Alice Robb: non pensare, danza
Esiste un nesso inestricabile tra la danza classica e il controllo, e tra il controllo e la sopportazione del dolore. Qualche anno fa sono andata a teatro a vedere il Bolero di Ravel messo in scena dalla compagnia di Béjart. Da ex ballerina amo il balletto e vado spesso a vederlo, ma quella volta in particolare rimasi incantata davanti alla potenza di Luciana Savignano, che pur con il suo fisico etereo, visibilmente sottopeso, incarnava perfettamente la forza sensuale della musica di Ravel. Nella vulgata comune la danza è un’attività femminile, aggettivo da intendersi con una connotazione dispregiativa, che ha a che fare con la leziosità e la debolezza: niente di più inesatto. La danza classica è una disciplina durissima, e qualunque ballerino sa che per arrivare a esprimere quella grazia nella perfezione delle linee serve un ferreo controllo del proprio corpo e della propria mente, bisogna saper volare senza che lo spettatore percepisca la fatica, la tensione muscolare dietro ogni passo, o il dolore dei piedi che sfregano contro il gesso delle scarpe da punta. Praticare la danza classica significa soprattutto imparare a controllare il corpo e il suo dolore attraverso l’eleganza, scrive a tal proposito Zadie Smith in Swing time: “Io invece ero attratta dall’eleganza. Mi piaceva come nascondeva il dolore”.
È proprio lo stretto legame tra controllo e dolore, e la sua pervasività nella vita di ogni ballerina classica, che ne condiziona non solo l’aspetto fisico ma anche il carattere e la vita privata, l’oggetto dell’intenso saggio-memoir di Alice Robb, Non pensare, cara, pubblicato da 66thand2th nella bella e accurata traduzione di Flavia Gasperetti.
Alice Robb è una scrittrice statunitense che in questo suo secondo libro racconta un’esperienza autobiografica: a nove anni, subito dopo l’attacco alle Torri gemelle, mentre il mondo crollava con loro insieme agli equilibri internazionali, lei coronava il suo sogno di essere ammessa alla prestigiosa School of American Ballet di New York. La scuola è quella di George Balanchine, maestro indiscusso e indimenticato della danza classica, il cui metodo continua a essere insegnato con rigore nella scuola dove il suo viso campeggia, severo e ammonitore, sulle pareti di ogni sala. La gioia di essere riuscita a entrare in una delle più celebri scuole di danza della città dura poco: il tempo di qualche istantanea in body e calzamaglia con le sue compagne, e di prendere il ruolo di soldatino di stagno nella rappresentazione annuale dello Schiaccianoci, che qualcosa inizia a cambiare. Il corpo la tradisce. Alice Robb sta crescendo, e di colpo non è più in grado di controllare la linea dei fianchi in costante espansione, la crescita del seno, le cosce che si fanno più robuste. Una trasformazione che tocca moltissime ballerine quando diventano donne, e inammissibile in un contesto dove la bassa statura e il sottopeso sono qualità imprescindibili e dove si impara presto che la frase “devi allungarti” non è che un’elegante circonlocuzione per invitare a perdere peso, riducendo l’apporto calorico di ogni giornata tra le 500 e le 1000 calorie al massimo. Robb resterà fino all’età di quindici anni alla Sab, fino a quando quel mondo non inizia a rigettarla, a escluderla dai ruoli principali, e decide di abbandonare.

Ma la danza classica ha, sulla mente e sul corpo di chi l’ha provata, gli stessi effetti della nicotina: anche quando si smette, il desiderio di ballare resta tutta la vita. E come si fa a conciliare l’amore per quella disciplina che ha molto a che fare con una rigida forma di obbedienza e asservimento, al progressivo aderire al movimento femminista che trova la sua forza proprio nella disobbedienza a determinati parametri di sottomissione di genere?
“Dove abbiamo imparato a far parlare il corpo invece che usare la voce? In che modo tutto questo ha dato forma alle nostre idee su come debba essere una donna e sul rapporto tra i sessi? Come abbiamo fatto a conciliare il passato, e quel che resta del nostro amore per la danza, con la coscienza femminista che abbiamo acquisito nel tempo?”: è a partire da questa dicotomia che Robb inizia a interrogarsi su quel mondo spietato ma tanto amato, sulle sue dinamiche, sulla sua tossicità e la sua bellezza, e se si parla di saggio-memoir è perché l’autrice non si limita a ripercorrere la propria storia personale e quella delle amiche che con lei avevano frequentato la Sab, ma amplia il suo raggio d’indagine documentandosi sulle storie di alcune celebri ballerine americane e sul modo in cui ciascuna di loro si è rapportata al mondo della danza, rompendone gli schemi o adattandovisi fino all’annullamento di sé. Ma questo non è un libro solo per appassionati di balletto: qui la danza classica riflette su sé stessa con lucida consapevolezza, e Alice Robb ne amplia il raggio d’azione rendendola paradigma estremo di un concetto di femminilità che tocca, questo sì, da sempre, tutte le donne.
“La danza classica non è un universo a sé. È un laboratorio di femminilità […] in cui il tradizionale ideale di donna viene portato all’estremo. Gli aspetti che il balletto enfatizza – la bellezza, la magrezza, lo stoicismo e il silenzio, la sottomissione – sono ovunque qualità apprezzate in quanto femminili. Indagando la psiche di una ballerina possiamo comprendere le contraddizioni e le sfide con cui si confrontano oggi tutte le donne”: Non pensare, cara, prende spunto dalle narrazioni individuali per aprirsi a un universale che si interroga sui rapporti tra danza e femminismo, metoo e venerazione inconscia dei maestri, iperfemminilizzazione dei corpi e disciplina rigidissima, ruolo delle danzatrici come muse e soffitto di cristallo che vede un mondo agito e abitato dalle donne alla base, ma ai cui vertici le coreografe o le direttrici artistiche sono in una sparuta minoranza, offrendo al lettore molteplici spunti di riflessione e innumerevoli, complesse, domande per cui si fatica a trovare una risposta semplice e univoca.
“Non pensare, cara” è proprio la frase che Balanchine usava dire alle sue ballerine, la stessa che Robb si sentirà ripetere dalla sua insegnante di danza alla Sab: a una ballerina è richiesta come prima cosa l’obbedienza, la disciplina, le viene insegnato a non parlare ma a comunicare solo con il corpo, le viene insegnato che non importa quanto le scarpe da punta ti facciano soffrire e possano sanguinarti i piedi, quella che va mantenuta è la professionalità di quel sorriso nel dolore, è la leggerezza a coprire la sofferenza, è l’obbedienza ai dettami del maestro-coreografo. Balanchine stesso, racconta Robb, teneva le sue ballerine in un regime di estrema sottomissione psicologica, criticandone la minima variazione di peso, non elogiandole mai, soprattutto in pubblico, e poi ricompensando quelle privazioni scegliendo personalmente un profumo per ognuna di loro e, qualche volta, rendendole sue muse e mogli. Ne sposerà cinque, tutte molto più giovani di lui, tutte attratte da quel meccanismo disfunzionale di sottrazione-ricompensa, tutte consegnate volontariamente a quello stato di sottomissione, i polsi offerti, delicatamente incrociati, ma con lo sguardo fiero, la schiena dritta. È interessante notare come Robb individui nella danza e nel suo processo di iperfemminilizzazione dei corpi, in quella obbedienza quasi da caserma, un’estremizzazione delle richieste che la società da sempre impone alle donne: sii carina, sii gentile, sorridi anche se vorresti urlare, sopporta, obbedisci, stai al tuo posto.
Le ballerine, forse proprio per questa estremizzazione del rapporto tra corpo e comportamento, sono però creature fortissime nella loro magrezza, tenaci nella loro eleganza e incredibilmente volitive dietro i loro sorrisi. Per dimostrarlo, Robb ha studiato e poi raccontato nel suo libro le storie di alcune grandissime ballerine americane, tra cui Suzanne Farrell, che fu prima ballerina della Sab e ebbe la carriera rovinata dal suo rifiuto di avere una relazione con Balanchine, Misty Copeland, ex ginnasta e prima donna afroamericana a diventare etoile dell’American Ballet Theatre, Margot Fonteyn, così forte e tenace sul palco quanto sottomessa a uomini predatori e narcisisti nella vita privata.

Le loro storie affascinano per la cieca determinazione e la passione che le muove, ma in più di un punto ci si sente sopraffatti dalla rabbia leggendole, si vorrebbe scuoterle, dir loro di scappare, di salvarsi finché sono in tempo. Le cose però non sono così lineari, sembra suggerire Robb, e non esiste nessuna facile condanna o assoluzione di questo complicato universo. Per nessuna di loro, infatti, la danza ha significato unicamente una sconfitta, o una sofferenza, ma ognuna ha cercato un modo di essere sé stessa e stare nella danza, e vi ha trovato determinazione e fatica, umiliazioni e vittorie insieme.
Queste donne hanno scelto la danza classica e ne hanno accettato le conseguenze, avrebbero potuto fermarsi e invece hanno continuato a sottoporsi a diete estreme, competizione, orari massacranti e sacrifici per raggiungere i propri obiettivi con un’acribia vestita di grazia, ma hanno anche apportato piccole e significative rivoluzioni in un contesto estremamente rigido, cercando una loro personalissima via per stare dentro a un mondo che accoglie e rigetta al tempo stesso.
È un equilibrio non facile quello che si richiede alle ballerine, e somiglia davvero a quello che è da sempre richiesto alle donne in generale: quando nelle pubblicità ci invitano a buttarci sorridenti da un parapendio il primo giorno di ciclo, non ci stanno forse chiedendo di mascherare il dolore dietro la performance? “Le donne sono indotte a minimizzare il dolore e nascondere il proprio disagio. Se ammettiamo di stare male rischiamo di essere considerate delle ipocondriache o delle isteriche”. Quando ci viene chiesto di essere gentili, ubbidienti, composte, silenziose, sempre curate e disponibili, remissive, non si sta chiedendo forse alle donne di comportarsi come un corpo di ballo, perfettamente disciplinato e allineato? Le aspettative sociali investono la nostra sfera privata esattamente come la durissima disciplina della danza classica agisce sul corpo delle sue ballerine. Un maestro di danza che controlla l’alimentazione, la vita sentimentale e le gravidanze delle sue danzatrici, agisce come la società che controlla il corpo delle donne, stabilendone dettami e prescrizioni, sia estetiche che comportamentali: “una delle prime lezioni che le ballerine imparano è quella di mantenere un’espressione imperturbabile qualunque cosa succeda: mai lamentarsi, nemmeno con gli occhi. Abbiamo imparato a dissociare l’espressione del viso dal dolore dei piedi, a mantenere sempre un atteggiamento regale e sereno”.
Sul metodo e sul controllo del corpo si finisce così per giocare una partita che investe ogni aspetto della personalità femminile, di cui il mondo della danza offre un riflesso perfetto: le ballerine passano gran parte del loro tempo a valutare e osservare il loro corpo in body e calzamaglia allo specchio, a confrontarlo con quello delle altre, a giudicare severamente gli errori scorti durante un esercizio alla sbarra o durante una diagonale, alzando l’asticella della sfida con sé stesse e con le altre. La società che vuole le donne in competizione fra loro, magari per l’attenzione di un uomo, è la stessa che porta le danzatrici alla sbarra a sopportare il dolore perché lo sguardo del maestro le scelga.
Quella severa autocritica sul proprio corpo e i suoi movimenti sfocia spesso in una forma di dismorfia che è connaturata in maniera radicale nel mondo della danza con i suoi standard innaturalmente androgini, ma che ci racconta anche della dismorfia che la società tutta agisce sui nostri corpi attraverso la grassofobia o l’esaltazione della magrezza come canone estetico dominante, che permane nonostante la body positivity e la recente comparsa di corpi non conformi all’interno delle compagnie di ballo: “l’ossessione di una ballerina per il suo corpo è solo una versione più intensa di quello che tutte le donne provano – scrive Robb – […] E ci si aspetta che le donne non solo restino sempre magre, ma nascondano lo sforzo che ciò richiede”.
Da quest’anno insegno in un liceo coreutico. I miei studenti sono dei ballerini. Quando li vedo seduti tra i banchi, quasi sempre in tuta, le ragazze con i lunghi capelli raccolti in uno chignon, il portamento dritto, elegante, si vede che appartengono a una classe di danza. Sono educatissimi e rispettosi e tra loro c’è un’omogeneità anche nelle corporature, che variano per altezza ma sono tutte longilinee, filiformi. Anche quando nell’intervallo tirano fuori la merenda sono dei ballerini: nessuna focaccia o merendina, ma yogurt, verdure crude lavate e tagliate, insalate, panini con prosciutto e bresaola, molta frutta. Bevono sempre e solo acqua, ovviamente liscia. Il cibo è una delle prime cose che imparano a controllare insieme alla rotazione dei piedi nella prima posizione e al dolore. Eppure, quando ai miei studenti del coreutico è stato chiesto che indirizzo volessero prendere al triennio, se classico o contemporaneo, la maggior parte di loro ha risposto classico: ha scelto il rigore, la disciplina, la geometricità delle figure, eppure quando li vedo ballare non posso che osservare in loro l’espressione di una libertà ancestrale, selvaggia, incanalata nella bellezza delle linee, nell’uso sapiente e straordinario del proprio corpo.
Forse è questa la motivazione che si cela dietro l’amore per la danza classica, una passione che sembra non venire attenuata né intaccata in chi la pratica, neppure dalla consapevolezza di tutti questi controversi fattori.
Alice Robb riconosce che non tutto quello che porta la danza può considerarsi negativo: quella forma di sopportazione estrema del dolore si tramuta in una forma di resilienza, donando alle ballerine la capacità di andare avanti a dispetto di ogni sofferenza, anche nella sfera privata.
Quando è diventata una scrittrice, Robb ha compreso anche le ricadute potenziali del suo passato di ballerina classica sul suo mestiere: con la scrittura si è riappropriata della sua voce, ed è stata in grado di farla ascoltare al mondo grazie alla disciplina che le ha insegnato il balletto, la stessa che ogni autore dovrebbe possedere: la capacità di esprimere tutta sé stessa al massimo della forza e della potenza, come quando si è sul palco, di piegare la tecnica al servizio della creatività, ma anche di avere il necessario rigore che la scrittura impone e l’autocritica necessaria a editare e rieditare i propri testi.
Con questo libro Robb compie un atto d’amore per la danza analizzandola senza condannarla in toto, soppensandone limiti e lasciti, provando a reinventarla attraverso un esercizio di consapevolezza, il tentativo di salvare la tecnica liberandola dalla soggezione dei corpi, per tornare a ballare mossi solo dal puro amore per la musica.
Nella conclusione del suo memoir Alice Robb compie così un processo di riappropriazione semantica in cui quel “Non pensare, cara”, di Balanchine, viene consapevolmente rovesciato, per restituire al corpo la gioia pura della danza, quel tipo di estasi ancestrale in cui il non pensare tramuta la danza da atto di sottomissione in gesto politico, consapevole e libero, lo stesso che rivedo nei miei studenti quando salgono sul palco e iniziano a ballare, compiendo la loro magia: “la danza non è un divertimento. È una meditazione, una preghiera fatta con il corpo. È una ricerca della perfezione e un abbandonarsi all’istante presente”.
Quello in cui si smette di pensare per danzare, e basta.
