Cinema di poesia? La chimera di Alice Rohrwacher

19 Dicembre 2023

Mentre guardavo La chimera mi è tornato in mente Le vele scarlatte di Pietro Marcello, distribuito all’inizio di quest’anno. A unire i due lavori ci sono almeno tre elementi: la rappresentazione di un contesto provinciale e rurale superato dalla modernizzazione che ha investito il secondo Novecento; la marginalità dei personaggi che vi abitano e allo stesso tempo l'innocenza che ancora preservano; la messa in scena delle tradizioni di quelle comunità, in cui l'elemento magico-superstizioso assume un valore potenzialmente poetico. 

L'associazione forse non è casuale, dal momento che Alice Rohrwacher e Pietro Marcello hanno realizzato, insieme a Francesco Munzi, il film collettivo Futura (2021). Soprattutto, entrambi guardano a una comune tradizione cinematografica su cui fondare le proprie storie: il cinema di Ermanno Olmi – probabilmente il riferimento più evidente e immediato – ma anche il cinema delle origini, quello di Zavattini e di Pier Paolo Pasolini. Cercano, dunque, di riprendere i codici di un certo cinema italiano degli anni Sessanta e Settanta per parlare, indirettamente, della contemporaneità, con tutti i pericoli che questa operazione comporta. 

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Tuttavia, i due utilizzano il linguaggio cinematografico in direzioni e con esiti differenti. Marcello organizza meticolosamente i propri film contaminando reciprocamente la finzione e i materiali d'archivio. Rohrwacher, invece, ha l'ambizione di raccontare, attraverso un cinema poetico, storie che siano allo stesso tempo storicizzate e universali. L'idea alla base de La chimera nasce – lo racconta la regista stessa – proprio insieme a Marcello, a seguito di una lunga discussione sulle figure dei tombaroli, personaggi “maledetti”, attivi nella campagna dell'Italia centro-meridionale tra gli anni Settanta e Ottanta. I due inizialmente avevano raccolto alcune testimonianze, con l'idea – poi scartata – di realizzare un documentario sul tema. La chimera, presentato all'ultimo Festival di Cannes e attualmente nelle sale italiane, si è sviluppato appunto a partire da questo progetto.

L'allegra e sgangherata banda di delinquenti al centro de La chimera viene presentata da Rohrwacher con una leggerezza inedita per il suo cinema. Nel fare questo non rinuncia agli elementi chiave della sua poetica, ma adotta un registro ironico che alleggerisce il tono della narrazione. Le domande che muovono La chimera si legano al noto interesse della regista verso il sofferto processo che ha portato l'Italia, nel dopoguerra, alla modernizzazione, e che qui si concentra sul materialismo culturale che ne è conseguito. Perché per oltre duemila anni tutti sapevano dell'esistenza delle necropoli etrusche ma nessuno le ha toccate, mentre tra gli anni Settanta e Ottanta vengono depredate senza che nessuno si opponga? Quand'è che le persone hanno smesso di vedere negli oggetti la loro storia e hanno cominciato a vederci soltanto delle cose qualsiasi, della merce? La riflessione viene costruita attorno al personaggio di Arthur (Josh O’Connor), un archeologo dotato di poteri rabdomantici che gli permettono di percepire lo spazio vuoto sotto il terreno e di individuare così la presenza delle necropoli etrusche. Arthur è simile a un eroe romantico, ammirato per la sua straordinaria capacità sensoriale ma, allo stesso tempo, legato al Lazzaro di Lazzaro felice. Da subito viene considerato un alieno nel proprio contesto; è lo straniero – tutti, in paese, lo chiamano l'Inglese – e il suo destino, circolarmente, è lo stesso del protagonista del film precedente.

Il dono di Arthur, che ne enfatizza ulteriormente la diversità, viene utilizzato da Rohrwacher per creare un parallelismo – un po’ semplicistico – tra il vuoto che sente sotto il terreno e il vuoto che la giovane Beniamina (Yile Yara Vianello) ha lasciato dentro di lui. Beniamina è il fantasma amoroso che accompagna la vita del protagonista sin dalla prima scena; il filo rosso – dalla forte carica mitica e simbolica – che lega Arthur alle necropoli e, dunque, alla sua condanna. Il fantasma di Beniamina però vive anche nella casa di Flora (Isabella Rossellini), sua madre, che attende da anni il ritorno della figlia e nel frattempo ospita una giovane ragazza straniera di nome Italia (Carol Duarte), cui dà lezioni di canto. Italia, però, nasconde un segreto di cui Arthur è a conoscenza e i due finiscono per invaghirsi l'uno dell'altra.

Il filo rosso di Beniamina, tuttavia, è il simbolo dei problemi de La chimera e, in un certo senso di tutto il cinema di Alice Rohrwacher. Per tutta la sua durata, il film è permeato da un esasperato citazionismo, che si somma all'ostentazione della regista nel proporre elementi visivi e sonori che si accumulano l'uno sull'altro. I numerosi inviti a vedere ciò che sta “sotto” – sotto alla superficie, al di là di come le cose (e le persone) si presentano – a ribaltare lo sguardo per cambiare il punto di vista – come viene imposto allo spettatore ribaltando l'inquadratura ogni volta che Arthur coglie il vuoto sotto i suoi piedi – fa parte di una sovrabbondanza di simbolismi che cercano di spiegare a tutti i costi ciò che già è evidente. Tutto questo sembra stridere con un cinema che vorrebbe mettere in comunicazione il visibile e l'invisibile; un cinema che predica di liberare lo sguardo attraverso la poesia. 

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Che cos'è, allora, la poesia al cinema? Com’è noto, negli anni Sessanta Pier Paolo Pasolini conia la definizione cinema di poesia. Le operazioni poetiche, tradizionalmente, forzano i confini del linguaggio per esplorare nuove possibilità espressive. Nel ragionamento pasoliniano il regista, mediante la scelta di precisi movimenti di macchina e di un utilizzo caratterizzato del montaggio, esprime la propria visione del mondo. Per rendere chiaro ciò che aveva in mente, Pasolini parlava di una soggettiva indiretta libera; una ripresa cioè che oggettivasse lo sguardo dell'autore attraverso quello dei personaggi; la lezione dell'autore contribuiva a definire un utilizzo poetico della macchina da presa. È attraverso questa lente che Pasolini definiva cinema di poesia, ad esempio, il cinema di Godard e Bernardo Bertolucci. 

Quel che conta ai fini nostro ragionamento è che la poesia è un lavoro personale sul linguaggio che ambisce a definire uno stile. Non basta filmare gli uccelli in volo con una Super 16 per essere poetici; a maggior ragione se gli uccelli sono accompagnati da un'omonima canzone di Franco Battiato. Le presunte immagini poetiche, che abbondano nel film di Rohrwacher, sembrano, piuttosto, suggestioni visive sviluppate su citazioni del cinema precedente e del mito. La questione tuttavia è cruciale, dal momento che per la regista la poesia dovrebbe essere lo strumento che libera i personaggi dal peso della Storia. Il parallelismo fatto all’inizio con Le vele scarlatte diventa allora esemplare. Pur partendo da premesse simili a quelle de La chimera, il film di Marcello è un racconto lirico con una diversa consapevolezza storica e ben altra rielaborazione linguistica.

Tuttavia, è fuor di dubbio che la “formula-Rohrwacher” funzioni molto più di quella dell'autore napoletano, soprattutto su un profilo critico e commerciale internazionale. La legittimazione del suo lavoro passa per istituzioni come Cannes e il Pompidou, che proprio in questi giorni le dedica una retrospettiva. A questi si aggiungono i pareri entusiastici di una compagine giornalistica che va dal New York Times e il Guardian fino ai Cahiers du cinéma.

Discutibile o meno, Alice Rohrwacher è oggi la regista italiana che gode di maggior considerazione fuori dal nostro Paese. Anche per questo motivo, il suo lavoro merita di essere studiato con attenzione, per riflettere sulle potenzialità e sui limiti del cinema contemporaneo.

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