Autobiografia del dolore

2 Aprile 2013

Georges Perec, sdraiato sul divano dello psicoanalista Jean-Bertrand Pontalis, ritrova il suo ricordo più doloroso. Un ricordo d’infanzia, riguardante la deportazione della madre. In W ou le souvenir d’enfance, sua opera autobiografica pubblicata nel 1975, consegna il compito di dire quel dolore straziante a una casella vuota. Non un capitolo, ma un taglio tra un capitolo e l’altro: tre puntini di sospensione che interrompono una struttura che intreccia un racconto di finzione a una collezione di ricordi. La lacerazione più grande si consegna in un vuoto che toglie l’aria.

Primo Levi nella prefazione di Se questo è un uomo scrive il suo passo indietro rispetto al dolore: testimoniare e cercare di comprendere per restituire «uno studio pacato dell’animo umano».
Ma la poesia che precede, soglia ulteriore, ordina al lettore di considerare, meditare, ripetere.
La comprensione è impossibile, e insostenibile il ricordo come esperienza individuale. Per ricordare è necessario pensare all’esperienza come zona di irrealtà.

Simonetta Fiori e Massimo Recalcati sono intervenuti sulle pagine di Repubblica in questi giorni rinnovando un dibattito cui avevano preso parte l’anno scorso, sul medesimo quotidiano, Michela Marzano, Stefano Bartezzaghi e Miguel Gotor. «Il dolore è di gran moda». Osservando il successo popolare dei racconti-testimonianza, Gotor faceva notare come rispondessero a un’esigenza di messa a nudo come garanzia di autenticità; la verità certificata nella carne, nell’esperienza vissuta. Michela Marzano rivendicava la necessità di guardare a quello scrivere come atto militante: nominare l’esperienza del dolore per dire l’origine del proprio interrogarsi sul mondo; incarnare il pensiero. Bartezzaghi registrava come il dolore non venisse più fatto oggetto di elaborazione: viscere esibite, senza la mediazione della letteratura. E senza, della letteratura, la promessa: il cuscino della propria infanzia più che sguardo indiscreto nel privato della camera da letto, è apertura di un gioco che chiama il lettore complice. Far deflagrare la memoria, originare deviazioni senza saturare lo spazio.

Industria del dolore, ma non solo. È l’intimità tutta a essere esibita in maniera ogni giorno più consistente nel mondo contemporaneo; dalle foto postate su twitter di gravidanze e colazioni, alle confessioni in campagna elettorale, ai quadretti bucolici tra nipoti e animali domestici. Obiettivo: l’autentico al di là del ruolo; così da rendere l’altro, uomo di successo o vicino che sia, «mio simile, mio amico». Come se non vi fosse più posto per il pudore o come a dare corpo alle parole di Jacques Derrida, che definisce il pudore un sentimento intimamente contraddittorio, esibizionista nella sua stessa logica. Ma il purismo della verità – l’intenzione che anima la parola che si impegna a ‘dire il vero’ – si è rivelato nella sua natura retorica, meramente strategica. Rousseau ne è stato mirabile esempio.

 

Quanto si scrive su di sé non può mai essere l’ultima parola, non vi è una verità accaduta di cui farsi testimone: è necessario fare a meno dell’imitazione e affidarsi alla nominazione, passare «attraverso l’imbuto stretto del linguaggio», per poi scoprire, scacco ulteriore, che non vi è possibilità di risalire a qualche cosa di precedente l’immaginario illusorio. Del resto è proprio l’immaginario la dimensione chiamata in causa e responsabile del successo di testimonianze emotive che intendono suscitare un movimento di empatia nel lettore; non solo capiamo gli altri a partire da noi stessi, ma, sempre per via analogica, il movimento inverso: perdoniamo noi stessi scoprendoci, se non simili all’altro ideale, non così soli nelle nostre fragilità.


La contrapposizione tra autobiografia e finzione non si gioca allora tanto nel loro diverso rapporto con la verità, ma più in questo differente modo di implicare il lettore. Le confessioni rispondono al bisogno di seguire l’esperienza di realtà di un altro essere umano; non il passato, né le memorie, ma l’umanità (anche) dell’altro idealizzato, rispetto a cui ci misuriamo. Così i social network. Prigionieri nel campo delle apparenze sociali. A determinare il loro successo è il desiderio di riconoscimento. Non vi si afferma alcuna irriducibile individualità, producono omologazione e a essere attivato è lo «schema fatalmente narcisistico». In questo movimento empatico di avvicinamento all’ideale si celerebbe, scrive Recalcati, anche quel lato oscuro che, dell’altro, vorrebbe vedere incrinata la perfezione. È la ricerca, al di fuori di noi, di quel senso di insufficienza che ci portiamo addosso.

E tuttavia: nelle confessioni è mai davvero in campo una verità sotto la maschera? Sanno offrire materia per nutrire il sottile sentimento di rivincita? Non è ogni autoritratto «ennesimo riflesso di una scrittura accuratamente docile»? Rousseau rimproverava Montaigne di essersi ritratto di profilo, di aver raccontato sì i propri difetti e il proprio dolore, ma con giudizio e prudenza. L’accusa, con buona pace del filosofo francese, non risparmia chi la pronuncia: Rousseau racconta le proprie vergogne e mostra persino l’origine della perversione sessuale, ma imbarazzi e cicatrici confessati sulla pagina sono perlopiù declinati al passato; per il Rousseau che scrive, vivente e presente, c’è prima e più di tutto il plauso per la propria coraggiosa sincerità.

 

Non sono forse i nostri (ancora) i tempi in cui il rischio è quello di fare dell’eroe che si mostra umano un ancora più eroe? Un eroe nonostante, non un eroe con i suoi coni d’ombra ma eroe in quanto testimone di questi coni d’ombra? È compromessa per sempre la possibilità di dire il vero, siamo già da sempre implicati tra realtà e finzione, sempre lontani da un autentico, soggetto o dolore che sia. Se l’arte è troppo palese il prodotto rischia di essere macchiato di inautenticità, ma è possibile esibire il dolore con una scrittura di grado zero e aggirare il tradimento dell’arte? La funzione della letteratura non può essere dire, o ribadire, un pezzo di realtà. Scrivere non dei propri amori e dei propri lutti, travalicare «qualsiasi materia vivibile o vissuta»: servirsi delle parole per smascherare il reale. Che cosa farcene di questo amore per il reale, per la parola diretta, per l’assenza di mediazione? Accogliere la dimensione tragica dell’esperienza umana non significa esibire il dolore, e nemmeno un sapere sul dolore.

 

Giorgio Manganelli suggeriva di prendere la propria verità per i capelli, trascinarla dove il vero non ha privilegio sul falso. Che cosa mai dovrebbe comunicare un’opera d’arte? Scrivere non per trovarsi. Scrivere è trasformazione. Messa a tema dello scacco del discorso, della parola che non può essere trovata. Tre puntini di sospensione chiedono al lettore di farsi carico dell’insopportabile; accogliere il non-senso, quello di chi scrive come quello che ci riguarda.

 

Il 10 agosto 1908 scrive Virginia Woolf alla sua ‘bestiola’: «nelle tue lettere riesci a mettere qualcosa che è al di là della mia portata, qualcosa d’inatteso, come quando si gira l’angolo in un roseto e si scopre che è ancora giorno».

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