Marente de Moor / Le lotte di un’anima

2 Giugno 2019

Un romanzo di spade sguainate, di parate e affondi, in cui oltre alle lame delle sciabole e alle sottili punte dei fioretti, affollano le battaglie interiori di una giovane donna. 

È la prima opera tradotta in italiano per Castelvecchio Editore di Marente de Moor, uscita nel 2010, grazie alla quale la scrittrice olandese si aggiudica, nel 2012, l’ako literatuurprijs, uno dei più importanti premi letterari olandesi; nonché, due anni più tardi, il Premio letterario dell’Unione Europea, fra i cui vincitori italiani nel corso degli anni ricordiamo: Daniele Del Giudice con Orizzonte Mobile (2009), Emanuele Trevi con Qualcosa di scritto (2012), Lorenzo Amurri con Apnea (2015).

In effetti il contesto storico del romanzo affonda direttamente nella culla dell’Europa, nei ricordi della Grande Guerra ormai conclusa, e nei primi zampettii diabolici del Terzo Reich, che si muove come un ragno, minaccioso nel romanzo. La strategia narrativa impiegata dall’autrice è quindi comune: attraverso una narrazione privata si risale a una dimensione storica. Le due poi si biforcano e si intrecciano mutualmente.

 

Nel 1936 il medico olandese Jacq invia sua figlia diciottenne in Germania nella tenuta di campagna di un vecchio amico, Egon Von Bötticher. Questi è un abile spadaccino e vecchio soldato, invalido di guerra, scavato sul volto da una larga cicatrice, al quale l’amico chiede un favore per la figlia: istruirla nell’arte della spada. Da parte sua, la giovane Janna, intimorita e affascinata dalla malconcia figura di Von Bötticher, non tarda a cadere preda di una potente attrazione. 

«Si potrebbe dire che Von Bötticher era sfigurato, ma bastò una settimana perché non notassi più la sua cicatrice. Ci si abitua così presto ai difetti esteriori. Perfino chi è affetto da deformità atroci può avere fortuna in amore, se trova qualcuno che al primo sguardo non bada alla simmetria. Il più della gente ha però, in spregio alla natura, il vizio di dividere le cose in due metà che devono essere il riflesso l’una dell’altra. Egon Von Bötticher era bello, la sua cicatrice era brutta.» (16)

Nel corso del libro, slargandosi come un’intramatura, si trascina nel rapporto fra i due uomini un fondamentale irrisolto, che Janna si preoccupa di sgrovigliare curiosando nel cassettino delle lettere di Von Bötticher, leggendo vecchi messaggi scambiati fra i due. Il mistero sarà gradualmente sfittito, le lettere porteranno gradualmente a galla quei fatti che rattopperanno i vuoti intenzionalmente voluti dall’autrice per generare una tensione narrativa.

 

In questo modo, incastonate lungo il testo, le trascrizioni delle lettere arrivano a creare una seconda dimensione: alla storia vera e propria di Janna nella tenuta di Raren si contrappone un tempo fossile, che dalla carta affiora nel momento in cui lo si interpella, come un’iscrizione antica decifrata su una parete.

«Tutte quelle cose che per gli adulti erano ormai superate, i ricordi che avevano raschiato malinconicamente fino a lasciare soltanto una crosta secca, per me erano ancora fresche e odoranti.» (169)

 

 

È la lettura di Janna, attenta e curiosa, che riporta in vita, con freschezza e odore, quello che, ripiegato in strati ingialliti di carta, apparteneva a un passato che tutti volevano dimenticare. Si tratta di un incontro che si regge su una fondamentale congiuntura: l’unico modo per rivivere il passato è farlo con gli occhi di oggi. Come il caso di chi scrive un diario e chi poi lo leggerà, le parole lette permettono di captare lo scenario che si allarga e si ingigantisce dietro le vite di chi le ha scritte. È il caso noto di Anna Frank, o anche della meno ricordata Etty Hillesum, anche lei olandese, straordinaria scrittrice, vittima di Auschwitz nel 1943. 

Le parole lette da Janna e scritte dai due uomini hanno fermentato nel tempo: ed è grazie a lei che quei fatti sparpagliati su pagine secche hanno potuto rivivificare il senso di un passato che sembrava estinto. In questo modo un evento può sopravvivere alla stagione nella quale è sfiorito, grazie a chi, cogliendone il ricordo, semina nel proprio presente il bisogno di stabilirci un contatto.

 

Allo stesso tempo, fuori dalla tenuta di campagna dove è narrata la storia di Janna, non smette mai di ribollire e armarsi quell’altra Storia: le notizie del Führer penetrano striscianti, formano una nebbia che grava sulla vicenda. Janna raccoglie opinioni, si costruisce un senso di appartenenza al proprio tempo. Ma è giovane, impulsiva, impegnata a scandagliare più quello che avviene dentro di lei che non a preoccuparsi di quello che si svolge fuori. Le sue fantasie la tengono occupata, i suoi fantasmi la lasciano fluttuante; il suo rapporto con l’amore, nel frattempo, si svolge secondo diverse fasi: prima ne è illanguidita, si sente disorientata; poi si rinsalda, si fortifica: scopre la forza della propria seduzione.

La scoperta della passione si oppone come antitesi al continuo esercizio della spada. Da una parte Janna è ferocemente consumata dall’amore, da quelli che Etty Hillesum nei suoi diari definisce i «grandi moti che scompigliano lo spirito». Dall’altra si dedica con disciplina alla scherma, dove le stoccate sono fluide, le parate precise; opponendo quindi, nei 14 metri di lunghezza e 1,80 di larghezza della pedana, all’arruffato groviglio interiore, il tentativo di un ordine.

Il contrasto che situa da una parte la passione amorosa e dall’altra il rigore della scherma ingenera un attrito fecondo: ne deriva quella tensione conseguente a ogni divergenza che infonde nel testo un’impressione di vita. Un abile autore sa come far cozzare le parti che compongono la sua opera. Non si cerca un’armonia, piuttosto una discrepanza speciale dalla quale si schiuderanno quei conflitti che rendono pulsante una storia. In questo senso l’autrice ha molta cura nell’alimentare i propri contrasti. Dalla tensione fiorisce ricchezza, dai conflitti si aprono vie.

 

La scherma ha regole ferree; l’amore, come scoprirà Janna, concede l’illusoria impressione di un controllo, ma ne siamo travolti, possiamo solo esserne sommersi. Eppure anche il grande schermitore, sostiene il maestro Von Botticher, è in preda alla passione, ma questa è imbrigliata dall’istinto, e l’istinto viene calzato dalla tecnica: il risultato è una saggezza immanente del corpo, una cooperazione rapita di strategia e pulsioni che si risolve nel colpo vibrante sul petto dell’avversario. 

In questo modo, servendosi di un discorso costruito sugli opposti, de Moor propone una ricerca della misura. In quell’ondeggiare che, come un pendolo, ci porta da un estremo all’altro, esiste un equilibrio, o se non altro, un terreno in cui conoscersi e trovarsi fra le forze che dentro di noi battagliano. Lo schermitore trae dai suoi scontri conoscenza; Janna, davanti allo specchio, deve prima di tutto imparare a capire se stessa. Anche un romanzo di formazione, quindi, le cui parti più pregnanti valorizzano, in termini introspettivi, la voce di un personaggio che si applica alla scoperta di sé.

Etty Hillesum nei suoi diari costruisce una narrazione dell’io che trova nella forma-diario il mezzo attraverso cui esplorare i propri paesaggi interiori. «Una vera maturazione non può tenere conto del tempo» dice Etty, perché nella scoperta il tempo si annulla: esiste solo quello che intercorre fra chi osserva e chi è osservato. Ma in questo margine atemporale raramente la scoperta si svolge senza dissidi. Forze fra loro contrastanti si respingono; chi ospita tutto questo, con la buona volontà di portare chiarezza, spesso non fa che sollevare ulteriore polvere.

 

«Mi sento piuttosto come un piccolo campo di battaglia su cui si combattono i problemi (...). Quei problemi devono pur trovare ospitalità da qualche parte, trovare un luogo in cui possano combattere e placarsi, e noi, poveri piccoli uomini, noi dobbiamo aprir loro il nostro spazio interiore, senza sfuggire».

Così scrive Etty Hillesum nel 1941, così vive il personaggio di Janna in La Vergine Olandese nel 1936. Cosa aleggia su queste date è raggelante, indelebile mentre ascoltiamo le loro voci e immaginiamo le loro storie. Janna porta avanti i propri conflitti così come Etty Hillesum se ne prende cura. C’è quindi, a tutti gli effetti, non solo un interesse ma una manutenzione di tutto quello che scompiglia; manutenzione, come già detto, perseguita anche dall’autrice: perché se è vero che ogni libro scritto ha qualcosa di una guerra contro se stessi, come scrive de Moor, «in pochi luoghi regna la pace come in un campo di battaglia a battaglia conclusa».

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