Nostalgia e banalità: Empire of Light di Sam Mendes

30 Marzo 2023

Tra le tendenze del cinema contemporaneo, è ormai nota quella che vede alcuni registi soffermarsi su un tempo del passato che li ha riguardati (più o meno) personalmente. Lo ha fatto Alfonso Cuarón cinque anni fa con Roma ed è stato seguito a ruota da Paolo Sorrentino (È stata la mano di Dio), Alejandro Gonzalez Inarritu (Bardo) e – più recentemente – Steven Spielberg (The Fabelmans), solo per fare gli esempi più noti.

Con Empire of Light, Sam Mendes fa una scelta simile e guarda a un luogo e a un tempo che conosce molto bene. Siamo sulla costa settentrionale del Kent nel pieno degli Ottanta, Margaret Thatcher domina la scena politica inglese e imperversano le violenze di alcune sacche del Fronte Nazionale. La popolazione è sempre più divisa ma l'Empire – il palazzo del cinema che dà il nome al film – è un baluardo di libertà dove le differenze si annullano. È un cinema come quelli di una volta: raffinato, ampio, una sorta di grand hotel; un edificio liberty che svetta oltre le case cittadine. All'Empire si incontrano due solitudini: quella di Hilary (Olivia Colman) e di Stephen (Michael Ward). Entrambi impiegati come dipendenti del multisala, Hilary è una donna di mezza età, forse vittima di un disturbo bipolare; Stephen è nero in un'Inghilterra razzista, sogna di andare al college e ama stare in sala a guardare i film con gli spettatori. Nonostante la differenza di età, tra i due nasce una relazione che – come si può immaginare – si rivelerà più difficile di quanto sembra.

Negli anni Ottanta, Sam Mendes attraversava i vent'anni e si vede. La sala viene mitizzata visivamente, anche grazie alla simmetria compositiva del direttore della fotografia Roger Deakins, e restituisce immediatamente il sentimento di chi nelle sale si è formato, le ha frequentate a lungo e le conosce perfettamente. Il cinema – come un tempio – è permeato di sacralità e allo stesso tempo è una dimora aperta a tutti. Non è un caso che la prima scena sia girata proprio in sala a seguito di una proiezione serale, con un campo lungo in cui Hilary e altri due impiegati, avvolti dallo spazio del teatro, raccolgono la spazzatura lasciata dagli spettatori e si raccontano quali assurde scoperte si fanno a pulire un cinema. Allo stesso tempo Mendes è anche lo sceneggiatore del film e indugia – non senza una certa retorica – su questioni universalmente note, con affermazioni di repertorio sulla magia creata dal fascio di luce che arriva dalla cabina di proiezione, oppure sull'illusione di movimento che si realizza grazie al susseguirsi di ventiquattro fotogrammi al secondo.

Negli anni Ottanta però il cinema mostrava già i sintomi della decadenza. Mendes lo simboleggia accostando la libertà e la fragilità della relazione tra Hilary e Stephen con il piano superiore dell'Empire, un tempo la zona più maestosa dell'edificio ma ridotta ora a un totale abbandono. Lì i due protagonisti fuggono dalla propria inadeguatezza e mitizzano la propria storia d'amore. Purtroppo, però, Mendes non approfondisce a dovere i suoi personaggi e la loro sorte: sembrano tasselli di un mosaico che affastella la riflessione sociale, l'omaggio al cinema, la situazione politica, la crisi delle relazioni, in una somma di elementi separati tra loro. Per sua fortuna a salvare, in parte, la situazione ci pensano due grandi attori: Olivia Colman e Toby Jones. La prima sfoggia tutta la sua straordinaria bravura, calamitando l'attenzione dello spettatore su di sé, mostrandosi ancora una volta capace di variare con grande naturalezza tutta la sua gamma espressiva.

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Grazie alla sua performance avrebbe potuto conquistarsi un posto nella cinquina degli Oscar alla migliore attrice. Toby Jones, invece, – qui nei panni del proiezionista dell'Empire – con la sola presenza e il passo lento permette al suo personaggio di incarnare il senso più vero della passione di Sam Mendes per la sala cinematografica. Quando i due attori, in una delle sequenze che traghettano il film alla conclusione, si trovano a recitare da soli all'interno dell'Empire, ecco che anche nello spettatore si aprono davvero gli spazi per l'emozione.

È curioso, poi, che Empire of Light esca nelle sale quasi in concomitanza con un film che gli somiglia moltissimo: Armageddon Time, di James Gray. Il film di Gray – presentato allo scorso Festival di Cannes – è più marcatamente autobiografico, ma i punti di contatto sono sorprendenti: l'ambientazione anni Ottanta, la presidenza Reagan al posto del governo Thatcher, l'irregolarità dei due protagonisti, il razzismo, una società escludente. Tutt'e due i film, poi, fanno i conti con un decennio di conformismo politico e sociale: in entrambi i casi, i personaggi si scontrano con l'incapacità degli altri di accettare la loro diversità e con un sistema di istituzioni che vuole piegare l'alterità ai propri voleri. È lo stesso contesto in cui, nemmeno un anno fa, vedevamo vagabondare alla ricerca del proprio posto nel mondo gli eaters Lee e Maren in Bones and All di Luca Guadagnino. La narrazione del panorama angloamericano di questa decade sottolinea con forza come i governi neoliberisti abbiano influito sul carattere dei cittadini e, di riflesso, rimanda alle conseguenze di quel periodo storico sul nostro presente.

Empire of Light, però, permette anche di riflettere con un più ampio respiro sul cinema contemporaneo. In un periodo di crisi conclamata, è ancor più importante ragionare criticamente sui film, sulla loro forma e la loro funzione. Negli ultimi dieci anni il passato torna continuamente nel cinema del presente. Oltre al filone citato in apertura, specialmente i remake e i sequel/prequel hanno dominato tra i prodotti distribuiti dall'industria cinematografica e su questo punto è necessario riflettere. Nella storia del cinema ci sono stati grandi remake; si pensi a Scarface di Brian de Palma, a Nosferatu di Werner Herzog e – anche se più controverso – a Suspiria di Luca Guadagnino, solo per citarne alcuni. Sono tutti film consapevoli che il cinema si fa con la memoria del cinema; con questa consapevolezza guardavano al passato in chiave prospettica, leggevano il proprio tempo e provavano a inventare un nuovo modo di fare il cinema nel presente. Erano operazioni pienamente contemporanee. Se questo sguardo sul passato orientasse la gran parte del cinema di oggi, probabilmente anche la sua fortuna critica sarebbe diversa. Molto spesso, invece, il rischio è quello di incappare nella nostalgia del passato, con tutti i rischi che ne conseguono. Certo, il valore della nostalgia – come quello dei remake e dei sequel – non è in sé negativo: può portare a riflettere sulle condizioni che hanno permesso a un certo cinema di emergere e di imporsi, oppure possono omaggiare figure storiche che hanno contribuito a creare il cinema e il mondo che conosciamo oggi. Dall'altra, tuttavia, è un sentimento rischioso, che potrebbe alimentare una forma di commiserazione del nostro cinema attraverso il confronto con i fasti del passato. In questa declinazione potrebbe quindi soltanto certificare e aggravare la sua crisi.  

La lacuna più grande di Empire of Light, in fondo, sembra proprio questa. Lo sguardo del suo regista sembra impermeabile a una riflessione consapevole. È, in fondo, un elemento che stupisce se si considera che il cinema di Sam Mendes ha sempre avuto l'attitudine ad andare in profondità – soprattutto nell'indagine delle relazioni interpersonali – sin dal suo esordio con American Beauty (1999). Qui invece Mendes è completamente nostalgico e dalla nostalgia scivola immediatamente nella banalità. Non lo premia la scelta di girare il film in digitale, che anziché creare un ponte con il presente, allontana ulteriormente lo spettatore dal tempo in cui la storia è ambientata, pienamente in linea con il 2023 e non con il 1980. Il regista però si circonda di un pool di pesi massimi (Deakins alla fotografia, Trent Reznor e Atticus Ross alle musiche, oltre al cast d'alto livello) che contribuiscono a nascondere, almeno superficialmente, i difetti di uno dei suoi film meno riusciti.

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