. I segni danno sì forma ad un immaginario espresso, ma lo possono anche distruggere, eliminando forme conosciute per tentare di crearne di nuove. Questo è affascinantissimo, anche se certe volte spaventa, perché può diventare fortemente autistico: il linguaggio diventa sempre più personale e intimo, si entra in luoghi propri, ma totalmente ignoti. La realtà, al contrario, è la possibilità di parlare agli altri e la continua lotta è tentare di fondere le due cose affascinando la gente con il mio immaginario. Ad esempio sono ormai cinque anni che con Jerry Kramsky stiamo lavorando ad una storia totalmente diversa, una cosa proprio di un altro mondo che ogni volta ci conduce davanti ad un nuova porta che nasconde dietro di sé l’ignoto: animali sconosciuti e cose stranissime. Ed è proprio la costruzione di un mondo a sé dove anche le emozioni personali si mostrano sotto forme nuove, impensabili, che caratterizza poi il grande fascino del fumetto, il suo meccanismo più classico. Mentre lavorando con Claudio Piersanti per un fumetto destinato ai lettori del Corriere della Sera dobbiamo trovare il modo di costruire una storia più reale, ma che abbia comunque al suo interno anche un’esperienza grafica nuova. L’equilibrio di un segno immaginario e nello stesso tempo realistico è molto complicato da trovare. Immaginare una storia nuova tiene conto ogni volta di variabili diverse, l’esperienza con la voglia di capire e imparare qualcosa di nuovo, ma senza scordare di dare ai lettori, essendo il fumetto un mezzo popolare, leggibilità ed emozioni.

 

 

Come si concilia la ricerca con un mezzo popolare come il fumetto?

 

La ricerca per me non è una strada dritta, è piuttosto un movimento in tondo con una forza che mi spinge fuori ed un’altra che mi mantiene sempre in circolo. La mia esperienza forse mi porterebbe ad andare via dritto lungo una strada, ma ho capito che io non funziono così. C’è una forza centrifuga che ogni volta mi riporta sui miei passi. Torno così sulle vecchie cose, magari soggetti abbandonati che reinterpreto e rielaboro. Ma forse la cosa è un po’ più complicata.

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