Torino: tre pezzi sull’amore e l’identità
L’amore, che prova a superare ogni barriera. Il blocco del corpo, e il suo donarsi, il suo peso, l’esaltazione e lo strazio in guerra. L’identità, il guardarsi e l’essere guardati, il peso dei pregiudizi sociali e di genere. Tutto questo si può vedere fino a domenica 11 maggio in tre diversi spettacoli a Torino: La gatta sul tetto che scotta di Tennessee Williams con la regia di Leonardo Lidi al teatro Carignano per lo Stabile; Come nei giorni migliori di Diego Pleuteri, sempre con la regia di Lidi e la produzione dello Stabile; Giovanna D’Arco di Paolo Costantini con Federica Rosellini, al teatro Astra, una produzione Teatro Piemonte Europa (Tpe).
La gatta sul tetto che scotta
Non immaginatevi una grande casa coloniale, di ricchezza ostentata, del Sud degli Stati Uniti. Non pensate a Paul Newman e Liz Taylor nel film di Elia Kazan, né a letti dorati, né al bacio finale tra Brick e Maggie, “la gatta”. Leonardo Lidi torna a Tennessee Williams, di cui aveva già messo in scena un clownesco Zoo di vetro nel 2019, dopo l’esperienza della trilogia čechoviana (Il gabbiano, Zio Vanja, Il giardino dei ciliegi) conclusa proprio in questa stagione. Williams è collegato per più di un filo al drammaturgo russo: radiografa, fino a scarnificarne all’osso l’immagine, la famiglia, nido di odi, di ipocrisie, di arrivismi, di interessi nascosti sotto le maschere dell’affetto, dell’educazione, del rispetto. Il regista piacentino, portando Čechov e Williams a durate sotto le due ore, rende loro agilità contemporanea, collegando quei ‘padri del teatro’, con la loro maggiore ‘cattiveria’, alle fiction d’oggi.

Una bambina. Sul lato destro del proscenio, a sipario chiuso, in un’opera in cui si parla di una coppia con molti figli e di un’altra senza prole. Va al centro e canta una canzone. Poi il gran telo di velluto del teatro Carignano si apre e il candore della scena è abbacinante. Riproduce una stanza luminosa e asfittica, tutta chiusa, di marmo bianco, appena percorso da vene più scure. Un sepolcro splendente (“imbiancato”?).
Irrompe Margaret, Maggie, la gatta, come un felino su un tetto rovente in una famiglia che sente ostile, con un marito alcolizzato. È incalzante, nervosa, Valentina Picello, che per mezzora sembra percorsa da un respiro unico, una voce ansimante, ‘cantante’, che si fa largo, sparata in faccia a Brick (Fausto Cabra), infortunato, alcolizzato, in un pigiama ridotto a maglietta e mutande, con una gamba fasciata, claudicante, sostenuto, ogni tanto da una stampella, che più spesso gli sottraggono. In un angolo, in primo piano o volteggiante in scena, a volte, la bambina rappresenta i cinque figli del fratello Gooper (Giordano Agrusta) e della cognata Mae (Giuliana Vigogna), mostriciattoli “senza collo” dice Maggie, progenie di una famiglia che continuamente rimarca l’assenza di figli dell’altra coppia.
Soprattutto in scena, a manovrare uno specchio, una sorta di zoom sui volti dei personaggi, c’è un alto ragazzo con la barba (Riccardo Micheletti), in mutande. Sembra un servo di scena, con la funzione di indirizzare l’attenzione dello spettatore verso i volti, essenziali nelle didascalie del testo, con i loro sguardi, in una storia di morte e di arrivismo che mostra i crepacci, i terremoti, dell’istituzione familiare.
Gooper, la moglie e i bambini sono convenuti per il compleanno del vecchio Papà di Brick e Gooper (Nicola Pannelli). In realtà sono lì perché sanno che il patriarca è affetto da un tumore maligno e presto morirà, e vogliono conquistarsi la successione alla tenuta, immensa, messa su dal nulla dal vecchio, grande quanto una regione, fertile come le terre bagnate dal Nilo. Ma c’è un’altra morte che pesa, quella di Skipper, amico fraterno di Brick, l’università insieme, poi la scelta di darsi allo sport professionista. Un rapporto che aveva dato adito, nella gretta provincia puritana, a sospetti di omosessualità, messi a tacere da Skipper con un patetico, mal riuscito tentativo di fare sesso con Margaret, e sensi di colpa che avevano portato lui al suicidio e Brick a chiudersi a riccio, a bere, bere, a fare cose scriteriate come una corsa a ostacoli ubriaco, che gli aveva fatto rompere la gamba.

Tra Maggie, in sottoveste celeste, fiammeggianti capelli rossi e corpo bianchissimo, speso totalmente nella passione e nella furia, insofferente del clima ‘familiare’, irruente, esposta al massimo emotivamente, e l’assente Brick, spesso raggomitolato con la sua bottiglia, si insinua proprio lo spettro di Skipper. Ecco chi è quel giovane, simile a barbuto eroe greco, che appare in quasi tutte le scene, muto, mentre nel testo originale è solo un ricordo. Lidi lo mostra sempre presente in questa Gatta sul tetto che scotta, testo del 1955 di Tennessee Williams, varie volte rimaneggiato dall’autore e dal primo regista, Kazan, per annebbiare l’omosessualità più o meno latente che lo percorre, del tutto ignorata nel film con Newman e Taylor (l’America puritana e i nostri puritanesimi). Lidi è regista pop, che ama coricarsi con i classici sotto il cuscino e farli diventare sogni (o incubi) contemporanei, pieni delle nostre ossessioni sociali e immaginarie. Ama rovesciarli, i classici, rovistarli, contaminarli, per estrarne le linfe che ancora possono nutrirci, gli odori che riescono a inebriarci, le ragioni che possono muoverci a commozione o a indignazione. Allora allestisce intorno alla disperazione alcolica di Brick una lapide, anzi un vero e proprio sepolcro per l’amico, un sacello dove il suo spettro appare vivo e distante insieme, notando come la parola spettro abbia la stessa radice di specchio e di spettatore, quel guardare che è proprio del pubblico teatrale, ma che può essere anche un guardarsi fuori o uno scrutarsi dentro, una relazione con le proprie ombre.

Quell’ambiente marmoreo non rappresenta la casa coloniale di esibito dubbio gusto della remissiva, bene in carne, Mamma (Orietta Notari), e dell’arricchito Papà, la luce del Sud dalle parti del Mississippi. Lo dichiara il regista in una bella conversazione con Paolo Giordano, nel programma di sala dello spettacolo: è una lapide a un affetto antico, di atleti, con sfumature erotiche, omoerotiche. Ed è un sepolcro di sentimenti nascosti dall’ipocrisia familiare, che esploderanno nella festa di compleanno di Papà, fino a un confronto aspro tra il vecchio e Brick, in una scena che si riempie di bottiglie vuote, portate da Skipper, con i palloncini di compleanno che calano dall’alto e invadono tutto, con la felicità di una falsa, consolante, diagnosi, che dichiara non esserci tumore maligno, subito smentita alla fine della resa dei conti col padre dal figlio e dal dottore, lo stesso Skipper perfettamente vestito, con il volto coperto da un tessuto nero che ne fa un annunciatore di morte, in una degradazione dei rapporti, spinti a esplodere, fino a un grottesco presepe vivente intorno a Brick ubriaco e a Mamma, affranta, disperata. Con (la falsa) rivelazione finale di Maggie di essere incinta.
Perché il contrasto tra le famiglie dei due figli era anche tra la fertilità di Mae, che aveva sfornato i cinque “mostriciattoli senza collo”, e l’infertilità di Maggie o la non volontà di figliare di Brick e di lei. Ancora Lidi, nel programma di sala: “All’incirca due anni fa ho letto il virgolettato di una senatrice. Sosteneva che l’aspirazione massima di una donna dovrebbe essere di diventare madre”. Era (è) una senatrice di Fratelli d’Italia. E questo è uno spettacolo, colorato (gli azzeccati costumi sono di Aurora Diamanti, la scena ‘concettuale’ di Nicolas Bovey), disperato, feroce contro l’oscurantismo.
La bella traduzione è di Monica Capuani: dura in certi passaggi, è capace di ritrarre personaggi fattisi da sé o arrivisti con sfumature linguistiche che vanno dalla volgarità al linguaggio avvocatesco, dall’affettato bon ton all’esplosione di umori, per rendere una molteplicità ancora maggiore, dialettale, dell’originale. In quella scena di marmo, palloni di football americano, pigiami, sottovesti, abiti con cravatta, una giovinetta simile a un trickster o a incarnazione dell’ossessione per la mancanza di figli (Greta Petronillo), un prete che raffigura un’altra delle parti ipocrite della società (Nicolò Tomassini) e poi specchi, bottiglie, palloncini portati via dal vento (suono di Claudio Tortorici) di un metaforico, turbinoso temporale interiore che incrina la festa, con attori meravigliosi che danno sudore, dolore, entusiasmo, ipocrisia, disperazione ai personaggi. In un ensemble sempre convincente, spiccano la furia e la passione avvolgente di Valentina Picello, la distanza ferita di Fausto Cabra, la speranza e il dolore fatti corpo pesante sotto un vestito luccicante di Orietta Notari, la possanza da antico patriarca esposta all’oltraggio della vita di Nicola Pannelli.

Come nei giorni migliori
È una commedia d’amore. Entusiasmante e amara come tutte le storie d’amore. A e B, oppure Jessica e Billy si incontrano perché uno dei due ascolta di nascosto la seduta di psicanalisi dell’altro. Litigano. Si ritrovano, si ritrovano ancora. Si innamorano. Si baciano. Giocano a paddle. Si presentano in famiglia. B segue le proprie aspirazioni, A sembra non averne altre che passare una vita tranquilla. Litigano, perché nelle coppie bisogna litigare. Litigano perché uno dei due tradisce l’altro. Poi si ritrovano. Si buttano l’uno sull’altro. A e B sono due uomini, ma questo non è importante. È importante, come scrive il regista, sempre Lidi, che sono “un Romeo e una Giulietta senza balcone”.
Come nei giorni migliori è una commedia dal ritmo serrato, con le scene che passano da una all’altra senza soluzione di continuità, aprendo in continuazione situazioni differenti, in uno spazio riempito solo dai corpi dei due fenomenali interpreti, Alfonso De Vreese e Alessandro Bandini. C’è Carver in questa storia scritta da un autore non ancora trentenne, Diego Pleuteri (Di cosa parliamo quando parliamo d’amore?), ci sono Čechov e Woody Allen, i numi tutelari di Lidi. C’è la voglia di portare subito in scena un testo nuovo, indiavolato, umano, un vero godimento per lo spettatore. Uno specchio nel quale rivedere le nostre entusiasmanti o smarrite dinamiche d’amore, fino all’addormentamento, l’uno nelle braccia dell’altro, davanti alla televisione.
Le scene, i costumi e il suono sono dei consueti collaboratori del regista, gli stessi della Gatta. In tournée al teatro India di Roma dal 14 al 25 maggio e al Franco Parenti di Milano dal 27 maggio all’8 giugno.

Giovanna d’Arco
Federica Rosellini è molto di più e qualcosa di meno di un’attrice. È una forza della natura che invade il palcoscenico per scavarsi dentro, per donarsi, per sprecarsi, per bruciarsi come l’attore portatore di fuoco di cui parlava Appia, come quello del teatro della crudeltà di Artaud. È lei ed è il personaggio. Lei nel personaggio. Un autore non ancora trentenne, Paolo Costantini, le fornisce una partitura monologante da riempire con la sua energica e delicata, smarrita e furibonda presenza. In Giovanna d’Arco è una sciamana, percorsa, invasa, trasportata dalle voci che provengono dal grande albero al centro della scena. Un albero che lei stessa smantella dall’interno, percorsa da quelle voci. Lo trasforma in una rosa di legni esplosi, prova a frantumarne i tronchi con un’accetta nella furia della guerra che travolge i corpi, li massacra, li lascia giacere in decomposizione. Alla fine quella stessa legna la riunisce in una catasta, quella del rogo davanti al quale abiurerà, per lanciare un ultimo grido contro la società che la condanna perché donna travestita, trasformata in uomo, fuori dal ruolo, donna combattente.
Tutto questo, in breve, non rende appieno la temperatura dello spettacolo, della performance fisica di Rosellini, che inizia deglutendo, con apnee, come nodi in gola che vorrebbero eruttare e rimangono ingolati, diventano rauchi spasmi, fino a quando le voci dell’albero delle fate non la pervadono e il monologo diventa discorso doppio, tra lei e le voci, che sono ugualmente lei, un’altra parte di lei, come lei è la guerriera in armatura, la donna smarrita, la vergine esaminata nelle parti intime, come lei che si aggira a busto nudo con l’accetta tra cataste di morti mentre i vincitori festeggiano con fanfare e la corte “amoreggia, balla”.
Il dolore dell’essere chiamati, fino a non essere: “Non sono di nessuno. Io sono le mie voci. Credete davvero che io abbia un corpo?” afferma la Pulzella, meravigliata, disgustata da quel soprannome, quell’etichetta che nega il suo essere. E lei cerca continuamente di affermarsi, come nel momento doloroso dell’abiura, prima del rogo. Un silenzio, un pianto, un urlo...
E ancora: “Eccolo il fiume di fuoco che ho nel cuore. Non ho più paura. E tu vieni, albero, croce, rogo. Lascia che venga appiccato il fuoco alle tue fascine. Ho provato a contenerlo questo mio fiume ma non posso, non voglio più. No. Non rinnego niente. Non rinnego questa mia Eresia. Bruciatemi. Bruciatemi cazzo”. Uno, due spari, uno, due tuoni di rabbia, di ribellione.
Lo spettacolo, con scenografia e costumi Alessandra Solimene, luci di Marco Guarrera, suono di Dario Felli, regia dell’autore, girerà nella prossima stagione. Lo aspettiamo per vederlo e rivederlo.

Attori, autori, registi
La regia è morta, si continua a ripetere. Ed è vero, se si pensa a come si era delineata dal dopoguerra alla fine del secolo scorso. Oggi sembra più viva che mai quando riesce a essere alchimia con l’autore e gli attori, quando diventa progetto, ricerca comune. L’attore fa marciare il teatro. Il regista offre la sapienza dello sguardo, dello specchio, dello spettro, di ciò che sta dietro, in profondità. Meglio ancora se è capace di muoversi tra invenzione di scrittura e dialogo con chi la incarnerà, come fa il giovane Costantini, se dà fiducia a nuovi scrittori e intanto continua a scavare nel repertorio, rendendolo vivo, come fa Lidi, con Pleuteri, Čechov e Tennessee Williams. Cercando d’inventare un teatro a misura dello spettatore d’oggi.
L’ultima immagine, della Gatta sul tetto che scotta, è di Luigi De Palma.
