Scurati: La guerra del Duce 

2 Ottobre 2022

Siamo alla terza puntata della monumentale narrazione biografica che Antonio Scurati ha dedicato a Mussolini: M. Gli ultimi giorni dell’Europa. Il periodo coperto è il fatale triennio 1938-1940: dalla visita di Hitler a Roma all’entrata dell’Italia in guerra, attraverso l’introduzione delle leggi razziali, la conferenza di Monaco, l’occupazione tedesca della Cecoslovacchia, la crisi di Danzica, il patto Molotov-Ribbentrop; quindi l’invasione della Polonia che segna l’inizio della Seconda guerra mondiale, la scelta italiana della non belligeranza, la straniante sospensione dell’inverno 1939-1940 – la drôle de guerre –, fino alle travolgenti offensive della Wehrmacht contro i paesi nordici prima, poi contro Belgio, Olanda e Francia. Gli eventi sono incalzanti e drammatici; indipendentemente dalle cognizioni storiche del lettore, la suspense è assicurata.

A dominare questo segmento della trista epopea di Mussolini, ovviamente, è la figura di Hitler: «uno spettro da tregenda piuttosto che un essere umano», dirà un uomo d’affari svedese, amico di Goering, dopo aver assistito a un monologo del Führer. La sopravvenuta subordinazione del capo del fascismo al suo ex-allievo germanico è ben annunciata dalla scelta grafica di collocare la M della copertina, ora in stilizzata minuscola gotica, entro un tondo bianco, su fondo rosso: quasi una variante in minore dell’emblema del Terzo Reich. Preso nell’orbita della Germania nazista, Mussolini appare sempre meno padrone degli eventi e del proprio destino, sempre più confinato in un ruolo secondario, se non marginale. Le cose sono già chiare con l’annessione dell’Austria, sbrigata da Hitler senza preavviso alcuno all’alleato italiano. Mussolini era esploso di rabbia: «però, dopo aver fatto fuoco e fiamme in privato, in pubblico aveva abbozzato, pavido, furbesco e perdente».  

Dunque, poiché il secondo volume (M. L’uomo della Provvidenza, 2020) arrivava al 1932, Scurati ha deciso di saltare sei anni, per affrontare direttamente l’epoca in cui l’Europa precipita verso la guerra. Scelta legittima, naturalmente, e in fondo coerente con la struttura discontinua della narrazione, segmentata in riquadri scenici. Però nell’intervallo omesso si colloca la guerra d’Etiopia, che è importante per molte ragioni: perché comprende molti aspetti della storia nazionale poco conosciuti, incluse le atrocità perpetrate contro le popolazioni civili; perché in Africa il razzismo italiano fa le sue prime importanti prove; perché, infine, rappresenta il capitolo più importante della nostra storia coloniale (a questo proposito è d’obbligo il rinvio al recente volume di Francesco Filippi, Noi però gli abbiamo fatto le strade. Le colonie italiane tra bugie, razzismi e amnesie, Bollati Boringhieri, 2021). Inoltre, il silenzio sugli anni 1932-38 rischia di fomentare un antico, vieto luogo comune giustificazionista, cioè che la Seconda guerra mondiale sia stata, nella storia del fascismo, un errore o un incidente, addebitabile al troppo stretto legame con Hitler. Assunto, questo, decisamente falso. 

Teniamolo presente, in questa scadenza centenaria della cosiddetta marcia su Roma: l’Italia di Mussolini è stata sempre in guerra. Da subito, e senza interruzione: prima la sanguinosa riconquista della Libia, a partire dalla primavera del 1923, durata un decennio (cui Scurati ha giustamente dedicato, nel secondo volume di M, ampio spazio); poi l’aggressione contro l’Etiopia, coronata dalla proclamazione dell’Impero (1935-36); quindi l’impegnativa partecipazione alla guerra civile spagnola (1936-39), con 70.000 uomini inviati a ingrossare le fila del generale Franco; infine, per orgoglio o ripicca, l’invasione dell’Albania all’indomani dell’Anschluss. Anche per questo – soprattutto per questo – nel settembre ’39 l’Italia non era pronta a entrare in guerra; lo farà nove mesi dopo, nel più vile e opportunistico dei modi. Del resto, l’esaltazione della gloria militare e dei valori guerrieri – l’ardimento degli eroi, la risolutezza dei capi, la disciplina e lo spirito di sacrificio di tutti gli altri – è il cuore dell’ideologia e della pedagogia fascista.

Eloquenti le parole dei canti che risonavano durante il ventennio, dall’inno fascista Giovinezza («Dell’Italia nei confini/ son rinati gli Italiani/ li ha rifatti Mussolini/ per la guerra di domani») a quelli delle varie formazioni paramilitari in cui tutti giovani, ragazze, ragazzi erano inquadrati fin dalla più tenera età («Nell’Italia dei fascisti/ pure i bimbi son guerrieri/ siam balilla moschettieri/ dell’Italia il baldo fior»).  

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Ma torniamo a Scurati. Dopo due libri, il carattere di Mussolini è ormai a fuoco; il dato più rilevante del periodo qui trattato è la sua crescente frustrazione, il suo livido arrovellarsi sul divario fra ambizioni e realtà effettuale. Ad alimentarla concorrono il senso di inferiorità verso il Führer, la percezione delle proprie limitate risorse, la consapevolezza che l’opinione pubblica nazionale non condivide il suo desiderio di guerra. Tra le pagine più efficaci va annoverata senz’altro la rievocazione del pomeriggio del 10 giugno 1940: «Come ci si veste per dichiarare una guerra?» Le uniformi che il Duce può scegliere sono molte; alla fine opta per quella di caporale d’onore della Milizia. La questione è meno futile di quanto possa sembrare.

Non va confusa, per intenderci, con la concessione al principe Harry di indossare la divisa ai funerali della regina Elisabetta; piuttosto, risalendo alla notte fra il 23 e il 24 febbraio 1981, converrà pensare alla scelta del monarca spagnolo Juan Carlos di presentarsi sugli schermi televisivi, durante il tentativo di colpo di Stato del tenente colonnello Antonio Tejero, con l’uniforme di capitano generale dell’esercito. Scurati non perde poi l’occasione di insistere (come già nei volumi precedenti) sulla corporeità del Duce, puntando su effetti di sgradevolezza: «Sta ingrassando. Per quanti sforzi ginnici lui faccia, per quanto severa sia la dieta a base di latte cui si sottopone, sta ingrassando.

E non è nemmeno una virile pinguedine di carne grossa e spessa, di pellaccia dura e soda. Più che massa adiposa è un gonfiore, un parto isterico da ritenzione idrica, un turgore sciocco, d’acque non di sangue, una di quelle antiche, inestirpabili maledizioni del corpo che spingono i testimoni della tua vita a bisbigliare, quasi vergognosi della tua vergogna: “Non è più l’uomo di una volta”». 

I personaggi più interessanti di questo terzo volume sono due. Il primo è l’avvocato Renzo Ravenna, podestà di Ferrara, amico di Italo Balbo, amministratore capace, fedele al regime: dal suo punto di vista è narrata buona parte della vicenda della legislazione anti-ebraica. In villeggiatura a Igea Marina, la mattina del 3 settembre 1938 si trova tra le mani il «Corriere della Sera» con l’annuncio dell’espulsione dalle scuole italiane di insegnanti e studenti ebrei. Umanissima la sua reazione di cercare conferma – o meglio, smentita – della notizia sul suo quotidiano abituale, il «Corriere Padano», diretto dall’amico Nello Quilici. Seguono sconforto, smarrimento, umiliazione: e la consapevolezza di essere guardati dagli altri in modo diverso («Renzo, Lucia, Tullio, Paolo, Donata e Romano Ravenna non sono mai stati soli come in questo momento. Sono soli come gli ebrei soltanto possono esser soli»). 

Il secondo è Galeazzo Ciano, figlio dell’eroe di guerra (e ora presidente della Camera) Costanzo, marito di Edda, genero di Mussolini, dal 1936 ministro degli esteri, e autore di un diario che è un documento prezioso, largamente utilizzato da tutti gli storici. Ciano è una figura dal doppio volto. Da un lato appare un giovane privilegiato, viziato dalla buona sorte, che ama circondarsi di emuli, famuli e belle ragazze, e frequentare ritrovi mondani e Golf Club: un «pomposo vanesio», come scrive l’ambasciatore americano a Londra, Joseph Kennedy, compiaciuto del proprio ruolo di probabile delfino del Duce.

Dall’altro, è un severo critico dell’alleanza con la Germania nazista; e anche se non fa nulla per tradurre in pratica le riserve che nutre sulle scelte di Mussolini, le sue parole (annotazioni, confidenze private) fanno sì che egli appaia, a posteriori, come dotato di superiore lungimiranza. Presuntuoso bellimbusto o politico sagace? Di sicuro, finché il suocero sarà in sella, non avrà il coraggio di opporsi, come assai sovente accade negli entourages di dittatori e autocrati. Lo stesso vale per il suo collega che detiene il dicastero dell’educazione, Giuseppe Bottai. Dotato di spessore intellettuale superiore rispetto al ministro-genero, quando la sudditanza di Mussolini rispetto a Hitler appare conclamata, sul diario scrive, sconcertato e deluso: «La nostra generazione è tutta in Mussolini: è Mussolini. Non si tratta di misurare lui, fuori di noi: ma lui in noi; e noi stessi in lui». 

Per la materia di questo terzo volume di M, i diari utilizzati sono numerosi. Oltre a quelli di Ciano, di Bottai, di Claretta Petacci, conviene citare anche quello di Ranuccio Bianchi Bandinelli, raffinato studioso di antichità, coinvolto a titolo di guida nella visita di Hitler della primavera 1938 (curioso che il glossario dedicato ai personaggi principali lo trascuri: forse perché mancava una categoria in cui inserirlo). Ostile alle dittature, anche se non dissidente manifesto, Bianchi Bandinelli è colpito dalla differenza tra Hitler e Mussolini. Politicamente ancor più nefasto del Duce, il Führer ha però una personalità più sfaccettata, che può riservare sorprese – circostanza che non si dà nel caso del suo vecchio maestro, grossolano e prevedibile.

Qui tocchiamo un punto importante nell’interpretazione che Scurati offre della parabola mussoliniana: in un certo senso, la parte più caratterizzante è la prima, la storia della sua inaspettata, folgorante eppur resistibile ascesa. Dopo l’acme toccato con la conquista di Addis Abeba nel 1936, inizia un lento declino, dapprima impercettibile, poi sempre più evidente.

La primazia del capo del fascismo scricchiola; i dissapori cominciano a prendere corpo. Il Papato, la monarchia, gli Stati maggiori, vari membri del governo, pur senza contrastarlo apertamente, lo assecondano con fervore calante, invitandolo alla cautela. Lo stesso vertice di popolarità toccato con l’esito della conferenza di Monaco, in cui l’Italia figurò aver garantito la pace, lo irrita. Paradosso del potere: le folle festanti che accompagnano il ritorno dal Brennero sono sgraditissime al Duce, che vorrebbe invece vedere una nazione smaniosa di prender le armi sotto il suo comando – altro abbaglio frequente nei dittatori, nel XXI secolo non meno che nel XX. 

Non è difficile immaginare un tema portante del seguito della storia di Mussolini: la sua progressiva solitudine. Tale, in ogni epoca, il destino dei tiranni.     

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