Mario Cresci, La matita di un fotografo

21 Dicembre 2022

Doveva essere un libro di 80 fotografie e testi scritti dall’autore stesso, per omaggiarlo dei suoi 80 anni compiuti nel 2022. Ma Mario Cresci, questo grande artista-fotografo capace di sprizzare curiosità e voglia di mettersi in gioco, ha subito scompaginato le carte. Invece di cercare disciplinatamente le foto più rappresentative del suo ricco e articolato percorso artistico, gli è «venuta voglia» – come mi racconta – di sceglierle e “rifarle” sotto forma di schizzi, di disegni creati ripercorrendo e rileggendo a memoria quelle fotografie stesse. Insomma ha voluto passare dall’intelligenza del vedere all’intelligenza della mano e dei ricordi per indurre lo spettatore a re-immaginare le sue opere. Va a merito del poeta Stefano Raimondi, che ha curato il libro e lo presenta con un’acuta prefazione, l’aver accettato questa in apparenza strana bizzarria di Mario, da cui è nato il libro: Mario Cresci, Matrici. L’incertezza del vero (Mimesis/Sguardi e visioni, pp. 216, € 18).

In ogni caso, niente paura, per chi avesse voglia di andare a scoprire le “vere” immagini, un QR code alla fine del libro consente di vedere le immagini-matrici da cui sono nati i suoi schizzi veloci. Si tratta, in fondo, di un ritorno alle origini del suo percorso d’artista. E scrivo “artista” anche perché Luigi Ghirri, di fronte ad alcuni suoi lavori quasi per nulla fotografici, gli aveva chiesto scherzando: «Ma perché odi tanto la fotografia?» – come mi racconta l’autore ridendo. E inoltre perché alcune sue opere sono esposte nell’importante mostra, tutt’altro che esclusivamente fotografica, al Jeu de Paume di Parigi: Renverser ses Yeux.

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©MarioCresci.

Autour de l’arte povera 1960-1975: photographie, film, video (fino al 29 gennaio 2023, mostra che verrà riproposta questa primavera anche alla Triennale di Milano). Ma torniamo alle “origini”, a quando nel 1963 il giovane Mario seguiva il Corso di Design a Venezia. Per una ricerca che gli era stata assegnata, studia gli “scaraboti”, ovvero i disegni a matita del Canaletto e va a ritrovare gli stessi punti di vista scelti dal pittore nei suoi spostamenti in barca sulla laguna. Nel suo testo scrive: “Avevo ripreso a distanza di tempo gli stessi itinerari e spazi scelti dal pittore veneto nel desiderio di sviluppare una metodologia di ricerca tra il passato e il presente”.

Da sempre proteso a far dialogare realtà e memoria, a rivivificare il passato coniugandolo con il presente – come testimoniano anche le molte opere presenti nel libro nate a partire dall’arte antica – con questi disegni Cresci riattraversa la sua stessa storia e la vivifica ricordandoci il suo, il nostro, debito nei confronti dei molteplici artisti che hanno segnato la storia dell’arte. Come molti artisti del passato e in parte del presente, il suo obbiettivo non è banalmente quello di esprimere la propria creatività. Lui stesso dichiara: «Non riesco a raccontare storie inventate, tutto parte dal mio vissuto.

Più che di immaginazione ho bisogno di immersione: il mio lavoro è là fuori, ma visto dall’interno. Dentro la quotidianità ci sono già tutte le condizioni che voglio approfondire, a partire dal piano umano». Mario Cresci, a dispetto degli esiti variegati dei suoi lavori – dove la cultura del design e della grafica si coniuga con la vicinanza alle avanguardie storiche, la conoscenza della fenomenologia con l’etnografia – non è infatti mai stato uno sperimentatore, semmai un autore che, di fronte a una realtà da cui si sente umanamente, eticamente toccato, si chiede: “come posso raccontarla senza tradirla, come posso creare un’opera che ridia vita a situazioni, cose e persone che mi hanno coinvolto?”.

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©MarioCresci.

E l’esito non sarà mai la ripetizione di uno stile sempre riconoscibile, valido per ogni occasione, ma la capacità di adottare approcci visivi e progettuali estremamente diversi l’uno dall’altro, così come diversi sono gli incontri con il reale che lo circonda e lo coinvolge. Il suo obbiettivo, citando Alighiero Boetti, è «inventare un mondo, mettere al mondo il mondo» schivando dogmi e certezze assolute e mettendosi in un atteggiamento proteso al confronto e a fare tesoro delle esperienze altrui. Così è affascinato dai saperi di Cafagna, soprannome di un anziano cacciatore e cercatore d’erbe alle falde del monte Pollino (a cui dedica un ritratto e pagine molto intense); è stato amico di Luigi Ghirri, maestro del colore con un tocco delicato, ma pure del suo “opposto”, ovvero Mario Giacomelli, con il suo bianco e nero contrastato e annerito da interventi fatti a mano.  

Ciò che emerge in modo forte da questo libro – tra testi ripresi da interviste e nuovi scritti – è proprio questa capacità di Cresci di mettersi in gioco umanamente, di immergersi nella realtà e al contempo pensare al suo progetto, il tutto rivelando in modo sincero, intimo, da quali pensieri, emozioni e riflessioni siano nati i suoi lavori. Opere che rifà e cita con mano sicura e veloce per rivelarci la poetica del suo fare e del suo vedere coniugato con vaste conoscenze che spaziano dall’arte, alla fotografia, al design.

In Lucania ad esempio (dove ha vissuto tra il 1967 e il 1980 e si è impegnato in molti lavori di taglio antropologico), vede una stravagante trebbiatrice di legno solitaria nella campagna e così ne scrive: «La grande macchina fa pensare alle ondulate distese di grano della Lucania e anche alle sterminate pianure americane. Forse perché in nessun posto come questo l’America è tanto vicina: è tutta nella valigia piena di fotografie dell’emigrante». Ed ecco che scatta una fotografia frontale, in bianco e nero, nel più puro stile alla Walker Evans.

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©MarioCresci.

Con un semplice click coniuga indissolubilmente America e Lucania, rende un omaggio all’emigrante lucano e non ha paura di fare una foto alla maniera di Evans. Sempre a proposito di emigranti, quando, nell’estate del ’72, si trova a Tricarico e a Oliveto Lucano, realizza la sua serie forse più famosa: Ritratti reali. Nelle case di molte famiglie troneggiano infatti le immagini di parenti emigrati o deceduti, e lui allora che cosa fa? Non si limita di certo a realizzare un ritratto in posa con foto dei parenti in bella vista, cosa che sarebbe già stata interessante. Fa di più.

Diamo la parola allo stesso Mario Cresci che ci racconta nel suo libro questo progetto: «La prima fase restituiva una visione d’insieme del gruppo situato al centro dell’ambiente; la seconda, in avvicinamento, si focalizzava sul primo piano dei componenti della famiglia; nella fase conclusiva, la terza, in primissimo piano la fotografia, prescelta dai membri anziani, ripresa isolata nel suo contesto. Le tre immagini vennero poi montate in sequenza, secondo una lettura verticale, dall’altro verso il basso».

Ando Gilardi lo definì «un super ritratto collettivo», e certo aveva ragione. Ma quello che colpisce è che questa progressione in avvicinamento sia anche un coniugare il presente con il passato, un avvicinare e valorizzare la storia di due generazioni, e soprattutto un rivivificare i ricordi, ridare valore ai legami e sottolineare come per questi contadini non valesse l’individualismo monadico oggi trionfante, ma la continuità famigliare. Insomma è come se loro ci dicessero: “noi siamo la storia delle nostre famiglie e dei saperi che nel tempo hanno accumulato”.

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©MarioCresci.

Non a caso Mario Cresci ci racconta anche la storia di fotografie in cui si era imbattuto ma aveva preferito non riprendere: fotografie che pure lo avevano commosso per la loro intensità e gli avevano insegnato il valore della libertà creativa, là dove questa ha un significato e nasce da una necessità. Egli ci racconta ad esempio che una donna rimasta a Tricarico, mentre il marito era emigrato a New York, circa ogni tre mesi si faceva fare una foto con i figli in uno studio fotografico dotato di fondale con palme e cammelli.

Tra lei e i figli lasciava sempre uno spazio vuoto che avrebbe riempito con la foto che il marito, vestito a festa con tanto di coppola, le avrebbe inviato dall’America. Lui era lì sempre accanto a lei e ai loro figli in ben trenta foto-cartolina! Che tenerezza… chi se ne importa se queste immagini dimostrano l’incertezza del vero. Sono infatti opere che ridanno vita ai sentimenti più autentici, tanto che Cresci le ricorda «perfettamente come se le avessi ancora “stampate” nella memoria». Per ritornare alla citazione di Boetti, queste foto «mettono al mondo un mondo» ed è questo che conta per la donna di Tricarico e la sua famiglia, per ogni artista e per Mario Cresci che ha appreso sino in fondo la sua lezione.

Sempre a proposito di libertà creativa, un esempio significativo è sicuramente il suo lavoro La casa di Annita (2003). Tale opera nasce con l’intento di preservare la memoria e le tracce sedimentate della vita in una villetta degli anni Trenta, nei giorni in cui questa stava per essere svuotata dai figli a seguito della scomparsa dei genitori. Mario Cresci sente che il corpo vivo della casa sta cessando di esistere per la perdita delle sue funzioni, avverte il dolore di chi è costretto ad aprire e liberare vecchie scatole, armadi e cassetti pieni di cose conservate con cura.

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©MarioCresci.

Con discrezione decide allora di usare la fotografia come una forma di scrittura fredda, classificatoria e possibilmente priva di sentimenti retorici, così come aveva fatto negli anni Settanta quando aveva fotografato numerosi oggetti della cultura popolare del Sud d’Italia nel progetto Misurazioni. La sua intende essere una fotografia-prelievo, rispettosa e priva di proiezioni emozionali. Eppure, nonostante il suo sguardo frontale e diretto, qualcosa accade: si tratta di una piccola differenza che cambia tutto, un leggero scarto che rimescola le carte e le rimette in gioco.

Cresci cambia infatti la posizione di alcuni oggetti della casa, ne altera le posizioni pur lasciandoli lì, nelle stanze dove li ha trovati: vede le cose non solo con lo sguardo, ma le incontra e le sposta “per rigenerare la memoria delle cose”. Così, su un cassettone, mette capovolta la borraccia che il padre della proprietaria portava al lavoro; dispone sul pavimento in bell’ordine guanti e altri oggetti di famiglia; riprende in vari modi un corsetto a bizzarri quadri in bianco e nero trasformandolo in un’opera cinetica. Insomma non ha paura di intervenire, di creare opere un po’ “stage photography”, un po’ testimonianza di una sorta di performance. Operando in questo modo anticonvenzionale, le scene che egli riprende acquistano una sottile magia, una nuova vita che restituisce senso a quella passata e al contempo sorride, come un piccolo cenno, verso il futuro, verso un universo aperto, dove le umili storie degli oggetti proseguono nonostante tutto. 

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©MarioCresci.

D’altra parte, mai nelle opere di Cresci il valore della memoria delle cose diviene sterile nostalgia del passato, ma sempre valorizzazione di atti creativi espressi da persone che in essi proiettano la loro storia e la loro identità. E la fotografia dal canto suo si presenta come un’immagine-oggetto che mostra il visibile senza tradirlo, ma con l’aggiunta di una variazione imprevista, a volte di un quasi niente che la rende vibrante, diversa, perché nasce dalla sua capacità di coniugare il vedere con il mettersi in relazione, con un coinvolgersi privo di greve seriosità, ma attraversato da un che di giocoso e spiazzante come un punto di domanda.

Un punto di domanda che, nell’opera L’uovo-pendolo di Piero (2022), lo ha spinto a intervenire sulla famosa Pala di Brera di Piero della Francesca, con un tocco quasi inavvertibile. Cresci ha infatti voluto qui dare un lieve movimento all’uovo che scende, un po’ metafisico, proprio sopra la testa della Madonna con Bambino, attorniata da santi, angeli e dal committente Federico da Montefeltro. Si tratta di un intervento minimale, fatto in post-produzione, a partire da una copia dell’opera dell’archivio della Pinacoteca. Rimane integra l’atmosfera rarefatta e composta del quadro, ma lui vi introduce un tocco perturbante e spiazzante semplicemente spostando l’uovo sulla sinistra, come se si trattasse di un pendolo sorpreso in un istante del suo moto oscillatorio.

«Ho immaginato che un leggero, leggerissimo movimento tellurico spostasse la tela e che l’uovo si muovesse a pendolo in sintonia con il movimento della terra (…) Un pendolo, che oscillando segnalasse un potenziale, imminente pericolo per l’umanità». Ed ecco che, come per incanto, nuovamente con una minima operazione, la Pala di Brera ci riparla dell’oggi.  In fondo ci è impossibile interpretare davvero il passato senza fare appello al nostro presente. Come scrive Georges Didi-Huberman: “La storia costruisce intrecci, la storia è una forma poetica, ovvero una retorica del tempo esplorato”. D’altra parte Mario Cresci non è anche un po’ un esploratore tenace, capace di coniugare poesia e memoria?

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