Queer, la tristezza del sentire

1 Maggio 2025

Nel 1999 Luca Guadagnino esordisce al cinema con The Protagonists, un film che parte da un caso di cronaca: nel 1994 due ragazzi della buona borghesia britannica uccidono un uomo scelto a caso nel centro di Londra per dimostrare a loro stessi che possono farlo. The Protagonists stratifica i piani del racconto: i protagonisti sono, infatti, una troupe italiana di finzione che si trova a Londra per raccontare la storia realmente accaduta anni prima. Il risultato è un film che si interroga non soltanto sul rapporto tra realtà e rappresentazione, ma sul gesto stesso di fare un film.

Alieno a tutto il cinema italiano per la sua anarchia narrativa e linguistica, The Protagonists è stato prima maltrattato dalla critica e poi dimenticato, fino al successo del suo autore (il film è stato restaurato dalla Cineteca di Bologna ed è ora in streaming su Mubi). Eppure, nonostante i suoi limiti, The Protagonists si presta oggi a essere considerato un tassello importante per ripensare la carriera di Luca Guadagnino come un lavoro unitario. È quantomeno curioso, infatti, trovare nel primo film del regista – espresso a parole dalla voce-off di Tilda Swinton – il desiderio disperato di “un contatto” che uno dei due killer prova per l’altro e che Guadagnino suggerisce come una possibile chiave per comprendere l’origine del gesto folle dei due ragazzi. Il “desiderio di un contatto” è già, nel 1999, un prestito da Queer di William Burroughs e si configura come un elemento latente, un fantasma. Nell’adattamento dal romanzo di Burroughs – a venticinque anni dall’esordio del regista – l’attrazione tra i due protagonisti viene rappresentata quasi subito attraverso la sovrimpressione all’immagine di William Lee (Daniel Craig) delle sue carezze trattenute verso Eugene Allerton (Drew Starkey); un vero e proprio spettro del desiderio (è questo il titolo della prima monografia antologica dedicata al regista, curata nel 2024 da Simone Emiliani e Cecilia Ermini per Marsilio) che sembra rimandare direttamente a un cinema passato. Tuttavia, questo “spettro” – che richiama una tradizione cinematografica analogica – è in rapporto dialettico con un’altra tipologia fantasmatica: l’interferenza digitale che delinea la figura malinconica del protagonista seduto in disparte allo Ship Ahoy, come se la sua immagine fosse a un passo dalla dissoluzione.

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Drew Starkey e Daniel Craig.

Credo che il fantasma, il desiderio di un contatto, sia un buon punto di partenza per pensare a Queer, il nuovo film di Luca Guadagnino presentato allo scorso Festival di Venezia e ora nelle sale italiane. Soprattutto, è un motivo che mette immediatamente in luce il campo di tensione tra il desiderio ossessivo e la solitudine assoluta che sperimenta William Lee, emigrato dagli Stati Uniti a Città del Messico per evitare le conseguenze della sua dipendenza dall’eroina, del suo libertinaggio omosessuale e di un oscuro dramma privato. I fantasmi, poi, non guidano soltanto l’attrazione del protagonista verso il giovane e ambiguo Eugene Allerton, ma sono anche le tracce del sentimento che Luca Guadagnino ha provato a 17 anni di fronte a un libro così importante per la sua formazione. In questo senso è lecito chiedersi, ad esempio, se le intromissioni musicali anacronistiche nella diegesi della storia – i New Order, i Nirvana, i Verdena, Prince – non siano proprio gli ascolti del regista adolescente, in una sorta di ponte tra gli anni Cinquanta e gli anni Novanta.

Nell’adattare con la lingua del cinema lo stile asciutto di Burroughs (di questo scrive lucidamente Damiano Garofalo nell’articolo uscito su fatamorganaweb: da un filologico adattamento della prima parte a una reinvenzione cinematografica del cut-up nelle scene finali) Guadagnino riprende la lezione del suo maestro Bernardo Bertolucci quando decise di adattare da Paul Bowles – anche lui scrittore legato alla beat generation – il romanzo Tè nel deserto. Bertolucci è, ancora una volta, il modello per Guadagnino, ma mai in un senso imitativo, quanto nell’intenzione cinematografica, in quello che si potrebbe definire un senso del filmare e, più profondamente, un senso del cinema. In questo approccio la messa in scena ha un ruolo chiave, ed è dunque fondamentale la scelta di ricreare Città del Messico a Cinecittà con una dominante cromatica à la Querelle di Fassbinder. Il film mette in atto una dislocazione che trasforma la realtà fisica in uno spazio miniaturizzato e fittizio – quello del cinema stesso – ma è soprattutto una traslazione esistenziale, che pone il protagonista su un piano di disallineamento rispetto al reale, in una dimensione queer. È così che Guadagnino ottiene una sintesi tra lo spirito dello scrittore e il linguaggio cinematografico del regista, reso eloquente nel primo titolo di coda, dove non è il suo nome a legarsi al titolo – come nel precedente “Luca Guadagnino’s Challengers” – ma quello dello scrittore: “William Burroughs’ Queer”. È l’universo di Burroughs quello rappresentato, trasposto come elemento alla base della visione cinematografica del regista.

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Craig, Starkey e Leslie Manville.

Non è un caso che Guadagnino sottolinei spesso che il primo titolo in traduzione italiana del romanzo di Burroughs fosse Diverso. Questo titolo è più direttamente consonante sia con lo spirito del film sia con il senso di una queerness proprio del regista e distante da quello dominante nel discorso pubblico. William Lee/Burroughs è queer – di più: è disincarnato – e non riesce a entrare in contatto con il mondo, ma il suo desiderio per Eugene Allerton apre di nuovo la porta a questa possibilità. Ecco che qui entra in gioco l’incontro con l’altro nei termini che appartengono a Guadagnino, cioè come qualcosa di radicale e disorientante. In Queer William Lee è ossessionato dall’amato, ne supplica il contatto al punto da sperimentare la telepatia indotta dallo yage, pur di raggiungerlo. La ricerca dello yage porta all’apice la tensione esistenziale del personaggio di Daniel Craig verso quello di Drew Starkey in una sequenza che riprende le coreografie di Suspiria per trasformarle in una fusione dei due corpi che ricorda e omaggia esplicitamente i film di David Cronenberg, unico regista ad aver adattato Burroughs prima di lui con Il pasto nudo. Il “desiderio” di cui spesso si parla quando si parla di Guadagnino, non può avere uno spazio critico adeguato se non se ne sottolinea il potenziale rivoluzionario per le sorti dei personaggi e la componente politica sottesa. In Io sono l’amore l’attrazione di Emma per Antonio mette a nudo la fragilità di un’intera classe sociale e si fa il motore non soltanto di un cambiamento di vita, ma della ricostruzione di un’identità perduta. In un’altra direzione si colloca, invece, il desiderio amoroso di Maren e Lee in Bones and All, fulcro di una vera e propria possibilità resistenziale nella società americana conformista ed escludente degli anni Ottanta. In Queer, invece, il desiderio per l’altro, che resta inafferrabile, sfuggente, indifferente, si configura come l’unica forza possibile per provare ad incarnarsi, a smettere di essere ombra in un mondo che appare senza senso.

How can a man who sees and feels, be other than sad? si chiede William Burroughs nelle pagine del proprio diario prima di morire. La sensazione è che sia questa la domanda che guida fino in fondo lo spirito del nuovo film di Luca Guadagnino. Una domanda che il regista – con profonda empatia – vive accanto al suo protagonista e all’autore che lo ha creato, verso un’idea di cinema (e di arte) che sappia ancora aprire uno spiraglio, una possibilità, un lampo nella desolazione.

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