Cloning Terror

4 Settembre 2014

Inaugurare con un riferimento a una guerra delle immagini, come fa il teorico dell’estetica W. J. T. Mitchell nel sottotitolo di Cloning Terror (La Casa Usher, 2012), è immediatamente innescare un’esplosione di molteplici tracce e sentieri che gravitano intorno ai concetti di patria, minaccia, nemico, sacrificio, vittoria, mettendoli in diretta relazione con la questione iconica e, proprio in virtù di tali concetti, col tema della diffusione delle immagini in particolare. Del resto, il fenomeno che da più di un decennio ha assunto la denominazione di Guerra al Terrore non smette di scuotere e stimolare scrittori e pensatori. Una tendenza, che sarebbe miope ignorare, prende in carico tale impegno dalla prospettiva della produzione immaginativa, certamente ma non esclusivamente in ragione della portata spettacolare della sorgente di quello stesso fenomeno, l’11 settembre.

 

Evento archetipico di un nuovo senso, lo è stato fin dallo stesso istante della sua realizzazione, vale a dire nella sua venuta alla luce, nella messa in scena istantaneamente visibile e vista da tutto il mondo. Mondo che, proprio in forza di quella esposizione così imponente, l’11 settembre era destinato a cambiare, a creare. Le immagini, infatti, non solo influenzano la nostra identità, ma la informano e la generano nello stesso movimento con cui generano un mondo; la loro potenza è perciò di una grandezza incommensurabile, vale a dire che nessuna misura, tantomeno quella del linguaggio verbale, è in grado di rapportarsi a una definizione di essa che sia comprensiva. Quella stessa potenza si declina a tutti gli effetti come una viralità infettiva, sospinta dallo sviluppo tecnologico e dai media che se ne sono arricchiti.

 

Mitchell torna a definire questa evoluzione, con un concetto da lui teorizzato anni fa, come pictorial turn e presenta un’analisi che poggia su due fenomeni niente affatto irrelati quanto potrebbero apparire inizialmente: la Guerra al Terrore e le tecniche di clonazione.

La prima è stata ed è indubbiamente «l’anomalia storica dell’era post-11 settembre» (Ivi, p. 40), in grado artificiosamente di mutare il terrorismo in un evento inedito e peculiare, laddove la sua esistenza era storicizzata e multiforme, grazie all’invenzione di una vera guerra contro di esso: non tanto e non solo sicurezza o prevenzione quanto un dispiegamento militare, politico, mediatico e sociale contro un Nemico, un’entità fumogena e impalpabile e, pure, una monade con unità di intenti e di pensiero. La Guerra al Terrore ha identificato il nemico degli Stati Uniti e, per estensione pressoché naturale, dell’Occidente; già con la sola forza performativa del proprio nome, l’immagine del terrore era stata partorita e destinata a farsi tratteggiare e definire filmato dopo filmato, fotografia dopo fotografia, un videomessaggio alla volta.

 

Paul McCarthy, Clone, 2001-2004Paul McCarthy, Clone, 2001-2004

 

Ma è il secondo pilastro a ergersi con maggior imponenza, fino a portare su di sé anche il carico del primo. La scienza della clonazione, fin dalla sua presentazione più turbolenta con la nascita della pecora Dolly, ha squarciato un velo che l’uomo si illudeva di frapporre tra sé e l’immagine dall’inizio dei tempi: l’impossibilità della copia, lo schermo protettivo contro la similitudine. La paura originaria che in essa si è incarnata è quella dell’immagine che prende vita. Il linguaggio con cui l’abbiamo accolta ha progressivamente traslato la clonazione, nel tentativo di riappropriarsene e ottenendo invece di rafforzarne la potenza, fino a farne il nome di ogni processo di riproduzione o imitazione; in altre parole: la clonazione si connota oggi «come “immagine della produzione di immagini”, o come [...] una metapicture» (Ibidem).

 

Dalla reiterata moltiplicazione delle immagini delle Torri, delle successive spedizioni contro il terrore, delle comunicazioni politiche e, non da ultime, delle relative interpretazioni artistiche, emerge in tutte le sue direzioni ed energie l’efficacia dell’espressione cloning terror: il terrore del clonare, la paura dell’identico che è la ragione stessa dell’identificazione, vale a dire del rassicurante senso di appartenenza e della diversità che questa crea per esclusione; clonare il terrore, l’applicazione sistemica di tecniche che, descrivendo l’immagine del nemico, finiscono per moltiplicarne la vitalità ed esaltarne l’immaginario rendendolo immortale, la cifra dell’eccezione infinita; il terrore che clona (e che si clona), la nebulosa che fa vacillare le certezze su identità e differenza con la roboante presa di coscienza che l’orrore si compie tanto fuori quanto dentro, che le immagini denunciano la mistificazione insita nell’utilizzo stesso di quei due opposti, che l’indicibile e l’inimmaginabile sono divenuti impossibili da tacere e nascondere. Una fotografia in particolare è diventata il cristallo che condensa tutte queste dinamiche e le loro risonanze: l’Uomo Incappucciato di Abu Ghraib.

 

L’Uomo Incappucciato di Abu Ghraib, 2003.

L’Uomo Incappucciato di Abu Ghraib, 2003.

 

Una fotografia che si inocula nel nostro tessuto percettivo sotto l’egida di una prepotente sospensione: quella immediata del suo soggetto, inerme e bandito dalla visione e costretto a un precario equilibrio sotto la costante minaccia di uno shock; quella dello spettatore e del suo giudizio, catturati nell’incapacità di decidere poiché «l’immagine ha “due corpi”, e il suo significato fa la spola tra sovranità e abiezione, sospetto di terrore e tortura della vittima, criminalità e martirio. Inoltre cattura lo spettatore americano tra due posizioni incompatibili, oscillando tra uno stato di empatia con le vittime e di complicità con i torturatori» (Ivi, p. 181).

 

Questa soglia di inconciliabilità è il limite su cui ci spinge un’immagine-guida, come quella fotografia, lasciandoci nel dubbio se si debba solo subire o si possa invece accoglierne la portata dialettica, lo stesso stato di arresto in cui essa dispone un evento, la storia. Una sospensione inconfessabile e che, tuttavia, sta sempre nuovamente clonando la sua presenza. Innanzitutto a noi stessi.

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