Calvino: guardare la conoscenza

2 Maggio 2023

Nel grande, acceso dibattitto intorno alla cosiddetta cultura visuale, che scavalcherebbe o affiancherebbe saperi e poteri legati alla lingua e alla scrittura (la famigerata literacy), la posizione di Marco Belpoliti è sempre stata ferma, precisa, radicalmente spiazzante. Anche perché sottintesa al suo lavoro di diversi decenni, talvolta detta ma più spesso mostrata e dimostrata dalla forza allusiva del gesto critico, della ricostruzione minuziosa – e al tempo stesso partecipante – dei segni e dei gesti della cultura contemporanea. 

Di che cosa si tratta? Presto detto: più che opporre parole e immagini, lingua e visualità, scrittura a osservazione, come spesso viene fatto, Belpoliti punta il dito – come dire lo sguardo e le penna – sulla componente visiva insita nel linguaggio e, per altri versi, sul carattere narrativo d’ogni immagine. Scrivere, si dimentica spesso, è innanzitutto depositare tracce sulla carta, disegnare con pazienza e passione, ribadendo la doppia faccia, significante e significata, d’ogni gesto espressivo. E non c’è affabulazione che non sia anche visione, dunque ricerca di immagini cui attribuire un valore e un senso. Lo scrittore innanzitutto osserva, dirige lo sguardo per ogni dove, estraendo dal mondo moniti rivelatori di natura sensoriale, impressiva, in quella cerniera fra l’estetico e il cognitivo che è, appunto, il racconto. Ma l’immagine, a sua volta, non è mai neutra, insignificante, insipiente: in essa c’è già l’ordine che il mondo si dà, o che quanto meno prova a darsi.

Studioso e curioso di fotografia e di narrazioni, di disegno e di media, di grafica e di testimonianza, di letteratura insomma nel senso pieno del termine, Belpoliti, scrittore a sua volta, s’è fabbricato poco a poco un pacchetto di autori di riferimento da cui estrarre prove e controprove di una tale convinzione, che è al tempo stesso etica e semiotica, estetica e senza dubbio politica. Fra questi, Levi, Celati, Pasolini, Calvino. Su quest’ultimo aveva messo su L’occhio di Calvino (Einaudi 1996), un testo chiave non solo per capire l’autore delle Cosmicomiche e delle Città invisibili (invisibili, e perciò raccontate a iosa) ma, più in generale, per inaugurare il nuovo millennio – che adesso, per quanto già iniziato, sembra perder tempo a partire veramente, a prendersi sul serio come futuro verso cui persistere a progettare. Italo Calvino, nota con forza Belpoliti, è uno scrittore visivo poiché interessato, più che alla conoscenza del mondo, alle vie per arrivare a essa, che sono soprattutto di natura iconica. 

A proposito di L’avventura di un poeta (in Amori difficili) Calvino aveva rivelato al suo interlocutore del momento (François Wahl, amico ed editore di Roland Barthes) che il punto di partenza di ogni suo scritto era stata sempre un’immagine, la sua logica interna, là dove contemplazione e narrazione si intrecciano fino a identificarsi. Così, Cosimo Piovasco di Rondò, protagonista di Il barone rampante, ha esattamente un problema visivo: cerca la giusta distanza per osservare il mondo. E sta perennemente sugli alberi. Anche lo scrutatore della giornata omonima, Amerigo Ormea, scruta più nel senso dell’osservazione che non in quello elettorale. Per non parlare di Palomar, personaggio-occhio che passa il tempo a mettere in gioco i vari metodi grazie a cui il mondo può essere approssimato attraverso uno sguardo che, percorrendo attentamente ogni superficie possibile, evita al contempo il rischio delle profondità più o meno oscure e le esaltazioni per ogni forma di celeste al di là. In fondo è tutto un problema di immaginazione, la quale, più che verso la capricciosa fantasia, mira all’esame innanzitutto visivo del reale. Del resto, è noto che alla visibilità è dedicata una delle sei lezioni per il prossimo futuro che Calvino stava preparando nei mesi prima di andarsene. 

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Da qui la nuova fenomenale antologia di scritti di Italo Calvino – Guardare. Disegno, cinema, fotografia, arte, paesaggio, visioni e collezioni (Mondadori, 726 pagine, € 24) – che Marco Belpoliti ha appena mandato in libreria: un volume che raccoglie i testi, soprattutto di carattere saggistico (ma qui la separazione fra saggio e racconto appare alquanto insensata) e per lo più non facilmente trovabili, in cui Calvino prende di petto, da svariati punti di vista, la questione del vedere o, meglio, del guardare. Se vedere può difatti essere un’esperienza passiva, pura sensazione senza particolare intenzionalità, guardare comporta sempre un’attenzione supplementare, una propensione verso qualcosa, un’attività narrativa insomma. Si vede quel che capita. Si guarda quel che si vuole vedere, ovvero quel che ha un qualche interesse, un qualche tipo di valore. È la fisiologia stessa della visione umana a generare un meccanismo narrativo di questo tipo: vedo solo se metto a fuoco, optando incessantemente fra sfondi e primi piani; metto a fuoco dunque quel che mi riguarda, mi interessa, avendo per me un qualche significato. Di modo che ogni vedere presuppone un guardare, e non viceversa. 

Lezione fortemente fenomenologica che Calvino aveva ben chiara, come si coglie in queste settecento ricchissime pagine dove lo sguardo, girato e rigirato per ogni dove, la fa comunque da protagonista. Il volume, come già spiega il sottotitolo, è diviso in sette diverse sezioni tematiche: si parte dal disegno e, passando dal cinema (recensioni e divagazioni), la fotografia (col tema dell’identità), le arti visive (dove trionfa l’ekphrasis), il paesaggio (soprattutto ligure), le visioni (cronache di mostre ed esposizioni varie), arriva alle collezioni, dove sono ripresi i formidabili scritti raccolti dallo stesso Calvino in Collezione di sabbia.

La prima sezione è primaria, potremmo dire ancestrale, senz’altro aperitiva, poiché non raccoglie scritti ma, appunto, disegni dello stesso Calvino, quattro vignette umoristiche pubblicate nel ‘40 (dunque a 17 anni) sul “Bertoldo” di Guareschi e Mosca, dove è questione di lingua, di giochi di parole. C’è uno strano tipo che ha un nodo alla gola, ma non ricorda perché se l’è fatto. Una ricca signora chiede un verso a un azzimato poeta, il quale però risponde con un “Buuu”. Un grasso signore appena nominato commendatore gode del fatto che la radio non gli dà del tu ma del voi, peccato che si tratta del segnale orario; e c’è uno stupido che, alla stazione, deve comprare un biglietto del treno, optando per la classe 1903: una classe di ferro, dice fierissimo. La caricatura è doppia, sta nell’espediente grafico ma anche nella freddura linguistica. Le due cose – immagine e parola – sono fuse già dall’inizio. E del resto sarà proprio nella lezione postuma sulla visibilità (qui riproposta) che l’autore di Il castello dei destini incrociati indicherà il fumetto come sua fonte primordiale di ispirazione letteraria.

Le altre sezioni del librone sono miniere inesauribili di acume, sprazzi di genialità che s’accompagnano a raffinatissime osservazioni di dettaglio, tentativi di generalizzazione che si scontrano con esercizi di dubbio metodico, dove intuizioni, perplessità, esperienze e giudizi si passano la palla, dinnanzi a film (Calvino cinefilo e critico militante è una rivelazione), fotografie (dove ritroviamo con piacere “L’avventura di un fotografo”, che sta nella bibliografia della Camera chiara di Barthes accanto al Blow up di Antonioni), quadri e disegni vari (da Picasso a Paolini, da Matta a Carlo Levi, da Steinberg a Pericoli…), paesaggi (bello rileggere “La strada di san Giovanni”) e così via. In fondo (stavo per scrivere “a ben vedere”) l’operazione compiuta da Belpoliti si rivela perfettamente calviniana: un tentativo di collezionare la totalità che, però, fugge da tutte le parti, una classificazione finissima del mondo che, tuttavia, può essere rifatta incessantemente e in tanti modi (Perec docet). L’arbitrarietà delle scelte è funzione della responsabilità del critico, il quale mima a suo modo l’oggetto che, diciamolo, si ostina a scrutare. Insomma, un libro da comodino, che va letto a piccoli sorsi, con ritmo lento ma costante, alla ricerca di prospettive differenti, di nuovi modi di guardare. Al lettore il compito di attraversarlo a suo modo, aprendolo a caso oppure andando in cerca della perla nascosta che gli interessa trovare (e prima ancora cercare). 

Un esempio per chiudere, geniale e commovente (sul quale Belpoliti s’era già soffermato in L’occhio di Calvino). È un testo sullo specchietto retrovisore delle automobili che, per quanto di non immediata lettura (o forse proprio per questo), bisognerebbe far leggere nelle scuole. Sta tra i materiali di Palomar ma, poi, non è stato inserito nel libro omonimo. C’è il signor Palomar che sta guidando, perdendosi in divagazioni su questo strano oggetto sui lati dell’auto. Lo specchietto retrovisore, rimugina Palomar, ha una qualità singolare: permette di osservare dietro continuando a guardare davanti, superando così la divisione dello spazio in campo anteriore e campo posteriore. Se prima di esso il mondo era identificabile con ciò che ci sta dinnanzi, e cioè il solo spazio anteriore, adesso che lo sguardo è raddoppiato lo è anche il mondo. “Ma forse – scrive Calvino – mentre il campo anteriore perde realtà, tutta la realtà potrebbe concentrarsi nello specchietto, emergere dal fondo di quel riflesso, sbucare da dietro quel pezzetto di vetro messo un po’ per storto: a partire da là comincia un mondo smisurato quanto è piccolo lo specchio che lo rivela ma insieme ancora lo nasconde, un mondo che contiene la sola realtà che ci sta al mondo e che resta sempre alle tue spalle, irraggiungibile, perché più ti insegue più ti spinge nell’inesistenza che ti si stende davanti”.

Per queste ragioni lo specchietto retrovisore non ha nulla dello specchio che, narcisisticamente, riflette chi lo guarda. È piuttosto uno strumento di conoscenza unico nel suo genere: permette di saperne di più, certo, ma al tempo stesso suscita la vertigine: vedere tutto è come non vedere nulla. Di modo che l’incidente – non solo automobilistico – è dietro l’angolo. C’è sempre un punto morto che nessun occhio riesce a mettere a fuoco. Decisamente meglio rallentare.

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