Mari e monti (4). Sulle tracce dei ghiacciai

12 Agosto 2022

Alla sinistra orografica della Valle dell’Orco, in Piemonte, si sviluppa un vallone secondario, scavato meticolosamente dal torrente Piantonetto. Lungo il vallone si arrampica una strada che, con il procedere dei chilometri, si assottiglia fino a ricordare uno spago: a volte è addirittura più stretta del torrente. Il nastro d’asfalto termina a poca distanza dalla grande diga di Teleccio. Trecento metri più in alto, affacciato sulle acque turchesi del lago artificiale, il rifugio Pontese scruta l’orizzonte insieme ai suoi ospiti passeggeri.


Sfruttando il rifugio come punto d’appoggio si possono esplorare i paesaggi retrostanti, incorniciati da un ventaglio di creste e vette esteticamente molto vertiginose e pronunciate. La più alta (3692 m.) è una piramide di roccia chiamata Torre del Gran San Pietro. Qui Sandro Delmastro – uno degli amici con cui Primo Levi si avventurava in montagna nel periodo degli studi universitari, nonché protagonista del capitolo Ferro del Sistema Periodico – nel 1938 aprì una variante alpinistica insieme alla sorella Gabriella.

Rispetto ai nostri giorni, il paesaggio che si distende ai piedi della Torre doveva essere sensibilmente diverso. La diga, realizzata nel 1953, non svettava ancora in fondo alla valle: quindi niente chiusa in cemento armato; in modo ragionevole niente strada asfaltata, ma, soprattutto, niente lago artificiale. Inoltre, quando i fratelli Delmastro si addentrarono nel Vallone di Piantonetto, non poterono contare sul Rifugio Pontese, perché fu inaugurato nel 1967, a quasi trent’anni dal loro passaggio (come punto d’appoggio si servirono quindi del Bivacco Carpano, allora come oggi istallato a quota 2865 m.). Infine, le lingue glaciali che i due riuscivano ad abbracciare con lo sguardo dalla vetta del Gran San Pietro si sono in parte estinte.

In un arco di tempo molto ristretto, paesaggi alpini hanno subito trasformazioni profonde e radicali. Questo perché non abbiamo ancora compreso o accettato che l’ordine naturale è caratterizzato da uno stretto legame di interdipendenza tra gli elementi che lo compongono. Il primo ad acquisire questa consapevolezza fu il naturalista, esploratore, geografo e botanico tedesco Alexander von Humboldt (1769-1859) alla fine del Diciottesimo secolo.

Tuttavia, osservando l’evoluzione storica e socioeconomica delle principali potenze mondiali, questo importante approdo culturale non ha trovato riscontro nella realtà dei fatti. L’universo naturale ha continuato a essere percepito come un grande magazzino dove l’uomo può attingere illimitatamente le risorse di cui ha bisogno, ma anche dove può stoccare gli scarti della sua attività frenetica.

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Ma a forza di prelevare con ingordigia via via crescente o di depositare più di quanto terra e atmosfera riescono a tollerare, gli equilibri naturali si sono alterati. Era inevitabile. Pertanto oggi – com’è a tutti ben visibile – ci troviamo a fare i conti con una crisi climatica originata proprio da una concezione del mondo che tende a considerare uomo e natura in termini dicotomici, come fossero due realtà tra esse scollegate.


Una dimostrazione della dannosa inconsistenza di tale visione ci viene offerta dagli effetti delle emissioni di gas serra prodotte dall’uomo (causa principale della rapidità con cui stanno aumentando le temperature a livello globale). Questi effetti sono molteplici e si manifestano in modo più o meno percepibile. Tuttavia, se dovessimo individuare un elemento-simbolo capace di riassumere la situazione drammatica che rischia di segnare il nostro destino, forse lo potremmo trovare proprio nei ghiacciai.

Il volume dei ghiacciai, infatti, sta di stagione in stagione diminuendo. A confermarlo non sono più soltanto i dati forniti dai glaciologi o dai climatologi, ma anche l’occhio attento di chi unisce al viaggio un desiderio di conoscenza.

Proprio da questo desiderio di conoscenza è nato il progetto fotografico-scientifico Sulle tracce dei Ghiacciai, ideato e diretto dal fotografo Fabiano Ventura.

Dal 2009 al 2021 Ventura, accompagnato da una squadra di registi e ricercatori, ha condotto 8 spedizioni sui maggiori ghiacciai montani della terra – Karakorum (2009), Caucaso (2011), Alaska (2013), Ande (2016), Himalaya (2018) e, naturalmente, Alpi (2019-2020-2021) – con l’intento di confrontare l’attuale situazione dei ghiacciai con quella immortalata dai fotografi che hanno visitato gli stessi territori prima che si palesassero gli effetti dei cambiamenti climatici. 

Dalle spedizioni hanno preso vita 90 comparazioni fotografiche, frutto di un accurato lavoro di ricerca finalizzato, tra le altre cose, a individuare il punto esatto dove fu scattata l’immagine storica: replicare l’inquadratura ha aumentato l’efficacia dei raffronti, suggestivi e allo stesso tempo malinconici.

Oggi le 90 comparazioni sono raccolte nella mostra EARTH’S MEMORY. I ghiacciai testimoni della crisi climatica, promossa e organizzata dal Forte di Bard e visitabile fino al 18 novembre 2022. Alle immagini – in grande formato e in altissima qualità – si affiancano i dati scientifici raccolti nel corso delle spedizioni e divulgati in modo coinvolgente attraverso le innovative tecniche di interactive design e data visualization. Completano l’esposizione i video delle spedizioni e le interviste ai diversi ricercatori coinvolti, esempi di abbigliamento alpinistico storico e moderno e, infine, una preziosa selezione di mappe e di documenti storici sulle prime esplorazioni geografiche dei territori in questione.

Durante la visita le sensazioni camminano in bilico tra due sentimenti contrastanti: stupore e inquietudine. Se da un lato, infatti, si è travolti dalla potenza di tali trasformazioni, dall’altro la drastica diminuzione dei ghiacciai gonfia il petto di angoscia.

Le fotografie esposte si rivelano uno strumento efficace per stimolare quel coinvolgimento emotivo che, come scriveva l’antropologo Amitav Ghosh riferendosi alla letteratura, dovrebbe spingerci ad adottare comportamenti più aderenti alle caratteristiche ambientali del presente.

Per chi non l’avesse mai visitato, il Forte di Bard si trova all’imbocco della Valle D’Aosta. Arroccato su un’enorme roccia, vigila come un rapace su chi si addentra nella valle. Tutt’intorno si sviluppano rilievi, che in certi casi superano i 4000 metri. Oggi l’escursionista ha ancora modo di essere spettatore dei ghiacciai: alcuni immensi, eterei, di un’imponenza e di un candore soverchianti; altri più minuti, sporchi e materici, la cui agonizzante sopravvivenza anticipa un destino ormai segnato. Sono questi ultimi che il turista (escursionista o alpinista che sia) dovrebbe imprimersi nella memoria. Se da un punto di vista estetico hanno perso gran parte del loro fascino, da quello umano invitano a riflettere sulle nostre scelte per garantire un futuro alle generazioni più giovani.

Andate a visitare questi ghiacciai, possibilmente spostandovi con i mezzi pubblici, in bicicletta o a piedi. Non limitatevi alla semplice osservazione, ma provate a interpretare ciò che si profila di fronte al vostro sguardo. Salite in montagna non solo per fuggire temporaneamente dalla realtà di tutti i giorni, ma per guardarla dall’alto, con occhio meno coinvolto e di conseguenza più lucido e nitido: è il primo passo per muoversi nel territorio e tra gli impervi sentieri della vita con maggior consapevolezza.

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