Baz Luhrmann: la versione di Elvis

21 Luglio 2022

Uscito il 22 giugno nelle sale italiane dopo il passaggio all’ultimo Festival di Cannes, Elvis segna non solo il ritorno di Baz Luhrmann dietro la macchina da presa, a nove anni di distanza da Il Grande Gatsby, ma anche il suo esordio nel biopic. L’incontro tra Elvis Presley, figura complessa e decisiva per la cultura musicale del secolo scorso, e il cinema di Luhrmann mette insieme la storia di un’icona totale dell'entertainment americano e un cinema da sempre votato alla costruzione di un apparato visivo grandioso, colorato e volutamente kitsch.

Nel caso di Elvis sarebbe più opportuno parlare di “la versione di Elvis”. La vita di Presley è raccontata dalla voce del suo manager, il Colonnello Tom Parker, che sul letto di morte ripercorre in un lungo flashback il proprio rapporto umano e professionale con l'artista del Mississippi.

Apolide, di origine olandese e immigrato clandestinamente negli Stati Uniti per fare fortuna negli anni '30, van Kuijk – questo il vero nome del Colonnello – dopo aver lavorato come imbonitore in una compagnia di circensi, scopre in Presley un talento da trasformare nel suo numero più riuscito. Il circo è la formazione professionale di Parker, che finirà per trattare gli interessi di Elvis Presley alla stregua di un'attrazione circense, riecheggiando il recente film di Guillermo del Toro, La Fiera delle Illusioni. Se la prigione destinata all'uomo-bestia, nel film di Del Toro, è lo squallore di una gabbia da circo, la prigionia di Elvis è il dorato International Hotel di Las Vegas, che lo porterà al crollo definitivo, prima della sua morte.

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Il rapporto tra Presley e il Colonnello è il perno narrativo attorno cui ruota Elvis. Il conflitto tra un manager avido, che trattiene per sé oltre la metà dei profitti dell'artista per ripagare i propri debiti di gioco, e una star internazionale soffocata per la fame di denaro del suo agente. Il conflitto tra Parker e Presley è utile a Luhrmann per fare leva su un archetipo della tradizione cinematografica americana che contrappone la musica e l'industria che la produce o, più genericamente, l'arte e il potere. Il conflitto però non si ferma qui e si allarga alla dimensione familiare. Il colonnello sarà infatti la figura paterna di Presley al momento della morte della madre, in opposizione al padre biologico che ci viene mostrato passivo, in balìa di eventi che non riesce a gestire. È proprio la pervasività del rapporto a rendere il legame tra i due corrosivo ma necessario.

Al cospetto di questo nucleo narrativo si snodano gli eventi della vita di Elvis. Baz Luhrmann ce li mostra tutti sin dalla prima infanzia: dall'iniziazione alla musica afroamericana, cui rimarrà fortemente legato anche negli anni del suo successo, fino alle relazioni con la propria umile famiglia, che all'improvviso si trova a gestire un impero milionario. Segue l'ascesa nel mondo della musica e il tentativo di sfondare a Hollywood dopo la leva militare in Germania: nessuna tappa della vita di Presley viene omessa in questa trasposizione cinematografica. A questo aspetto si somma l'ambizione di raccontare l'industria dell'intrattenimento statunitense e il fermento sociale e politico negli anni ’60 e ’70. Elvis Presley – con il suo stile, il suo ancheggiare, la sua vicinanza alla musica blues e spiritual – rappresentava infatti il simbolo di una rottura che stava mettendo in crisi le forze conservatrici del Paese e dava il la alla stagione dei diritti civili.

Benché, come si diceva, questa sia la prima volta che Baz Luhrmann si confronta con il genere biografico, è facile trovare una chiara affinità tra Elvis e il suo cinema precedente, in particolare con Moulin Rouge! – probabilmente il suo film più riuscito – e Il Grande Gatsby.

Elvis riprende infatti dal musical del regista australiano il valore narrativo della colonna sonora che qui, insieme al montaggio audiovisivo, scandisce il ritmo frenetico della narrazione. In Moulin Rouge! i brani erano di Bono Vox e David Bowie, mentre oggi troviamo i Maneskin ed Eminem: oggi come ieri, Luhrmann sceglie i grandi nomi della scena musicale per conferire spettacolarità al racconto cinematografico. La ricerca formale è invece tutta tesa alla costruzione di un impianto visivo espressionistico, molto vicino a quello di Il Grande Gatsby; e nelle sequenze ambientate a Las Vegas la ricercatezza visiva del regista esplode definitivamente.

Nelle scene più intime della vita dell'artista vengono inseriti poi alcuni tratti drammatici tipici del mélo, che si rifanno tanto a Romeo+Giulietta quanto a Australia. Insomma, l'impressione è che per Elvis, Luhrmann abbia attinto a piene mani dai suoi film precedenti realizzando un biopic postmoderno, che narra (spesso con un utilizzo insistito dello split screen) le tappe del percorso del suo protagonista, e in questo probabilmente sta il problema fondamentale del suo film.

Tutto concentrato sulla forma, Elvis lascia cadere il racconto nell'approssimazione. Un problema, questo, che si amplifica alla luce delle oltre due ore e mezza di durata, paradossalmente troppo poche per articolare un discorso tanto complesso. Luhrmann però rilancia e alza ulteriormente il tiro proponendo una riflessione sul razzismo e sulla politica americana, che culmina con l'assassinio di Martin Luther King e che si rivela più retorica che funzionale alle esigenze del suo film.

L'intreccio secondario che racconta il desiderio di Presley di impegnarsi politicamente, impedito dalle regole non scritte dell'industria dello spettacolo, non attecchisce a un film già stracolmo di elementi in cerca di un maggiore approfondimento. È necessario comunque sottolineare che la riflessione politico-sociale in un biopic su Elvis Presley è una scelta quasi obbligata, sia per un'esigenza biografica (il rapporto con la comunità nera negli anni delle leggi segregazioniste) sia in aderenza al filone dei biopic musicali usciti di recente, di cui i casi più eclatanti sono Bohemian Rapsody e Rocketman. Ci si potrebbe chiedere, a questo punto, se la storia di Presley – considerata l'ambizione di Luhrmann e la complessità della vicenda biografica – sarebbe stata trasposta con maggiore efficacia in un prodotto televisivo dai tempi dilatati, rispetto a un film.

Elvis finisce così per mettere al centro la consueta estetica del suo regista e lasciare in disparte il racconto, che diventa povero e non rende giustizia al suo soggetto. I virtuosismi stilistici di Luhrmann amplificano il peso di un film tanto ritmato quanto inconsistente, che non instaura davvero un contatto con lo spettatore. Restano i lampi delle interpretazioni: un Tom Hanks insolitamente nei panni del villain, il Colonnello Parker; e soprattutto un notevole Austin Butler, alla prima esperienza da protagonista ma capace di un lavoro imitativo di grande impatto nei panni di Elvis The Pelvis, il re del rock ‘n’ roll.

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