Cannes 2 / Quentin Tarantino Plays Itself

23 Maggio 2019

“L’architettura qui è molto coerente: c’è quella francese vicino a quella spagnola, vicino a quella Tudor, vicino a quella giapponese […] Qui è tutto pulito perché non buttano via la spazzatura, la riciclano negli show televisivi”. È la famosa scena di Io e Annie in cui Woody Allen si rende protagonista di una delle sue celebri tirate contro Los Angeles, la città che i newyorkesi amano odiare. O almeno questo è il luogo comune che ha contribuito a costruirne la reputazione di città per eccellenza dell’America frivola, disimpegnata, culturalmente parvenu, persino reaganiana. L’architettura e l’urbanistica sono come spesso accade la cartina da tornasole, e la condanna per Los Angeles è senza appello: esempio di una nuova configurazione iperurbana a misura di automobile dove non esiste unità di senso, dove gli stili abitativi si giustappongono senza regola e il kitsch la fa da padrone. 

 

Bisognerebbe leggere Città di quarzo (Manifestolibri, 1983) di Mike Davis – uno dei più grandi saggi di geografia sociologica su una città –, o Los Angeles: l'architettura di quattro ecologie di Reyner Banham (Einaudi, 2009), o vedere il film capolavoro di Thom Andersen Los Angeles Plays Itself per restituire una mappa anche solo approssimativa di una città labirintica e con una sedimentazione sociale tra le più complesse e interessanti degli Stati Uniti. Bisognerebbe insomma “imparare da Los Angeles”, per parafrasare il libro di Robert Venturi su Las Vegas (Quodlibet, 2010), per capire perché questo spazio urbano così poco a misura d’uomo, dove i cartelloni pubblicitari hanno più spazio e più importanza dei pedoni, possa esporre dei processi e delle questioni che vanno molto oltre la città stessa. 

 

 

Se diciamo questo è perché Once Upon a Time in... Hollywood, il nuovo film di Quentin Tarantino presentato in prima mondiale martedì sera a Cannes, va innanzitutto pensato come una grande dichiarazione d’amore proprio sulla città di Los Angeles: quella di Hollywood, della San Fernando Valley, di Van Nuys, delle colline di Beverly Hills e degli studios di Burbank (così come Jackie Brown lo fu della zona sud della città, quella di Compton, Gardenia, Torrance). Ma la città per Tarantino è soprattutto una sorta di “metodologia” per parlare in realtà di altro. Los Angeles è la città per eccellenza dove tutto ha un che di falso e di ingannevole. In un luogo dove ci sono solo una manciata di edifici più vecchi di un secolo e dove le tracce del passato vengono costantemente cancellate per lasciare posto a un eterno presente (come dice Thom Andersen in Los Angeles Plays Itself), dove è pieno di edifici che esistono solo per essere set di film – che cioè vengono costruiti per essere “falsi”, come un famoso Mac Donald’s di City of Industry che viene usato esclusivamente come set – è normale che il rapporto tra realtà e finzione venga posto in una maniera più nitida che altrove. Los Angeles come città “teorica” insomma, che pone la questione che aveva attraversato l’ultimo film di Tarantino, The Hateful Eight, quello dell’angoscia del segno; dell’impossibilità di stringere un patto o di fidarsi dell’altro a fronte di un mondo privo di garanzie. Nel suo film precedente infatti Tarantino aveva riempito la pellicola di momenti equivoci dove un personaggio doveva confrontarsi con l’ambiguità di un mondo ridotto a linguaggio, con il dubbio costante se poter credere o no a quello che si ha di fronte. Los Angeles in questo senso è come se rappresentasse la versione espansa e divenuta città dell’angoscia che attraversava quel film. 

 

 

Contrariamente alla vulgata che ne ha fatto un autore disimpegnato, leggero, persino cinico – uno che avrebbe depotenziato la dimensione di verità del cinema a favore di una testualità diffusa di stampo postmoderno, con una rappresentazione della violenza ridotta a icona e una passione citazionistica fine a se stessa, è ormai da qualche film che Tarantino si è invece sempre più indirizzato verso un cinema che crede nel potere della mediazione della finzione per dire qualcosa del reale. Come se da un mondo ormai ridotto a segni, a merci, a spazzatura commerciale di ogni tipo, potesse comunque sorgere una dimensione autentica e sincera della verità. Si potrebbe dire, citando una riflessione di Fredric Jameson sviluppata in altro contesto, che si tratta di “annullare il postmoderno con i metodi del postmoderno: lavorare per dissolvere il pastiche usando tutti gli strumenti del pastiche stesso”. Questo fa il cinema di Quentin Tarantino, e questo viene fatto con una consapevolezza sempre più chiara anche in Once Upon a Time in... Hollywood

La storia – evitando gli spoiler, che il regista stesso ha chiesto ai giornalisti di non rivelare – è nota: siamo a Hollywood nel 1969, nell’anno del famoso massacro di Bel-Air di 10050 Cielo Drive, dove si trovava l’abitazione del regista Roman Polański e dove il 9 agosto una serie di ragazzi hippie, seguaci della setta di Charles Manson, uccisero brutalmente l’attrice Sharon Tate incinta all’ottavo mese, insieme ad altri tre amici che si trovavano per caso nell’abitazione. L’evento avrebbe avuto una risonanza enorme, soprattutto perché venne elevato a simbolo di una sorta di altra faccia disincantata del Sessantotto americano: come se dietro ai cambiamenti politici, sociali e culturali degli anni Sessanta si nascondesse già il no future dei Settanta con il suo ripiegamento nichilistico e la sua disperazione. E il 1969 è in effetti un anno di passaggio in molti sensi: segna la fine di un certo cinema classico hollywoodiano e l’inizio della New Hollywood, con la sua coscienza politica e la sua denuncia dell’altra faccia denegata dell’ideologia americana veicolata dal cinema di Hollywood; e vede anche un cambiamento epocale per la televisione americana, con diversi canali nazionali che iniziarono a cancellare i telefilm western, le sit-com rurali e i panel quiz divenuti celebri negli anni del boom degli anni Cinquanta (il fenomeno del cosiddetto rural purge della tv americana), a favore di una programmazione più vicina alle trasformazioni che stavano investendo la popolazione americana (sempre più urbanizzata e sempre meno rurale). 

 

 

Rick Dalton (Leonardo Di Caprio), attore sulla quarantina con una carriera in declino, e Cliff Booth (Brad Pitt), suo stuntman e fedele aiutante, navigano in questa Hollywood che ormai ha reso sempre più indistinto il confine tra realtà e finzione. Perché siamo ormai compiutamente in un mondo postmoderno, dove è l’intera esistenza a essere ridotta a merce: e questo è ancora più vero, o comunque è ancora più visibile, in una città dove ogni singolo oggetto non esiste mai di per sé, ma solo come trasfigurazione simbolica del suo essere segno. Los Angeles è come se fosse un grande set cinematografico. Tutto è già cartellone pubblicitario, oggetto filmico, set cinematografico: in una parola, rappresentazione. Le ragazze del gruppo di Charles Manson ad esempio vivono nel celebre Spahn Movie Ranch a nord di Los Angeles dove vennero girati molti dei western low-budget della decade precedente e che ormai è abbandonato (e “Squeaky”, la loro leader interpretata da Dakota Fanning, è lì che passa il tempo a guardare la televisione). Le peregrinazioni dei protagonisti si svolgono in diversi luoghi topici della città, la cui presenza è indistinguibile da quella di essere un set cinematografico (dal cocktail bar Frolic Room su Hollywood Boulevard, al Musso Bar & Grill, dove si volge la prima scena in cui Rick Dalton parla con il suo agente Marvin Schwarz che lo mette in allerta per il declino della sua carriera). In generale la scenografia del film è un susseguirsi di cartelloni, poster di film, pezzi di set, oggetti il cui utilizzo è sempre a un tempo concreto e trasfigurato in segno. Come spesso avviene in una città che vive della rappresentazione di se stessa come Los Angeles.

 

 

Tarantino decide di giocare esplicitamente con questo registro indistinto: non ribaltando realtà e finzione con inganni e scambi di posto, ma semplicemente spalmando le due dimensioni su una linea continua, come si vede nella sequenza in cui Rick Dalton è sul set per girare un film western: quando iniziano le riprese veniamo catapultati nel film stesso con tanto di stacchi di montaggio e musiche, come se tra il film e il film nel film non ci fosse alcuna vera differenza. Ma la scena che forse racchiude meglio il senso dell’operazione di Tarantino è quella in cui Sharon Tate (Margot Robbie) passeggia per Westwood e passa di fronte al Village Theater dove danno Wrecking Crew (che in italiano si intitola Missione compiuta stop. Bacioni Matt Helm), il film con Dean Martin dove lei stessa è protagonista: decide di entrare e di mettere a guardarsi sullo schermo. La sua reazione, divertita durante le risate del pubblico, compiaciuta dei suoi numeri attoriali, e di vero e proprio godimento della propria immagine sullo schermo, mette l’una accanto all’altra in un campo e contro-campo Margot Robbie e la vera Sharon Tate (quando una digitalizzazione della Robbie sarebbe stata un espediente di nessuno sforzo). Non è un problema vedere l’una accanto all’altra due attrici che vivono a mezzo secolo di distanza, perché in realtà entrambe partecipano della stessa natura iconica. Come se entrambe facessero parte di una trasfigurazione ideale, che però sfugge alla concretezza di entrambe. 

 

Sono due esempi apparentemente marginali, che nulla svelano dell’intreccio, ma che mostrano meglio di altri il mood di fondo di Once Upon a Time in... Hollywood, che per altro – come spesso accade con Tarantino – usa quasi due ore della sua (lunga) durata in divagazioni per la città e scene che nulla sembrano contribuire a un avanzamento dell’intreccio. Eppure il registro del film, come forse mai era capitato prima, rifugge da ogni divertissement e da quelle rappresentazioni idiosincratiche dei personaggi che avevano fatto la fortuna del cinema di Tarantino degli anni Novanta ma che ormai sembrano essere solo un ricordo del passato (tranne la scena, che in effetti è una delle meno riuscite, dell’incontro a margine di un set tra Cliff Booth e Bruce Lee). Con tocchi di autentica malinconia, in un’atmosfera quasi da bilancio esistenziale come quella che attraversano i due protagonisti al crepuscolo della loro carriera, il film mostra ancora una volta, come già accadde nei suoi ultimi film, che anche di fronte a un modo ormai divenuto sincronico sia possibile un momento di verità nient’affatto cinico, proprio partendo dalla realtà (e dall’artigianato) della finzione. D’altra parte anche Los Angeles ormai sembra essere diventata una città del passato. Forse perché l’atteggiamento di chi guarda la concretezza e gli oggetti della realtà dal punto di vista della loro trasfigurazione in segno e in rappresentazione (e che altrove si chiamerebbe utopia) è sempre più raro che trovi spazio nel nostro immaginario. 

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