Marsiglia 2013: la danza utopica di Virgilio Sieni

19 Settembre 2013

Davanti a tutti c’è Aulo, artigiano alabastraio di Volterra, 82 anni, con cappellino di carta, sgorbi, ceselli, lime. Virgilio Sieni con lui ha portato a danzare a Marsiglia sogni santarcangiolesi e arlecchini picassiani, signori baresi e ragazzine di undici anni, contadini di Pezze di Greco (Puglia) con i loro pomodori e orecchiette, madri e figlie di vari paesi e colori, non vedenti italiani e catalani, donne nate e cresciute sotto le esalazioni micidiali dell’Ilva di Taranto, anziane signore di San Gimignano, di Firenze, di Marsiglia e Catalogna, un boxeur maghrebino di Marsiglia, giovani neri dai corpi di dei residenti in Toscana, il coro di Carpi.

 

 

Un popolo, composito, fatto di più di centocinquanta persone, che danzano o semplicemente mettono in scena i loro gesti antichi o contemporanei. È la conclusione del progetto itinerante Art du geste dans le Méditerranée, che ha visto il coreografo fiorentino muoversi per alcuni anni a scolpire danza dai movimenti quotidiani tra Italia, Francia e Spagna, in un lavoro sulla memoria e sul futuro di spessore unico.

 

Per Marsiglia 2013 capitale europea della cultura, dal 28 al 31 agosto, con la produzione di Le Merlan Scène Nationale à Marseille, il coreografo fiorentino ha creato Trois Agoras Marseille, un vero e proprio minifestival della meraviglia e della densità di pensiero coreografico, accompagnato da un bel volume con lo stesso titolo, pubblicato da Maschietto Editore con la cura di Alessandro Leogrande. Tre agorà: piazze, luoghi utopici dove ricostruire i fili di una comunità dispersa fatta di storie, di corpi, di gesti differenti, come già aveva accennato nella prima edizione della Biennale Danza da lui diretta.

 

ph. Adrien Bargin

 

Accostando in luoghi di forte suggestione pezzi nati in posti e momenti lontani, li ha trasformati, sommando vari livelli di esistenza e di senso. Come nella piazza, nella città, ha messo a confronto singole azioni, pulsioni, opzioni, per raggiungere una possibile convivenza, per ipotizzare una differente socialità fatta di ascolto, di confronto, di ricerca dell’altro. Metafora e utopia attraverso la danza, che Sieni dichiara, con queste azioni, un potenziamento di qualità, memorie, possibilità insite nel gesto quotidiano, nel modo di comportarsi di tutti.

 

Virgilio Sieni, ph. Adrien Bargin

 

Agorà del mare, del cielo, della terra, le ha chiamate. Al Mucem, il nuovo Museo delle civiltà dell’Europa e del Mediterraneo della città Provenzale, un parallelepipedo di vetro con una parete nera traforata lanciato sul mare, per Agorà mer vediamo una folla che acquista a poco a poco consistenza di popolo migrante, che produce sogni, che evoca l’incubo di un sisma e di nuovo chiede un rifugio, una casa, un luogo per ritrovarsi.

 

Virgilio Sieni, ph Adrien Bargin

 

Danzano signori baresi con movimenti che sembrano di danze di balera anni cinquanta o di antica pizzica; sognanti arlecchini e pierrot stupiti meravigliosamente insieme si desincronizzano mentre cercano un’armonia da membra impedite, ferite, slogate; dalla moltitudine emergono un coniglietto con macchina da scrivere, un angelo, due re neri con il collo decorato d’oro, come un gioiello sgretolato. Vecchie signore accennano passi di danza e un ragazzino, Giordano di Bari, prima controfigura del coreografo da giovane, si slancia come étoile in movimenti al limite del virtuosismo, solista contro il gruppo, con il gruppo.

 

Virgilio Sieni, ph. Adrien Bargin

 

Le immagini sono continue, sfumate, risucchiate nelle corse del gruppo, con qualcuno che arranca ansimando, e viene aspettato, riassorbito, fino al sogno del gruppo di Santarcangelo, delicato, inquietante con levità, e una cieca o sonnambula che misura lo spazio, una palla in equilibrio sul naso, ali, cappelli a cono... Il gruppo si ricrea e dissolve come mosso continuamente da un vento, che mette in mostra goffaggini e meraviglie, rendendo l’arte della danza domestica e stellare. Un uomo e una donna, tra sfide e movimenti di popoli con materassi, sedie, tavoli, in cerca di luoghi dove poter sedimentare, si costruiscono un rifugio, fatto di niente: fragile casa, mentre la luce del sole, che penetrava radente nel grande salone, è sfumata in illuminazione di lampade che creano lunghe ombre.

 

Virgilio Sieni, ph. Adrien Bargin

 

Un’altra sera Agorà ciel si dipana sempre su quel mare che guarda verso nord ovest. Madri e figli (figlie, quasi tutte) danzeranno nel tramonto un cercarsi, accudirsi, perdersi e ritrovarsi, scambiarsi con altre madri e altri figli per qualche momento, smarrirsi e ritrovare un corpo caro, sostenersi, appoggiarsi: guardando il luogo, il vuoto, come scrutando il destino. Cercando un respiro, un orizzonte. Qualcosa. Accompagna questo altro popolo il violoncello pizzicato, battuto, sfregato e la voce cullante, narrante, evocante di Naomi Berrill, che tornerà in Agorà terre; mentre era affidato al fenomenale contrabasso di John Edwards la scansione del soli-gruppi-tutti di Agorà mer.

 

Virgilio SIeni, ph. Adrien Bargin

 

Agorà terre si svolge nel Conservatorio di musica di Marsiglia, già Accademia delle Arti, a poche decine di metri dall’arteria centrale della Canebière. Il cortile è trasformato in luogo di ristoro per questa comunità danzante e per gli spettatori, centro di scambi, posto dove l’ultimo giorno molti dei partecipanti si incontreranno nella preparazione della festa finale, con le signore pugliesi che insegnano a fare le orecchiette, in uno scambio di saperi che cementa questa provvisoria comunità.

 

Virgilio Sieni, ph. Adrien Bargin

 

La sera lo spettacolo si snoda in vari luoghi: inizia con il Coro Savani di Carpi, protagonista, con varie persone che avevano vissuto il terremoto del 2012, del memorabile Home_quattro case visto per il festival Vie di Modena. I coristi, con i loro vocalizzi pop che penetrano nella pelle e arrivano fino in fondo dentro, compongono sipari che rivelano due anziani contadini che avanzano con fatica di gambe ultraottantenni, raccontando brevi squarci di lavoro e vita; oppure giovani danzatori non vedenti che avanzano aiutati da un cane e poi da soli cercando di trovare un senso allo spazio siderale. E loro stessi, i coristi, diventano suono che danza, spirali, mentre questa comunità procede verso qualche abisso, e cinque persone di Carpi inscenano un rito di assenza e scongiuro, una processione-via crucis con una grondaia, resto di casa abbattute dal terremoto.

 

 

Nella biblioteca sono allineate varie visitazioni, aperte da Aulo che costruisce statuine di alabastro e dal violoncello sognante. Poi vediamo ghirigori di signore, ricerche, evocazione di antiche processioni funebri, pugni contro il vento dei fantasmi, danze incalzanti di bambine, cerimonie borghesi del tè o di difesa sotto qualche sedia, passi di danza legati con un filo rosso tra le mani tra le labbra, come di parche che reggono i destini... Tra l’artigiano che sbozza la materia, vecchio alter ego del coreografo che sbalza dai gesti quotidiani figure e azioni indimenticabili, e movimenti tesi o impacciati vive questo riuscitissimo tentativo di ritrarre il reale trasfigurandolo con una libertà tutta speciale, che rende progetto la memoria e intreccio la diversità. Si chiude con tre vecchie contadine della provincia di Brindisi: sedute tra chili e chili di rossi pomodorini, con gesti sapienti, volanti delle mani, li uniscono in trecce per conservarli durante l’inverno.

 

Siamo in un castello magico di ricordi e di possibilità. In una danza potenziata e trasfigurata, che mette in questione gli orizzonti dell’arte, la sua capacità di contribuire a costruire un’utopica, necessaria, socialità futura.

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