Madama Cristina e la Divina Provvidenza

19 Marzo 2016

Quando la storia accade, non la si percepisce. Siccome c’era l’oscuramento, che chi non l’ha vissuto non saprà mai che cos’era, la gente di Torino che si affollava sui tramvai non poteva neppure sapere dove si trovava.

Per via dei bombardamenti, non c’erano più i lampioni, i vetri dei tram erano di cartone marcio, salvo quello del guidatore che così sapeva solo lui dov’era all’incirca il tram immerso in quell’inchiostro. Arrivato all’ignota fermata, terminato il solito stridio dei freni sull’acciaio delle ruote e delle ruote sull’acciaio delle rotaie, spalancava con la manovella le porte e litaniava il posto dove, secondo il suo parere, ci si era venuti a fermare nel buio e i passeggeri tendevano le orecchie invisibili per capire se dovevano scendere o restare. “Mada-amacri-istina” salmodiava il tramviere, risparmiandosi per rispetto della metrica il sostantivo “Piazza”. Siccome però in Piazza Madama Cristina c’era l’edicola dei giornali all’angolo con via Berthollet con dietro la filiale della Banca d’Italia con un bassorilievo in bronzo che raffigurava le api per incitare al risparmio etc., dato che la padrona di quell’edicola si chiamava Cristina, quando sentiva la lauda ”Madama Cristina!”, da dentro la sua baracchetta, rispondeva sempre: “mi sun si” che non si sa cosa voglia dire in cinese, ma in piemontese significa: “io sono qui”, sottinteso “E sono la signora Cristina”.

 

 

Il fatto più importante di tutti (ai fini di questo racconto) nel quale si potrebbe aggiungere che accanto alla banca prima della guerra c’era una fabbrica di tortellini che si vedeva dalle vetrine mentre li facevano e mio padre diceva sempre che quello non era un posto da comprare tortellini, il fatto più importante di tutti era l’edicola. 

In quel mondo ormai alieno, con la radio spaventosa che diceva solo bugie e radio Londra ancora in via di rodaggio, l’edicola va intesa come un misto di Google, Wikipedia, Facebook e via dicendo. Soprattutto Facebook perché i giornali facevano schifo come la radio e scrivevano panzane che si comprendevano dalle reazioni di chi comprava il giornale, lo guardava e impallidiva e poi, a capo chino, se ne tornava a casa tentennando la testa.

 

Mio padre, con tutti noi, stava lì a vedere se si poteva capire qualcosa. Talvolta mi mandava a comprare “l’Osservatore Romano” nella speranza di essere ispirato da qualche brandello di verità. Speranza vana perché, più la situazione si complicava, più succedevano disgrazie da non si dire, più l’Osservatore per prudenza scriveva titoloni a piena pagina, tipo: “Ormai è certo, Maria Vergine è stata assunta in cielo tutta quanta”, e aveva anche ragione perché il fatto fu poi assodato nove, dieci anni dopo da Pio XII, tanto che oggi, quando la gente va via a Ferragosto (compleanno dell’Imperatore Augusto) a fare i bagni di mare, li fa perché Ferragosto è diventato la Festa dell’Assunta.

All’edicola c’era sempre con noi mio nonno Eugenio, che non era tanto vecchio, ma gli anni che aveva li dimostrava tutti. Quando è morto, a 72 anni solamente, un giovanotto si direbbe oggi, si sapeva che scambiava i bombardamenti per fuochi d’artificio. Beato lui! È riuscito ad andarsene in piena Belle Epoque, e festeggiava. L’affezione principale del nonno era, appunto, la confusione: non capiva più in che mondo si trovava. (Oggi siamo in grado di comprenderlo).

Siamo nel 1941, il secondo anno di guerra per l’Italia, il terzo per il mondo, e manca molto ancora alla fine di quella roba per chi è riuscito a sopravvivere. Mio padre quel mattino si avvicina all’edicola perché ha notato parecchia gente che non solo tentennava, ma in una mano teneva il giornale e con l’altra si batteva la coscia. Questo segno di sbigottimento è antichissimo e si trova da qualche parte nella Bibbia, quello in cui c’è un passante che, non sapendo nulla della brutta fine di Babilonia, vistene le immani rovine, i giardini pensili tutti giù, sentendo il lugubre grido delle upupe e dei gufi, si batte appunto la coscia, e possiamo pensare che, nel frattempo, nel suo cervello si sia formulata la frase: “Ma guarda un po’ che roba! Chi l’avrebbe mai detto!”.

Dunque, a quella vista (suppongo io adesso) mio padre dovette pensare: “Stavolta sul giornale c’è la Babele, speriamo”. E comprò “La Stampa”.

 

La prima pagina era tutta nera per via di un immenso titolo a caratteri di scatola che diceva solo: “LA RUSSIA IN GUERRA”.

Mio padre, che si era fatto parecchi mesi sul Carso, in condizioni che definire disperate è un eufemismo alla Walt Disney, da allora era stato abbindolato da una fiaba che oggi nessuno ricorda più, intitolata: “Il Rullo Compressore”. Se ne stavano lì, i fantaccini, a combattere nei dintorni di Trieste contro la deprecata Austria-Ungheria, non ce la facevano più, Cadorna ordinava gli attacchi frontali, mangiavano schifezze in mezzo a topi e scarafaggi nelle trincee con un freddo bestia etc. A proposito, fu a causa di quel periodo che mio padre, finché visse, dormì con in testa il conforto del passamontagna. La fiaba del 15-18 diceva che noi italiani adesso stiamo qui molto malmessi, ma intanto lo Zar di tutte le Russie recluta milioni di milioni di soldati mongoli, siberiani, uzbechi, tagiki, ceceni, tungusi, eschimesi, per rovesciarli addosso alla Germania che finirà spiaccicata come se fosse passato un rullo compressore. Qualcosa di simile a quel che succede al coyote quando sfida lo struzzo autostradale. Questo cartoon non lo vide mai nessuno, anzi, ohimei!, alla rotta di Caporetto (mio padre che era di Pisa diceva ohimei) ma rimase in testa al mio papà cucito al passamontagna. “Russia? I Tedeschi sono finiti, questa è la volta che arriva il Rullo”. E arrivò, quella volta, ma molto, molto tempo dopo per chi riuscì a vederlo.

 

Con in testa queste farneticazioni, mio padre, cercando di reprimere il grido spontaneo: “Vittoria! Vittoria! Quelli là li spiaccicano!” tese il giornale aperto al nonno perché vedesse anche lui (e faceva la stessa faccetta maligna di Mentana quando dice la frase: “E adesso, per dovere di cronaca, dobbiamo almeno accennare all’ultimo guaio giudiziario del Cavaliere”). Il nonno frastornato vide l’immensa e fatale titolazione, poi guardò in faccia mio padre con quegli occhi di cielo che hanno certi putti ignari che riempiono lo spazio di immensi affreschi, e chiese chiarimenti in proposito, formulandoli così: “È un bene o un male?”.

La frase, oltre che ingenua, era di stampo ebraico garantito. E questo è attestato dalla famosa barzelletta ebraica dell’ebreo francese che legge il giornale mentre la moglie rigoverna i piatti e, a un certo punto, dice: “Tiens! Il y a eu un tremblement de terre au Chili” e la moglie: “C’est bon pour nous?”.

Indignato per il particolarismo giudaico del nonno, il papà lo scrollò per le spalle curve, gridando sottovoce: “Papà! Papà! È un bene, un bene per noi e per tutti! Forse siamo salvi! Adesso arriva il Rullo Compressore!”. 

Intanto, nella Domskaya Ulitsa al numero civico 18, Leningrado (RSFR), oggi San Pietroburgo (Russia), contemporaneamente a questi memorabili fatti di Piazza Madama Cristina, in una vecchia cucina una radio sgangherata trasmetteva la voce chioccia di Stalin che denunciava la vile aggressione nazista di poche ore prima, tradimento del nobile patto Molotov-Ribbentrop e di conseguenza proclamava la “Grande Guerra Patriottica”.

Avverto il lettore che, a questo punto, abbandono la mia personale tara ipermnestica e mi affido a quella del bambino Victor Zaslavsky (1937-2009). Dedico a lui questo mio racconto per riconoscenza delle sue opere storiche e di quel che mi disse qualche anno fa. E inoltre gli volevo molto bene anche per il suo aspetto fisico, il volto ironico, impassibile, enigmatico e rassegnato. La sua bassa statura, il vestire dimesso…

 

Dunque, a un convegno de “il Mulino”, a Bologna, finita la sua conferenza che demoliva una mezza dozzina delle mie ultime illusioni sul comunismo, il PCI, Togliatti, la svolta di Salerno, queste sono quelle che ricordo, ma ce n’erano altre, lo acciuffai mettendogli un braccio sulle gracili spalle. Lui mi guardò con aria interrogativa e anche un po’indispettita per il mio eccesso di confidenza, che infatti era in buona sostanza provocatorio: gli raccontai, a lui impassibile per quanto sempre un po’ più rannicchiato, i fatti di Piazza Madama Cristina, che contengono, senza esprimerlo, il seguente meme persistente: “Senza la Russia non ce la saremmo cavata”. Ascoltò con pazienza, e quando mi rispose, colsi nei suoi occhi il guizzo di malignità buona che contraddistingue ancora oggi molti di noi ebrei. Era uno scontro di ebrei maligni per i quali non si può dire “non avrebbero fatto del male a una mosca”, ma invece “non hanno mai fatto del male a nessuna mosca, e con tutta probabilità mai lo faranno”.

Chiuso il guizzo maligno, Victor rispose, e riferisco a memoria sì, ma con ipermnesia senile, le sue esatte parole, alle quali voi dovete aggiungere solo un lievissimo accento russo: “Nello stesso istante del 1941, nella cucina di casa mia di quando avevo quattro o cinque anni, finita la concione di Stalin, mio padre chiuse la radio e, per qualche istante nel silenzio con tutta la famiglia che lo guardava, non priva di una certa e meritata apprensione (meritata se penso a quel che accadde dopo), formulò un suo pensiero interrogativo guardandoci tutti: “Sono ateo da sempre e non ho mai creduto alla Provvidenza. Tuttavia, in questo momento sono sconvolto perché non riesco a comprendere per quale motivo, se non l’intervento che nego della divinità che nego, quel mamzèr di Hitler si sia messo a fare la guerra a quel mamzèr di Stalin” .

 

Nel dialetto ebraico-italiano mamzèr è un insulto che significa, come in italiano, bastardo in tutte le sue accezioni. Mi emozionò moltissimo però che la stessa parola ebraica fosse in uso nella Leningrado del 1941. Se poi si indaga sulle radicali MMZ della parola mamzèr, si trovano fra le tante le seguenti accezioni: bettola, forchetta, mescolato, furbo. A Mosca nel 1962, Stalin invece era definito chelev che, in ebraico significa cane, e gli ebrei della sinagoga di Mosca, per farmi comprendere bene il significato, ogni volta che pronunciavano la parola chelev, abbaiavano mentre erano in corso le funzioni del Sabato.

 

Quando mi reco a Berlino vado ogni volta al Tiergarten al Monumento del soldato sovietico e mi raccolgo in meditazione pensando al mio papà, a quello di Zaslavsky, ai milioni di morti, al nonno, alla Divina Provvidenza che non esiste anche se non è divina, a Victor Zaslavsky che, ma non ne sono sicuro, visse anche l’assedio di Leningrado. Chiudo sempre la mia meditazione con un inno al Rullo Compressore.

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