Caracalla. Danza senza gerarchie
Pina Bausch, Maurice Béjart e Christopher Wheeldon sono gli autori delle tre coreografie presentate a fine luglio sul palcoscenico delle Terme di Caracalla dal Corpo di Ballo del Teatro dell’Opera di Roma, diretto da Eleonora Abbagnato, con le musiche del programma eseguite dal vivo (ad eccezione di Ezio Bosso e Antonio Vivaldi) dall’orchestra del Teatro dell’Opera, diretta da Ido Arad. Il titolo annuncia un programma d’eccezione, non solo perché in esso si affiancano alcuni tra i più importanti nomi della coreografia internazionale, ma anche perché questo trittico somiglia di fatto a una “trilogia” che ci ricorda di guardare alla coreografia e alla danza come a forme di conoscenza umana multiforme, genealogica e viaggiante. Come un viaggio tra Europa e Stati Uniti d’America, questo trittico è emblematico della danza che supera i confini, unisce e raccoglie in sé conoscenze, estetiche, stili e visioni diverse.

Ad aprire la serata, dunque, un primo tragitto che connette Europa e America passando per la Gran Bretagna. La coreografia di Wheeldon sulle musiche, splendide, di Ezio Bosso e Antonio Vivaldi si intitola Within the Golden Hour e si tratta di un lavoro che il coreografo inglese creò nel 2008 per il San Francisco Ballet. Negli scintillanti costumi di Anna Biagiotti, assistiamo a cinque coreografie, tecnici passi a due e scene di gruppo, che conservano chiaramente il segno del legame che lega Vecchio e Nuovo Mondo secondo la prospettiva del balletto classico. La tecnica classica si combina con elementi di stampo balanchiniano unito a un raffinato spirito coreografico british che tradisce e celebra le origini tutte anglosassoni del coreografo. In tutti i diversi brani da cui la coreografia è composta, la musica sostiene il movimento guidandolo e il corpo incarna la musica in un ciclo pressoché infinito di vicendevoli rimandi che passano rapidi nello sguardo del pubblico.
A seguire, torniamo in Europa continentale per il Boléro di Maurice Béjart sulla musica di Maurice Ravel. Il pezzo debuttò a Bruxelles nel 1961 danzata da un’interprete femminile. Oggi è una coreografia–monumento, basata sul principio della ripetizione, che si incide nella memoria del pubblico rispondendo in maniera esatta al proposito originario di Béjart che, sulla carnalità della musica di Ravel, compose una danza ipnotica e sensuale che nel tempo è diventata anche pionieristicamente slegata dal genere degli interpreti (in un ambito, come quello della danza e del balletto, che invece è fortemente ancorato ai ruoli di genere e alle sue gerarchie). Boléro, però, non è solo Béjart, ma ha una storia a più strati legata anche a quella dei Ballets Russes e dei grandi artisti che vi gravitarono attorno. Si tratta, quindi, sia di un titolo che già aveva un suo passato legato a Ida Rubinstein e a Bronislava Nijinska (sorella di Vaslav) che creò la prima versione nel 1929, sia un lavoro connesso – variabilmente – alla cultura spagnola, declinata in maniere diverse nel corso del tempo a seconda delle diverse scritture e riscritture coreografiche che si sono susseguite, prima e dopo Béjart.

Nella terza parte della serata, dopo l’intervallo, la scena viene infine ricoperta di uno strato di terra per Le Sacre du Printemps, coreografia imprescindibile di Pina Bausch del 1975 creata per il Tanztheater Wuppertal sulla partitura di Igor Stravinskij. Per questa terza parte restiamo in Europa e proseguiamo il viaggio con un volo che dalla Parigi dei Ballets Russes – che nel 1913 presentarono quel primo, inafferrabile Sacre che finì con una leggendaria bagarre in teatro – arriva alla Germania dell’Ovest della metà degli anni Settanta conservando qualche segno del passaggio formativo negli Stati Uniti della stessa Bausch che “importa” nella sua poetica e nel titolo che più la lega alla nascita della danza contemporanea europea alcuni principi di composizione che erano in qualche modo diventati “propri” della scena coreografica e artistica statunitense, uno su tutti la ripetizione del movimento. Un principio, questo, che le neuroscienze di oggi ci confermano essere anche tra gli effetti visuo-motori di natura ritmica più “piacevoli” per l’occhio e quindi per il cervello umano. Anche chi non è addentro alla cultura coreografica, sicuramente avrà incontrato l’espressionismo astratto di Jackson Pollock, Willem de Kooning, Mark Rothko, per citare i più conosciuti, oppure le irriverenti lattine di zuppa Campbell di Andy Warhol del 1962. Che cosa succede allo sguardo davanti a queste opere? Il movimento degli occhi traccia e rintraccia un pattern visivo; l’attenzione – per così dire – “si specializza” e inizia a mettere in evidenza, tra un segno e l’altro, delle differenze anche piccole che dettano un ritmo che offre una forma di “soddisfazione percettiva”. Questa nasce dalla capacità del cervello di trovare unione e ordine nella differenza, giocando tra ripetizione e variazione. Per questo, la danza delle donne e degli uomini del corpo di ballo del Sacre e di Boléro genera una sorta di piacevole ipnosi dalla quale emergono forme spaziali, ritmi e figure che trattengono l’attenzione e trasmettono, intensamente, l’emozione che il gesto allo stesso tempo contiene ed esprime.
Nel caso del Boléro, la struttura sottostante la coreografia è più esplicita, frutto di una regolarità chiara delle forme: il cerchio del tavolo rosso su cui danza il solista (sul palco di Caracalla, l’étoile Friedemann Vogel), la schiera a ferro di cavallo di sedie che lo circonda insieme al corpo di ballo maschile, ma anche i movimenti stessi dei danzatori, geometrici, che stagliano figure scultoree nello spazio, trasportati dalla cadenza militaresca ideata da Ravel. Ostinatamente, il corpo reagisce alla musica e la musica sembra restituire al corpo ciò di cui ha bisogno, un’energia profonda, vitale, sensuale, che “trasporta”. Anche nel Sacre della Bausch è presente un uso particolarmente della ripetizione, che sottolinea e sottolineando esprime le emozioni che via via conducono l’azione. Il gruppo delle donne, in particolare, sfrutta tutta la potenza del gesto ripetuto per esprimere la curiosità, la paura, il terrore del sacrificio di cui fanno parte. Rebecca Bianchi, étoile che ha impersonato l’Eletta, restituisce questo ruolo con una calligrafia particolarmente precisa e potente in cui si bilanciano bene l’aderenza alla coreografia e quella quota di “rischio” esecutivo e interpretativo che il ruolo stesso prevede.

Nel caso di questa serata, in particolare, l’ingresso nel repertorio del Corpo di Ballo della Sagra della Primavera di Pina Bausch è un evento di particolare importanza. La trasmissione della coreografia alla compagnia è stata curata da alcuni collaboratori storici della compagnia di Wuppertal quali Clementine Deluy, Jorge Puerta Armenta, oltre a Damiano Ottavio Bigi e la stessa direttrice Eleonora Abbagnato, scelta per il ruolo dell’Eletta da Pina Bausch quando il pezzo venne allestito per la compagnia dell’Opéra National de Paris, dove la direttrice del corpo di ballo romano ha tracciato una carriera luminosa da étoile. Questi nomi non sono semplicemente quelli di un gruppo di “ripetitori” che hanno aiutato i danzatori a imparare a memoria la coreografia, ma sono mediatori di un “saper fare” che nella danza fa sì che “pratica” e “conoscenza” siano profondamente connesse. Cosa ricordano i danzatori? Non solo le “forme” e i passi da eseguire, ma quell’intreccio per certi aspetti anonimo – poiché appartenente a tutti – di pratiche da cui quel sapere origina e proviene. Nelle genealogie della danza ogni esercizio di memoria è anche autobiografia, perché non può prescindere dalle identità di chi quelle conoscenze le ha incorporate.
Estetiche, stili, avanguardie, ibridazioni, sperimentazioni, aderenza alla tradizione o tradimento dei canoni: tutto è possibile, nella danza. Ci sono opere, come quelle presentate in questo trittico, che resteranno “per sempre”, ma ci sono anche molte altre opere destinate ad essere dimenticate. Entrambi gli scenari compongono con pari dignità quell’intreccio di eventi, trasformazioni ed eredità che chiamiamo “storia”. Mentre mi avvicinavo alle Terme di Caracalla in un flusso copioso di spettatori e spettatrici, sapendo di stare per assistere a una serata decisamente “importante”, inevitabilmente ho pensato a tutte quelle realtà che, in questi mesi, hanno visto decurtare violentemente la portata dei propri sostegni finanziari. È un’altra danza? Ma la danza è una, le danze sono infinite. Detto in altre parole: siamo, sempre, tutti e tutte sulla stessa barca. Mentre camminavo verso il teatro mi è venuta in mente una domanda impossibile: come sarebbe valutato l’operato di un impresario quale Diaghilev oggi? Da quale parte, quale orientamento verrebbe riconosciuto oggi a una visione come la sua? Ai suoi tempi, non aveva di certo unanime consenso, né le sue scelte apparivano “accettabili” o “decorose” ai più. Non so quanto casuale fosse, in fondo, questa domanda che chiamava in causa un personaggio come Serge de Diaghilev proprio mentre mi dirigevo verso Caracalla. Non pensavo ai Ballets Russes, al legame – seppur presente – con le coreografie cui avrei assistito, ma riflettevo su ciò di cui la danza ha bisogno per fiorire. Di certo, le tre coreografie della serata hanno tutte un legame con quel tempo dorato di un secolo fa, e giustamente lo celebrano, giustamente lo celebriamo. La speranza è che questa meravigliosa energia del passato possa non essere convogliata entro categorie che chiuderebbero la danza dentro una gabbia che, per quanto plurale, sarebbe comunque troppo piccola.
In copertina, Pina Bausch, Le Sacre du Printemps, Rebecca Bianchi, foto Fabrizio Sansoni, Opera di Roma 2025.
