La porca miseria

8 Maggio 2023
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Cash Carraway, Foto Michael Wharley.

Cash Carraway. Proletaria irlandese inurbata a Londra. Madre single. Povera in canna, benché si ingegni in tutti i modi a far quadrare il bilancio per sé e per la figlia. Nessun paracadute familiare o sociale ad attutire la caduta in un’Inghilterra immediatamente pre-Brexit. I governi che ‘provvedono’ a lei – capeggiati da David Cameron prima (maggio 2010-luglio 2016) e da Theresa May poi (luglio 2016-luglio 2019) – non la prevedono. Entrambi conservatori, entrambi impegnati a combattere la povertà combattendo i poveri, hanno messo a punto strategie di gestione del bisogno che sembrano crearlo, anziché risolverlo. 

Chi è povero è, all’americana, uno che deve rendere conto della propria condizione. La società e le istituzioni, l’economia e la politica, il mercato immobiliare e il mercato tout court non ne sono responsabili. Si tratta di non fare le scelte sbagliate: niente figli se non si ha una casa o non si è in grado di mantenerli, niente uomini se non si sanno distinguere quelli giusti dai violenti, quelli che quando li informi che sei incinta ti chiedono se il figlio è loro e poi ti dicono che se non abortisci tu, ci pensano loro a farti abortire. E magari, come nel caso dell’autrice, le spaccano uno zigomo con un pugno ben assestato e la cacciano via senza neanche lo spazzolino da denti. Lei tanto ci è abituata, la madre l’ha buttata fuori di casa a sedici anni e il padre si è dato alla macchia ben prima.

Chi è colpa dei suoi mali, sembrerebbe suggerire la storia narrata da Carraway nelle sue “note dalla soglia di povertà” che in italiano portano lo splendido titolo di La porca miseria, pianga dunque se stesso e abbia la grazia di farlo sottovoce.

Carraway però non ci sta e, tra il novembre del 2018 e il marzo del 2019, ascoltando The French Inhaler di Warren Zevon, Yes dei Manic Street Preachers, Nightclub Jitters dei Replacements et al., raccoglie in un libro dalla scrittura genialmente incendiaria le picaresche avventure di cui ha tenuto quotidiana nota nei suoi quarantatré traslochi in dieci anni. Mentre passa da un rifugio per donne maltrattate a un ostello per madri single, da una serie di stanze o monolocali infestati da topi e blatte all’appartamento di lusso di un amico gay cui serve una ‘moglie in affitto’ per intascare l’eredità paterna, registra con tenacia e humour al vetriolo la ricaduta che le misure pubbliche hanno soprattutto sulla vita delle capofamiglia di classe operaia. Non si tratta infatti di “sfiga personale”, ma di una precisa “progettualità urbana”. Le capitali europee, e Londra in primis, mirano a bonificare il proprio centro, che tende ad allargarsi sempre di più, a gentrificarsi e ad espellere quel sovrappiù umano che non è né disoccupato né improduttivo, ma semplicemente alle prese con la sopravvivenza, ossia con l’arte dell’arrangiarsi. Questa umanità ‘eccedente’, intercambiabile, lavora duro, ma non guadagna abbastanza. Non è dedita a traffici loschi o a piccole attività criminali, bensì impigliata nell’economia sommersa dei call center, delle consegne a domicilio, delle chat erotiche a un tanto al minuto. Con l’intermittenza di quei salari da fame e con gli orari che essi comportano non si campa, si diventa invisibili.

Se pensate a una riscrittura contemporanea dei Miserabili vi sbagliate di grosso. Cash Carraway non aspira a essere una Jean Valjean dei giorni nostri né si sente una Fantine sbalzata nel nuovo millennio. È perfettamente consapevole che la sua esistenza – assurda ancor prima che sventurata – non si compie ai margini della società, ma ne è il cuore stesso. Non sono forse la precarietà e il costante ricatto economico a far girare la ruota del neoliberismo? Non sono proprio i sempre più numerosi ridondanti a consentire le spericolate ingegnerie sociali del capitalismo che ci ha sbarcati in un pianeta allo sbando? 

Invece di vendere i denti e i capelli per mantenere la propria figlioletta come l’infelice eroina inventata da quel pater familias incallito di Victor Hugo, Carraway mette all’opera la sua intelligenza analitica e la sua capacità di raccontare attraverso la scrittura. Ancor prima del sulfureo prologo di La porca miseria, troviamo una ‘nota dell’autrice’ che recita: «Le parole scritte su queste pagine non sono state pensate per essere lette in silenzio. Quindi per favore, se possibile, leggetele ad alta voce. Preferibilmente a qualcuno che non vuole ascoltarle. Alcuni nomi, luoghi e date sono stati cambiati per proteggere i colpevoli». 

La porca miseria, tradotto con empatico brio da Alberto Prunetti, è esattamente questo: un pugno in faccia a chi vorrebbe porsi davanti ai poveri con quel maternalismo benevolente e compiaciuto tipico di certa borghesia capace di indignarsi, ma non di agire. Quella povertà le garantisce infatti, paradossalmente, proprio il suo status, il suo confort, potremmo dire il panorama che vede dalle sue finestre. Se in teoria l’ingiustizia è lampante, in pratica è meglio che a scuola i propri figli non debbano sedersi nello stesso banco della figlia di Cash. La povertà puzza ed è sgradevole sentirla da vicino. 

Sapientemente aggressiva, grezza, scurrile, acuminata quanto basta per andare dritta al punto, l’autonarrazione di Carraway è «solo uno dei molti e piccoli racconti di com’è davvero la vita nella Gran Bretagna dei nostri giorni. Ci sono milioni di persone come me che sono state ridotte al silenzio, milioni di persone come noi che sono state lasciare a marcire». 

E subito dopo, per impedirci quel rassicurante fremito di commossa identificazione che ristabilisce l’ordine lasciando perfettamente inalterati i rapporti di classe e di potere, l’affondo finale: «Immaginate se riuscissimo a far sentire la nostra voce tutte assieme». Cash Carraway è una killjoy, una guastafeste professionista. Non vuole piacere, preferisce allarmare e se ne fotte di quel che pensano i suoi lettori e le sue lettrici, potenziali privilegiati consumatori di poverty porn, di pornografia della povertà. Il coltello dalla parte del manico ce l’ha lei e sa come usarlo. Alla passività rassegnata di chi è stato reso povero non dal destino, ma da un ben oliato sistema sociale razzista e sessista, contrappone la brutalità di una scrittura che chiama le cose con il loro nome, che non le edulcora e neppure le rende troppo appetibili per la golosità voyeuristica degli acquirenti di libri. 

Ci sono, naturalmente, molti modi di rendere inoffensiva una denuncia, di soffocare un urlo o un’imprecazione. Il più efficace, in questi nostri tempi di pink-white-green-rainbow washing, è commercializzarli, trasformarli in merce di successo. Cash Carraway, che sta alla letteratura britannica di nuova generazione come da alcuni decenni Ken Loach sta al cinema, oggi si direbbe felicemente uscita dallo stato di indigenza. BBC One e HBO le hanno commissionato la sceneggiatura di una serie televisiva intitolata Rain Dogs (piove a catinelle, come nella canzone di Tom Waits), inaugurata il 6 marzo scorso e ispirata alle sue vicende di madre single nell’ex impero al collasso. 

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Fleur Tashjian e Melissa Day Cooper in Rain Dogs.

La si potrebbe considerare una storia a lieto fine, un’eccezione di quelle che suscitano speranza, invidia o incredulità. Qui però c’è qualcosa di più. Carraway continua a vedere le storie della working class britannica senza assumere lo sguardo della middle class. Non si considera un underdog, bensì una che ha il vantaggio di conoscere di prima mano la realtà e di saperla raccontare senza usare «un accettabile linguaggio di classe media». Già, perché «avere un tono linguistico ben educato è la prima strategia di difesa dei privilegiati, una tecnica di successo per ridurre al silenzio le voci degli oppressi quando cominciano a farsi sentire».

E sapete, lettrici, qual è il colmo in quest’epoca di pruderie non solo lessicale? «Un gruppo di donne ha provato esplicitamente a far cancellare il contratto editoriale del mio libro.» Troppo volgare, a loro dire, troppo bulla e polemica, la voce dell’autrice. 

Poiché mi pare non ci sia saggio accademico che parli di classe/sesso/razza – alias intersezionalità – con altrettanta incontrovertibile chiarezza, lascio dunque a lei la chiusa di questo mio pezzo: 

«So che la mia voce è sgraziata, che le mie parole formano una rete contorta di verbosità. La mia voce non sembra intelligente e parlo a voce troppo alta.

Sono fatta così.

Quindi me ne fotto. Nessuno mi ha insegnato a parlare per bene, come molte persone vere posso parlare solo nel linguaggio delle mie strade. Ed è stato solo qualche privilegiato a decidere che la politica dovesse essere condotta con una voce diversa dalle nostre. Che snobismo. Che presa in giro. Una strategia volta a tenerci buoni. A farci stare al nostro posto. A farci accettare i contratti a zero ore e la pulizia sociale delle strade di Londra da quelle come noi.

È giusto prendere personalmente parola per denunciare le ingiustizie della società senza proporre una soluzione dei problemi. Le soluzioni saranno il risultato di un lavoro collettivo». 

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