Che ci fa Socrate a cavallo di un bastone?

23 Settembre 2022

“Facciamo che io sono… e che tu sei…”. Quante infinite volte è stata pronunciata questa frase da quando siamo divenuti sapiens! In quel gioco si realizza forse, oltre allo sviluppo e alla crescita di ogni essere umano, l’unica effettiva pratica della verità che ci consente la nostra condizione. Sì, perché quell’altra verità, non quella nella quale effettivamente ci identifichiamo fingendo, ma quella che continuiamo a cercare vivendo, ci dona senso nell’atto stesso del cercarla, e si relativizza e si allontana se vogliamo fissarla una volta per tutte, avendo nel farsi cercare svolto il suo compito. Quel vero, infatti, come ci ricorda Aldo Giorgio Gargani, verrà e sarà la conseguenza tardiva di un gesto sociale che l'ha preceduto, che gli ha preparato il posto da riempire insieme all'ordine della sua costituzione.

Nel rapporto tra la finzione, intesa come dare forma mettendo in scena, e la verità e le sue pratiche, si genera ogni processo di individuazione, si crea la via mediante la quale diventiamo noi stessi. Il movimento di attraversamento della cornice tra finzione e verità è generativo di individuazione. Socrate, cavalcando un bastone, come ci riferisce Valerio Massimo, entra nella cornice del gioco dei suoi figli: “Socrate sta, in tal modo, al posto di sé stesso, proprio perché è capace di stare al posto di un altro”, scrive Alfonso Maurizio Iacono [Socrate a cavallo di un bastone, manifestolibri, 2022; p. 17].

Certo, la finzione merita un’operazione di valorizzazione semantica che la sottragga finalmente all’associazione di senso comune con il falso, con la bugia. Accade qualcosa di simile all’illusione, che è schiacciata a sua volta sulla banalizzazione dell’inganno, della falsa credenza o delle aspettative infondate, mentre a sua volta indica la nostra distinzione a giocare dentro l’esperienza con gli altri e gli eventi traendone possibilità estensive rispetto alla consuetudine. L’illusione, come ricorda lo stesso Iacono, ha per Donald Winnicott il valore cognitivo del riconoscimento della realtà, e se è associabile anche all’inganno, è evidente che in tanti casi, come nel gioco teatrale o cinematografico, perdersi entro i suoi confini porta alla verità. Anzi è proprio nello sviluppo della capacità di distinzione tra illusione e inganno che si concretizza lo sviluppo dell’autonomia di una bambina o di un bambino. Citando Winnicott: “il compito della madre è di disilludere gradualmente il bambino, ma essa non ha speranza di riuscire a meno che non sia stata capace da principio di fornire sufficiente opportunità di illusione” [D. Winnicott, Oggetti transizionali e fenomeni transizionali, in Gioco e realtà, Armando, 1974; p. 38]. 

Alfonso Maurizio Iacono esplora proprio questioni simili, da anni, e non lo fa da solo, ma con le bambine e i bambini mette Socrate a cavallo di un bastone, non insegnando filosofia ai bambini, né facendo filosofia per i bambini, ma vivendo filosofia con i bambini.

Il tema del libro è duplice: mentre si sperimentano le azioni raccontate, prende corpo un’ipotesi che è l’interrogazione principale del libro, e riguarda il rapporto che il fingere, inteso appunto come un dare forma mettendo in scena, intrattiene con la verità e le sue pratiche.

Quando la cosa in sé è stata sollevata da un sapiens da dove se ne stava appiattata facendo finta che fosse altro da quello che era sempre solamente stata, quella cosa non è più stata la cosa in sé, ma tutte le infinite cose che l’immaginazione anticipatrice e le variazioni finzionali l’hanno fatta diventare e continuano a farla diventare. Non perché un pezzo di selce abbia smesso di essere un pezzo di selce nel momento in cui è stato trasformato in una punta acuminata per uccidere una preda o un nemico, ma perché – ed ecco l’originale pensiero a cui Iacono sta dedicando una vita di ricerca – un mondo intermedio abitato da chi ha fatto come se un pezzo di selce fosse un’arma gli ha consentito di creare e inventare l’inedito, quello che prima non c’era. È abitando l’ambiguità – ambi vuol dire due – che tiene insieme irriducibilmente le polarità, che si crea il possibile, colto, come dice Iacono, con la coda dell’occhio. Sappiamo oggi che quella possibilità di abitare contemporaneamente due dimensioni, corpo e figura, di entrare e uscire dalla cornice, si è generata evolutivamente nell’interazione tra biologia e cultura. Siamo in grado di definire che tutto sia accaduto nei tempi biologici che ci riportano a circa un milione e trecentomila anni fa, con lo sviluppo dei lobi prefrontali del cervello e la progressiva affermazione del comportamento simbolico fino all’affermazione di homo sapiens. La possibilità di intravedere un’arma in un pezzo di selce non è il superamento del vincolo del pezzo di selce e della sua struttura materiale, ma è l’elaborazione combinatoria di quel vincolo. Anche se, divenendo il padrone del pianeta, secondo la definizione di Ian Tattersall, noi umani abbiamo teso e tendiamo a praticare senza limiti la possibilità, dimenticando o negando il vincolo. Con le conseguenze che sono sotto gli occhi di tutti. Prigionieri di una cornice, che ci ostiniamo a confermare, non sappiamo intravedere gli effetti che il modello di sviluppo che ci siamo dati ha sulle stesse condizioni per continuare a darselo e, soprattutto, sulle condizioni della nostra stessa vivibilità. Ecco dove va a finire l’importanza del gioco e del vivere filosofia con i bambini di cui si occupa il libro di Iacono.

Se cavalcare un bastone ha senso perché fa parte del gioco della sostituzione, ciò accade perché un bastone è come un cavallo e il bastone è un cavallo: lo è dentro il mondo dei bambini, i quali sanno molto bene che il bastone non è un cavallo, ma sanno anche che se si mettono d’accordo fra loro, lo può diventare. Che lo diventi, e lo diventa se c’è consenso, può voler dire almeno due cose: che sarà poi impegnativo uscire dalla cornice “il bastone è un cavallo”; che sarà proprio la capacità di uscire da quella cornice uno dei principali frutti generativi del gioco educativo e dell’apprendimento di libertà e democrazia di chi gioca quel gioco. 

Imparare la capacità di stare al posto di…è probabilmente una delle principali esperienze di apprendimento della libertà e delle relazioni con gli altri e il mondo. Quando Gregory Bateson, in uno dei suoi percorsi vertiginosi, si e ci domanda quale relazione esista tra un sacramento e la democrazia, ci impegna a giungere a riconoscere il fondamentale ruolo della delega. Inviare un altro al posto nostro o essere inviati al posto di un altro, o collocare con l’immaginazione qualcosa al posto di qualcos’altro, facendo “come se”, apre uno spazio intermedio frutto della finzione (fingo: immagino, formo immagini), che genera figure in un processo di mimesis, come ha mostrato magistralmente Erich Auerbach, [Studi su Dante, Feltrinelli, 2017], sui cui esiti associabili in epoche e luoghi diversi si è concentrata l’ossessiva ricerca di Aby Warburg. 

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Esiste una relazione stretta tra finzione e differimento. E qui gli esiti della ricerca di Iacono si incontrano con uno dei percorsi più densi e profondi degli studi di psicologia del ‘900, il cui inestimabile valore persiste e si amplifica col tempo, il lavoro di Lev S. Vygotskji. Secondo l'analisi anticipatrice, validata nel tempo dalla ricerca sperimentale, che Vygotskji mise a punto con il suo straordinario lavoro di ricerca e applicazione, e che documentò in alcuni saggi che ora si possono studiare grazie alla cura di Luciano Mecacci, in un importante libro, La mente umana. Cinque saggi, [Feltrinelli, 2022], lo spazio di sviluppo prossimale svolge almeno tre funzioni nel sostegno all’evoluzione dei sistemi psicologici. La prima riguarda la valorizzazione della rilevanza di tutto quello che è prossimo, vicino, a disposizione del movimento e fonte di azione, incluso il ruolo che svolgono gli oggetti nei processi di attraversamento delle cornici. La seconda riguarda l’incidenza dello spazio come ambiente per il movimento, per le relazioni prossimali di apprendimento e per lo sviluppo del pensiero; la terza, ma certo non la meno importante, ha a che fare con la preparazione del prossimo esito generativo possibile, con lo sviluppo prossimo che la finzione e l’immaginazione preparano.

Le assonanze e le corrispondenze tra la ricerca di Iacono e quella di Vygostskji sono entusiasmanti e lo stesso Iacono, in uno scambio personale, ha riconosciuto la particolare importanza dei saggi dello studioso russo, notando solo di non aver potuto dialogare con il loro contenuto nello scrivere il libro, in quanto ha concluso Socrate a cavallo di un bastone immediatamente prima che il libro che li raccoglie fosse pubblicato.

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Implicati sono in particolare i processi che connettono azione-percezione-apprendimento. A supportare questa rilevanza della prossimalità e degli oggetti sono più recentemente le teorie di James J. Gibson, Un approccio ecologico alla percezione visiva [Il Mulino,1999], con la fenomenologia dell’affordance; quelle evidenze scientifiche sono oggi validate dagli studi, tra gli altri, di Lambros Malafouris sui processi mediante i quali le cose e gli oggetti danno forma alle menti [How Things shape the mind. A theory of material engagement, MIT Press, 2022]. Il material engagement si configura come una sorta di “fidanzamento” tra noi e le cose, attivando pratiche di apprendimento, processi di finzione, capacità di formare immagini, immaginazione e figure, con effetti mimetici che costituiscono l’impasto di apprendimenti e percorsi di crescita di particolare efficacia.

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Accanto a questi fattori e integrata con essi, ad entrare in gioco è l’empatia dello spazio. Quel processo che riguarda la formazione e lo sviluppo delle nostre menti, caratterizzate dalla neuroplasticità, che è interconnessa all’intersoggettività, e dallo sviluppo contingente e situato in un contesto. Oltre che embodied, infatti, le nostre menti sono embedded e la loro collocazione in un contesto ne garantisce le possibilità di estensione. Come ha mostrato in un pionieristico lavoro di ricerca Harry Mallgrave, gli artefatti situati in uno spazio e le componenti naturali dello spazio stesso non sono un'astrazione concettuale, ma determinano il senso e il significato del nostro essere nel mondo, mentre concorrono a costruire apprendimenti, conoscenze e orientamenti di valore per degli esseri territoriali come noi umani [Harry F. Mallgrave, L’empatia degli spazi, Raffaello Cortina Editore, 2015].

È lo spazio, e i rapporti che riesce a contenere con gli altri e gli oggetti, a creare le condizioni di quella tensione rinviante che consente a ognuno di noi, in particolare nelle fasi di sviluppo infantili e adolescenziali, di valorizzare le capacità generative e creative del pensiero, fino ad avvicinarci a una relazione estetica col mondo e, quindi, alle soglie della bellezza intesa come estensione delle proprie possibilità per vie che senza quelle esperienze non si verificherebbero [U. Morelli, Mente e Bellezza. Arte, creatività, innovazione, Allemandi & C, 2014, 2° ed.]. 

Il procedere incalzante di Iacono convoca una ben definita comunità immaginata di esponenti del pensiero, con cui l’autore intrattiene una relazione che attraversa tutta la sua produzione, che vanno da Platone a Bateson, da Vico a Winnicott, per evidenziare un aspetto distintivo e cruciale dell’umana condizione: la capacità di immaginare quello che ancora non c’è abitando l’ambiguità dei mondi intermedi. Per questa via la sua ricerca storico-filosofica si spinge efficacemente nell’analisi dei processi psicologici fino a connettersi con le neuroscienze, in particolare mediante un sapiente collegamento con la risonanza incarnata (embodied simulation) come processo da cui, nell’intersoggettività, si origina l’individuazione [Vittorio Gallese]. 

In quelle dinamiche si annidano allo stesso tempo le cause della minorizzazione e dell’esclusione, del conformismo e dell’alienazione. 

Iacono ha organizzato l’approfondimento dei suoi percorsi di analisi in sedici capitoli progressivi, riprendendo temi e ricerche che porta avanti da tempo. Si potrebbe sostenere che il libro è un invito appassionato a non dimenticare di essere stati bambini. Sono i bambini, infatti, che quando imitano, quando diventano personaggi, non si perdono affatto nelle loro sembianze, anzi si addestrano a cambiare per rimanere sé stessi. E non solo entrano nei mondi imitando altri mondi, ma li trasformano creativamente.

Un’evidenza costante del lavoro di Iacono è che abitare i mondi intermedi e cogliere le differenze con la coda dell’occhio sia la condizione dell’individuazione e dell’emancipazione soggettiva e collettiva. L’azione educativa dovrebbe fare tesoro degli esiti di queste importanti ricerche, al fine di scegliere la strada della valorizzazione e del potenziamento del vivere filosofia. L’attenzione a valorizzare le emozioni di base della ricerca, della giocosità, della cura, può essere la via per lo sviluppo delle capacità di differimento, di esercizio del dubbio, di attraversamento dei confini del conformismo. Seguendo ancora una volta Vygotskji, se il gioco si forma in quella condizione dello sviluppo nella quale si manifestano le tendenze non realizzabili e i desideri per il momento non esaudibili, proprio in quella tensione derivante dall’abitare mondi intermedi può nascere l’anelito di libertà e la ricerca dell’autonomia contro la minorità. Su questo aspetto della cruciale questione Iacono si era espresso in un importante volume già precedentemente [Autonomia, potere, minorità, Feltrinelli, 2000]. 

Il problema irrisolto, come Iacono lo chiama, è uno dei nostri principali problemi: le difficoltà di percepire la cornice, cioè il confine che permette di distinguere un universo di senso da un altro, un contesto da un altro, come accade a Don Chisciotte che confonde i burattini con i cavalieri, sono anche le nostre difficoltà. Non riuscire a vivere l’autonomia delle scene nel teatro delle nostre vite e confonderle con il mondo con cui siamo mimeticamente in relazione, pregiudica la nostra libertà. “Quello di accettare mondi autonomi che sono uniti e nello stesso tempo separati da altri mondi è il problema irrisolto di Don Chisciotte. È invece ciò che apprendono i bambini quando giocano”. Così Iacono conclude il suo libro e, in fondo, ci suggerisce che il gioco e l’educazione, o forse i giochi educativi, sono pratiche di verità, ma anche pratiche di libertà. 

Così come non finiamo dove finisce la nostra pelle, perché siamo gli altri e siamo aria, acqua, terra, energia, allo stesso modo e per le stesse ragioni la nostra mente è relazionale ed estesa e in quell’estensione si individua, nel gioco dei mondi intermedi.

Anne Carson, mostrando ancora una volta come i poeti ci arrivano sempre prima, in La bellezza del marito. Un saggio romanzato in 29 tanghi, La Tartaruga, 2022], scrive:

“Immagina la mente che si muove sulla superficie piana / del linguaggio ordinario / quando all'improvviso / quella superficie si rompe o si complica. / Emerge l'inatteso. / Imitazione (in greco mimesis) / è in Aristotele termine generico per i veri sbagli della poesia. / Ciò che mi piace di questo termine / è la disinvoltura con la quale accetta / che ciò che affrontiamo quando facciamo poesia è errore, / l'ostinata creazione di errore, / la volontaria infrazione e complessità di sbagli / dai quali può sorgere l'inaspettato”. [cfr. Marilena Renda su doppiozero].

Appuntamento alla prossima finzione e alla prossima estensione: a quello che ancora non siamo e che possiamo diventare.

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