Seguitissimo dai buddisti e osannato da Hollywood / Dalai Lama: un divo per necessità

25 Ottobre 2016

Una delle prime immagini che lo ritrae dai primi anni Sessanta, il volto appare tirato sotto un occhiale da sole scurissimo. Tenzin Gyatso, il quattordicesimo Dalai Lama, è immortalato mentre sta salendo su un’automobile; alle sue spalle un folto gruppo di autorità e militari indiani assistono a questo passaggio. Il bianco e nero della foto ci restituisce una scala di grigi dalle varie intensità, ma senza troppe difficoltà immaginiamo il colore di quelle stoffe, un rosso scuro e un arancione che avvolgono la figura giovanile e slanciata del Dalai Lama. Colori ai quali ci siamo abituati. Sembra un’immagine pubblicitaria di moda, con quel bianco e nero estetizzante stile anni Novanta. 

 

È un giovanissimo Dalai Lama, giunto da poco tempo in India, esiliato e lontano da quel Tibet di cui era guida spirituale e riferimento politico, vertice teocratico di un paese essenzialmente agricolo e legatissimo alla sfera religiosa. Questa foto rappresenta una ferita, lo squarcio su una tela che non si potrà più ricomporre, i cocci di un vaso rotto: è la storia di una lotta impari, di un braccio di ferro vinto in maniera schiacciante. Ma è anche una storia simile a moltissime altre e, in un certo senso, un copione già visto del nostro Novecento: una potenza enorme invade un territorio vicino in nome di una sovranità storica e naturale che – si crede – provenga dai secoli passati. In barba alle belle dichiarazioni dei diritti umani che hanno idealmente disegnato l’universo delle relazioni umane del secondo dopoguerra, il paese aggredito e invaso soccombe davanti a tanta potenza e dispiegamento di mezzi e forze. È stato questo il destino del Tibet: durante gli anni Cinquanta, la giovane Repubblica Popolare Cinese – sotto la guida di Mao – ne occupò militarmente il territorio, mettendo così fine all’indipendenza del paese, dichiarata dal precedente Dalai Lama nel 1911. 

 

Dalai Lama con Giuseppe Sala.

 

Il XIV Dalai Lama, classe 1935, era ancora un ragazzino, quando ebbe inizio l’invasione cinese: i reggenti, vista la situazione, gli chiesero di assumersi prima del tempo le proprie responsabilità. Tenzin Gyatso, come da tradizione, era stato riconosciuto come l’incarnazione e il successore del Tredicesimo Dalai Lama, colui che aveva dato precise indicazioni su come e dove trovarlo, in una capanna dalle tegole azzurre, in un piccolo villaggio della regione Amdo, nel nordest tibetano. Trasferito fin dalla primissima infanzia al Potala Palace di Lhasa, quel bambino era dovuto crescere in fretta. 

 

Alla metà degli anni Cinquanta, il giovane Dalai Lama aveva trascorso un lungo periodo in Cina, nel tentativo di trovare una conciliazione alla situazione che si era creata, con la speranza di rimettere insieme i cocci di quel vaso rotto. Fu il primo di una lunga serie di viaggi, ma non portò a niente: difficilmente i cinesi avrebbero dato retta a un capo spirituale, proprio loro che predicavano l’assoluta inconsistenza della sfera religiosa. La situazione diventò ingestibile nel marzo 1959 quando nella capitale Lhasa furono organizzate le più importanti rivolte anticinesi della storia tibetana, rivolte che furono represse con una violenza senza precedenti (soprattutto pensando al fatto che il Tibet aveva a mala pena riorganizzato l’esercito). Morirono decine di migliaia di persone. Fu in quell’istante della Storia che il Dalai Lama – interrogati gli oracoli – comprese che era davvero giunto il momento di lasciare il Paese. E dunque scappò nella vicina India, dove il capo del Governo Nehru gli aveva garantito l’asilo, assieme ai componenti dello spodestato governo tibetano. Si trattò di un momento storico per il Tibet: mai il capo spirituale di quel Paese si era allontanato. Senza il loro capo i tibetani si sentivano perduti, come privati di una bussola. 

 

L’occupazione cinese scardinò completamente e violentemente l’assetto della società tibetana: migliaia di monasteri furono distrutti e dati alle fiamme, decine di migliaia di monaci furono uccisi oppure obbligati al lavoro, molti di loro vennero incarcerati come dissidenti, senza un processo e senza un motivo. I cinesi introdussero la suddivisione in classi sociali e coloro i quali in passato avevano posseduto qualche forma di ricchezza vennero trattati con accanita ferocia. 

 

Il pubblico milanese del Dalai Lama.

 

Le violenze degli anni Cinquanta e Sessanta non sono ancora cessate, la questione tibetana non è affatto risolta. Anzi, si può dire che non sono stati fatti nemmeno grandi passi in avanti: il Tibet è divenuto una regione cinese a tutti gli effetti; via via il governo tibetano in esilio ha dovuto accettare, suo malgrado, questo stato di cose. Il Dalai Lama non è mai più tornato nel suo Tibet. Rifiutò, nel 1977, l’offerta cinese di farvi ritorno in cambio dell’accettazione della supremazia cinese sul territorio. Rifiutò e continuò a occuparsi da Dharamsala, sede del governo tibetano in esilio, di dare accoglienza ai cittadini che riuscivano a scappare (al momento sono poco meno di centomila i tibetani accolti in India). Ma se la questione tibetana, pur non avendo subito evoluzioni, è ancora attuale lo dobbiamo proprio al Dalai Lama, al suo carisma, alla straordinaria apertura verso la modernità che ha saputo articolare con il suo viaggiare e il suo dialogare con i media. Pur definendosi un “semplice monaco”, il Dalai Lama ha saputo giocare con il proprio tempo, ha attraversato gran parte del Novecento cavalcando il suo ruolo e rendendolo stranamente al passo con i tempi. 

 

Seguitissimo dai buddisti e osannato da Hollywood, Tenzin Gyatso è riuscito a portare in giro per il mondo la storia del Tibet, a far conoscere e mantenere vive le tradizioni del Paese delle Nevi. Oggi quelle vallate che il Dalai Lama non vede da molto tempo sono attraversate da un treno che collega Lhasa a Pechino. Quelle vallate sono oggi percorse da teorie di colonne e ponti: se per alcuni sono il segno del progresso che arriva anche in Tibet, per altri sono un colpo al cuore, la violenza marcata su un paesaggio violato. Le poche città tibetane hanno cambiato il loro volto e oggi accolgono turisti da tutto il mondo e tour operator pronti ai migliori affari; ristoranti e catene commerciali mondiali investono a Lhasa e, nelle campagne, le estrazioni minerarie cadenzano un nuovo vivere quotidiano. 

 

Treno Lhasa Pechino.

 

La tradizione del Tibet è oggi affidata quasi esclusivamente al Dalai Lama. Il suo pubblico è eterogeneo e non necessariamente legato a lui da un sentimento religioso. Tenzin Gyatso, premio Nobel per la Pace nel 1989, è in grado di riempire intere fiere, come è successo qualche tempo fa a Rho, dove una platea emozionatissima lo ha salutato e abbracciato. Ad introdurlo c’era un fedelissimo, ossia Richard Gere, che lo ha presentato alla platea come “la persona più piena d’amore di tutti i tempi”. Milano gli ha conferito la cittadinanza onoraria e da parte cinese non sono mancati gli ammonimenti che da anni si ripetono sempre uguali nei confronti degli Stati che lo ospitano. La figura del Dalai Lama è un misto di valori di pacifismo, non violenza, compassione e benevolenza che se da un lato richiamano l’ideale gandhiano, dall’altro rimandano a un inedito mito di massa della contemporaneità globale. 

 

Grande viaggiatore e instancabile osservatore del mondo, il Dalai Lama è riuscito a far breccia nel cuore di generazioni diverse. Chi lo conosce da vicino non smette di sottolinearne la curiosità e la rapidissima capacità di apprendimento: uno dei primi a dichiararlo fu Heinrich Herrer, alpinista e scrittore austriaco, autore del libro Sette anni in Tibet, che – per vie traverse – fu uno dei tutori del giovanissimo Dalai Lama, incaricato di insegnargli basiche conoscenze di inglese e di geografia. Fu lui che introdusse il giovane Tenzin al mondo del cinema: fu una figura importante perché capitò in Tibet a cavallo dell’invasione cinese e per questo laggiù fu uno dei primi messaggeri della civiltà europea. 

 

Nonostante la sua età, il Dalai Lama non smette di stupire il mondo e di catalizzarne la sua attenzione. È un divo, suo malgrado, seguitissimo dalla gente. Un divo per necessità. Solo grazie al suo carisma ha saputo mantenere viva l’attenzione sul Tibet, anche dopo essersi fatto da parte nella questione politica tibetana. Nel 2011, alcuni emendamenti della Costituzione degli esuli fecero sì che, per la prima volta, il destino politico del Tibet si distaccasse da quello del Dalai Lama, che rinunciò a qualsiasi tipo di potere e influenza politica, avviando un importante processo di democratizzazione interna. Ma non è tutto: Tenzin Gyatso ha parlato anche del suo successore. È la prima volta che un Dalai Lama trascorre la (quasi intera) esistenza lontano dal Tibet: il suo successore dovrebbe essere scelto – per tradizione – all’interno del Paese. Ma questo difficilmente accadrà. Per questo motivo, di fronte ai fatti, Tenzin Gyatso ha affermato che la sua istituzione ha fatto il suo tempo, non sa se si reincarnerà e se dovesse farlo vorrebbe rinascere altrove, lontano dal Tibet, forse negli Stati Uniti o in un paese occidentale, magari in un corpo di una “donna attraente”. 

 

Sono considerazioni a dir poco sorprendenti se pensiamo alla lunghissima storia dell’istituzione del Dalai Lama, ma d’altro canto la realtà dei fatti non concede la possibilità di un happy ending. Si tratta di considerazioni che hanno fatto infuriare Pechino che da anni tenta una appropriazione anche della dottrina religiosa tibetana, dopo avere “nominato” un proprio Panchem Lama (la seconda carica del buddismo tibetana, legata a strettissimo filo al Dalai Lama) e dopo aver fatto sparire da oltre venti anni colui che era stato identificato come il Panchem Lama da Tenzin Gyatso. Pechino ha dichiarato che il Dalai Lama sta minando dall’interno la longevità delle tradizioni buddiste e tibetane (sic!); l’agenzia Reuters ha battuto un’agenzia di stampa bizzarra titolandola “Pechino ordina al Dalai Lama di reincarnarsi”. Che ne sarà del futuro del Tibet non è facile da prevedere (o forse è solo banale?): per certo è vero che l’identità tibetana così come si è mantenuta per secoli difficilmente la vedremo traghettare nel futuro. Il Dalai Lama difficilmente potrà salvare una situazione talmente pregiudicata, ma la speranza è che il suo estro e la sua moderna intraprendenza qualche sorpresa ancora la possano riservare in questa storia maledetta del Novecento. 

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