Italia: nazione fantasma

9 Aprile 2023

La storica Carlotta Sorba ha opportunamente ricordato, riscostruendo il percorso culturale del lemma «nazione» in età contemporanea, come la «nazione» sia una questione di enorme rilievo per la storiografia e per gli storici. Anzi, insiste, quel tema sta al cuore del XIX secolo e di nuovo si è ritrovato “al centro dei nuovi percorsi della storia culturale a partire dagli anni Ottanta del XX secolo”.

All’interno di quel percorso la variabile populista, che è diventata così centrale a partire dalla fine del XX secolo, riguarda soprattutto come si è prodotto il racconto del passato, quali performatività ha messo in campo, quale mitizzazione del passato è tornata al centro del nostro tempo presente. 

Un percorso fondato su un paradosso (il paradosso ABC) su cui il politologo Louis Snyder nel suo The New Nationalism ci aveva messo in guardia molti anni fa: vi sono popoli (A) che si appellano al nazionalismo per ottenere i propri diritti (in nome della sopravvivenza) contro una nazione (B) ma negano quegli stessi diritti ad altri popoli (C) che si trovano sotto il loro dominio.

È quanto, opportunamente, ha richiamato lo storico Pierre Rosanvallon intervenendo alla radio in lingua francese delle rete radiofonica belga [RTFB] nel gennaio 2021 a commento e a illustrazione del suo libro Le siècle du populisme (Seuil) che proprio su quel processo propone di focalizzare l’attenzione.

Da questo punto di vista il recente libro del politologo Alessandro Campi – Il fantasma della nazione (Marsilio) – si presenta come uno studio di caso interessante.

Perché in un qualche modo, pur proponendosi come un contributo critico alla piattaforma di ricerca di Rosanvallon, e dunque stando su una linea di indagine propria degli storici degli ultimi anni, di fatto si rivela come una dimostrazione, forse involontaria (in ogni caso significativa), dell’oggetto e del tema dell’indagine dello storico francese.

Mi spiego.

Alessandro Campi muove le sue considerazioni da due presupposti.

Il primo riguarda un dato di lungo periodo, fondatore della modernità, ovvero il fatto che la nazione sia il simbolo dello sviluppo della modernità. Un “movimento storico”, spiega nelle prime pagine, che negli ultimi quattro secoli, almeno in Europa, “spingeva verso l’unificazione territoriale, l’accentramento delle funzioni burocratico-amministrative e la convivenza tra realtà socio-culturali che mantenevano le loro specificità all’interno di una costruzione che sebbene politicamente omogenea accettava il pluralismo dei valori e delle identità”[pp. 10-11].

Un processo che oggi risulta rimesso in discussione da quei movimenti che fanno del particolarismo un modo per rivendicare diritti, privilegi, eccezioni, spesso in nome e in relazione a loro «eccellenze» che possono rivendicare (il riferimento in questo caso è alla Catalogna o alla Scozia: ma Campi non ricorda il tema dell’invenzione delle tradizioni come fondamento dei neonazionalismi e dei particolarismi etno-regionali su cui Hobsbawm e Ranger richiamavano l’attenzione a metà degli anni ’80).

Il secondo riguarda la pandemia e gli effetti di “orgoglio di idea nazionale e, soprattutto, di diffidenza verso la mondializzazione che questa vicenda ha reintrodotto nel «senso comune». Ovvero la convinzione, scrive, “che la pandemia fosse da considerare una sorta di patologia della mondializzazione” [p. 19].

Da qui la nuova forza – meglio nuovo fascino – dell’idea di nazione, che Campi giudica, almeno nel caso italiano, allo stesso tempo investita da una potente richiesta, ma sostanzialmente debole, o non costruita nel patto che tra Unità d’Italia e «tempo attuale» configura il sentirsi italiani.

Un processo, precisa, identificabile in cinque diverse tappe. Rispettivamente: Italia liberale, fascismo, Prima repubblica, Seconda repubblica, infine ultimo decennio che apre a ipotesi sovraniste. Un percorso, precisa, che si fonderebbe su un processo di identità nazionale non compiuto.

Quel processo coltivato dalle voci forti del Risorgimento, cioè dal nucleo della destra storica nelle sue due anime – da un lato Cavour e la classe politica sabauda, dall’altro le espressioni delle componenti vicine all’esperienza mezzadrile (toscane e emiliane, soprattutto: per tutti Bettino Ricasoli e Marco Minghetti) – e al contempo da Mazzini e dagli unitari democratici, in sostanza non si sarebbe riversato nella costruzione del sentimento nazionale.

Significa che alle due domande: 1) che cosa è oggi una nazione, in astratto e comunque in teoria? e 2) che cosa è oggi la nazione nella cultura italiana nel discorso pubblico, nel senso comune, ma anche nella classe politica, di qualsiasi colore politico e qualsiasi sia la sua appartenenza?,  secondo Campi non c’è risposta.

Entrambe queste domande, aggiunge [p.125] non hanno connotato le culture di destra cui sarebbe mancata un’idea positiva progettuale della patria che aveva fatto nascere l’Italia unita, e che nell’Italia della Prima repubblica sarebbe stata propria di quelle forze politiche [Pri ePli] che al Risorgimento italiano facevano riferimento, ma che pesavano troppo poco sul piano elettorale.

A questo, aggiunge il fatto che la svolta nazionalistica di inizio ‘900 non si è tradotta se non come opzione di conquista territoriale. 

In breve non ha avuto sviluppo in Italia l’ipotesi culturale della nazione.

Tema e progetto che furono alcuni intellettuali prevalentemente di area nazionalistica – Campi fa riferimento a Giuseppe Prezzolini e a Giovanni Papini e  soprattutto alle riviste intellettuali di cui furono espressione culturale e politica – “La Voce, 1908-1914; “Leonardo”, 1903; “Lacerba”, 1913-1914 – a perseguire, ma senza produrre un discorso pubblico che, tolto l’elemento espansionistico, di conquista, significasse un’idea di identità di gruppo, di ricostruzione di una filiera di passato in grado di dare forma non solo al presente di un gruppo umano ma, soprattutto, alla sua voglia di pensare futuro insieme.

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Si potrebbe rilevare come questo profilo non faccia che riprendere per certi aspetti una domanda propria dei momenti di crisi del sentimento nazionale, come nella storia italiana avviene per esempio nella Milano sotto occupazione nazi-fascista, ovvero nel tempo della Repubblica Sociale tra 1943 e 1945, quando Federico Chabod tiene il suo corso sull’idea di nazione che appunto tende a riscattare da quell’ipoteca nazionalista e a recuperare quel Mazzini a cui il fascismo aveva fatto indossare la camicia nera. E, insieme, a riscattare e disimpegnare dall’ipoteca fascista l’idea di nazione proposta dai risorgimentali.

Si potrebbe anche rilevare come quel ragionamento sulla morte dell’idea di nazione non sia nuovo, anche se andrebbe temporalmente «ricollocato» e anteposto al crollo della Prima Repubblica.

Sollevato o proposto ai primi anni ’90 da Ernesto Galli Della Loggia, in realtà fu inaugurato nel 1988, con uno spessore più intrigante e articolato, da Silvio Lanaro con il suo Italia nuova che per primo ci fece rileggere De Profundis di Salvatore Satta, un testo che allora a molti sembrò «fuori registro», ma che aveva alle spalle un laboratorio storiografico di profondo spessore sull’Italia della provincia e sul modello economico del Veneto. Una realtà che in Italia abbiamo iniziato a guardare sulla scorta della crisi di fine anni ’70 e dell’insorgenza del leghismo, ma che Silvio Lanaro (e Mario Isnenghi con lui) avevano già da anni al centro del loro laboratorio di indagine, proprio sul tema dell’identità nazionale.

C’è una nostalgia della nazione nell’Italia nel nostro tempo attuale, ma manca complessivamente un fondamento politico capace di riprendere il progetto formulato all’origine dell’Italia unita e dunque capace di esprimere per davvero un culto della nazione che non si risolva in «sovranismo».

Alessandro Campi nel suo Il fantasma della nazione, è convinto che la nazione sia una categoria carica di futuro, ma nella storia italiana sia priva di una tradizione capace di produrla. Così pone il problema della forza, ma anche delle debolezze delle agenzie politiche democratiche, di sinistra e anche di destra, che con quella categoria si sono confrontate tra Regno d’Italia, Prima repubblica e Seconda repubblica.

Pensa che qualche chance forse può averla l’Italia di oggi.

Ha un culto della nazione – che assume come categoria astratta, senza storia, e non coglie (anche perché non sembra mai averlo letto, stando alla bibliografia che cita) quello che Ruggiero Romano con acutezza aveva già descritto a fine anni ’80. Anche allora contestato da molti e soprattutto da Gianfranco Miglio, in quel tempo «luminare» della Lega Nord, ovvero la necessità di fare i conti con la cultura del “paese Italia”.

Ruggiero Romano insisteva sul fatto che non esiste una nazione italiana, bensì un Paese.

Che cos’è un Paese? 

Un paese, spiegava Romano nel suo libro che aveva per titolo Paese Italia (Donzelli), è un insieme di elementi forse più “modesti” di quelli molto spesso immaginari che si attribuiscono alla Nazione, ma a suo avviso più concreti: il mangiare e il bere; il credere religioso e magico; la lingua e i dialetti; le usanze e i giochi.

È in questo – ed altro ancora – che consiste un Paese.

Per questa via Romano respinge l’idea che si possa suddividere l’Italia tra una porzione a vocazione “europea” – e perciò a priori “moderna” – e una “mediterranea” – e perciò “non moderna”. La sua proposta consiste nel guardare all’Italia come un Paese che ha forti tratti di omogeneità – senza peraltro tacere anche delle accentuate differenze che si esprimono in un linguaggio unificato.

Operazione che non consiste, né significa, la ridicolizzazione della sua storia, ma è comprendere come e in che forma si sia prodotta in Italia una cultura dell’identità che non è la nazione astratta, ma la costruzione di una comunità che prima di tutto deve fare i conti con i propri deficit, con i ritardi, nonché con il bisogno di produrre una comunità, come aveva intuito Renan (di nuovo qui è interessante la lettura che a suo tempo propose Silvio Lanaro).

Di Renan – di nuovo senza sottovalutare contraddizioni o le traiettorie anche inquiete su cui aveva richiamato all’attenzione Regina Pozzi, una grande studiosa della Francia dell’Ottocento – Alessandro Campi, invece, si ricorda solo distrattamente.

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