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Duhamel. Un’amicizia e due solitudini

3 Giugno 2025

Fiumi di parole sono stati dedicati alla fine di un amore; molto meno è stato detto e scritto sulla fine di un’amicizia. Come si può narrare quella crepa invisibile che in maniera lenta, ma irreparabile, divide due persone un tempo unite? A differenza dell’amore, l’amicizia non si sgretola con scenate di gelosia o scatti d’ira, né si arrende di fronte all’evidenza di un tradimento, spesso a spegnerla è un procedimento lento, impercettibile, uno scarto comunicativo che infine deflagra nell’assenza o nella mancanza di fiducia. C’è un momento in cui il volto dell’altro ci diventa inconoscibile, nonostante la lunga frequentazione e l’abitudine. È una sensazione insidiosa che non si può spiegare, ma solo raccontare nella sua indecifrabilità, appartiene quindi di diritto alla materia letteraria.

Georges Duhamel ne ha fatto il fulcro narrativo di Due uomini (Deux hommes, nell’originale), il secondo libro del ciclo di «La vita e le avventure di Salavin», pubblicato dall’editore Mercure de France nel 1924, ora per la prima volta in Italia grazie alla riscoperta di Ago Edizioni nell’accurata traduzione di Caterina Miracle Bragantini.

Dopo Confessione di mezzanotte (Ago Edizioni, 2023), il lettore torna a imbattersi nel personaggio di Louis Salavin, tipico «uomo senza qualità» appartenente al ceto impiegatizio di inizio Novecento, colui che incarna perfettamente la figura dell’inetto poi consacrata da Svevo con Zeno Cosini e infine assolutizzata da Camus con la parabola esistenziale di Meursault in Lo straniero (1942).

Stavolta, però, Salavin appare in secondo piano, poiché un altro personaggio gli ruba la scena: è Édouard Loisel, un brillante chimico industriale di trent’anni, all’apice della carriera e nel pieno della sfolgorante maturità, un uomo che «non desidera nulla, perché sa che avrà tutto». Édouard ha le guance rotonde, piene, generose; ama la buona tavola, una boccata di pipa e il suo lavoro. Si muove con agio nel mondo e tra le strade di Parigi.  La sua felicità è assoluta, governata dalla «buona tecnica» di gesti ripetitivi, abitudinari, soddisfatti e da un vivere onesto; nulla pare offuscarla. Sembra essere l’esatto opposto di Salavin, che invece aderisce al canone moderno dell’anti-eroe: non bello, non audace, pieno di paure, nevrosi e angosce esistenziali. Eppure sarà proprio l’incontro tra Édouard Loisel e Louis Salavin a far decollare la trama del romanzo, nonostante Due uomini inizi come una storia d’amore inattesa: l’incontro tra un uomo e una donna in una fredda sera di dicembre a Place du Panthéon. L’uomo è proprio Édouard che viene baciato all’improvviso da Clementine, una giovane donna che sembra conoscerlo bene, nonostante lui sia convinto di non averla mai vista prima. Anche questo secondo romanzo di Duhamel si apre all’insegna dell’assurdo, come era accaduto per Confessione di mezzanotte. In quel primo libro era il “tocco dell’orecchio” a dare avvio alla storia: Louis Salavin carezzava l’orecchio del proprio capo, il signor Sureau – un gesto inspiegabile, che provoca il licenziamento immediato dell’uomo – ecco l’anomalia che metteva in crisi l’ordine sociale prestabilito e spalancava l’abisso della soggettività. In Due uomini invece assistiamo a una messa in scena diversa, ma ugualmente sconcertante: come nel primo capitolo della storia di Salavin il lettore non ha neppure il tempo di domandarsi «ma che diamine sta succedendo?» che già tutto è accaduto. La vita sembra sopraffare l’individuo, addirittura anticiparne le scelte. Un uomo e una donna si incontrano: lui non la conosce, ma lei lo chiama per nome e lo bacia sulla bocca. Ben contento di quella seduzione senza sforzi l’uomo non oppone resistenza e trascorre la notte con la sconosciuta; nel giro di poche pagine li ritroviamo sposati, sono passati cinque anni da quell’incontro e i due hanno pure una bambina, la piccola Zize, ma non parlano mai della strana maniera in cui tutto ha avuto inizio.

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Non è questa però la nostra storia, l’incontro propizio si svolge infatti nell’arco di poche pagine, l’evento che davvero sconvolge l’esistenza tranquilla di Édouard Loisel deve ancora avvenire e non ha nulla a che fare con la sua placida routine matrimoniale. Un giorno, nel corso della sua solita pausa pranzo con gli amici al Petit-Passe-Temps, Édouard nota un uomo dagli occhiali di metallo che se ne sta da solo, in disparte, e ha un’aria misteriosa. Lo sconosciuto attrae a tal punto la sua attenzione che, poco tempo dopo, Loisel deciderà di sedersi al suo tavolo, abbandonando la consueta combriccola.

L’universo narrativo di Duhamel è governato dal caso; fa capolino il concetto filosofico di «assurdo» che avrebbe trovato in seguito il proprio più valido esponente in Albert Camus e in Il Mito di Sisifo (1942), di cui Georges Duhamel si fa segreto anticipatore.

La prima voce narrante della storia è la voce del vento, ciò che getta scompiglio, che è di per sé ingovernabile, l’incarnazione astratta del destino.  Si insinua tra le cose come una presenza viva, scardina ogni ordine precario e agisce di propria volontà «Cosa fare? Cosa rovesciare? Cosa distruggere?». La personificazione del vento è una strategia narrativa da non sottovalutare. Facendo dell’astratto per eccellenza un personaggio a sé stante Duhamel, di fatto, sta dando voce all’essenza stessa della sua opera: la casualità e il nonsense che governano la vita, distribuendo a caso ingiustizie e favori, gioie e dolori, gratificazioni e pene. La bipartizione qui si incarna nelle esistenze speculari di due uomini: l’una benedetta dal destino, l’altra sventurata.

La voce capricciosa del vento tornerà nel finale della storia, quando un nuovo «inverno precoce, fangoso, sfigurava Parigi»: una sorta di chiusura ad anello, che infine riporta tutto al punto di partenza. Nel mezzo, però, è avvenuto l’incontro decisivo, ciò che crea lo scarto definitivo tra il principio e la fine, tutto ritorna uguale eppure ogni cosa è mutata.

Quell’uomo con gli occhiali di metallo seduto al Petit-Passe-Temps è Louis Salavin. Sappiamo dal romanzo precedente, Confessione di mezzanotte, che avrebbe voluto studiare chimica e non l’ha fatto, che è un uomo irrisolto, inquieto, tormentato: la sua interiorità è stata già ampiamente analizzata da Duhamel ma ora, in questo nuovo libro, assume una prospettiva ribaltata. A Salavin viene posto di fronte un uomo che è il suo opposto e il suo specchio, perché incarna tutto ciò che lui vorrebbe essere e non è. 

Édouard, incuriosito dalla sua presenza, gli rivolge la parola e tra i due uomini si instaura presto una sorta di simbiosi, nonostante le differenze personali e caratteriali: si avvicinano sempre di più e continuano a cercarsi in un bizzarro girotondo che sconvolge le vite di entrambi. Il lettore assiste agli albori dell’amicizia, che sorge come un’alba miracolosa accompagnata dalle incredibili affinità, dai riti, dai giuramenti pronunciati con solenne pudore «quando saremo due vecchi rinsecchiti e ci ricorderemo insieme». Seduti al tavolo di una brasserie, oppure camminando per le strade di una Parigi popolare i due amici si raccontano a vicenda le vecchie vite e scoprono nascere un’ammirazione reciproca. Diventano inseparabili, sembra che non si divideranno mai.

«Passavano lì, ogni giorno, un’ora benedetta che avevano l’impressione di strappare a tutte le tirannie cospiratrici: quella, feroce, del denaro e quella, carezzevole e sovrana, del focolare».

L’idillio, però, da subito è increspato da differenze inconciliabili: la prima è quella di classe, che viene ben messa in luce quando Édouard e Clementine fanno visita a Salavin, che vive con la moglie Marguerite, il figlioletto Pierre e l’anziana madre in un angusto appartamento di rue de Pot-de-Fer. «La casa di Salavin era vecchia e consumata» e la minuziosa descrizione della dimora dai muri scrostati, smussati e dagli interni ombrosi e rumorosi già introduce il disagio interiore di Louis Salavin, la tensione nevrotica che attraversa il personaggio, che qui si traduce nel desiderio di fare un’ottima impressione all’amico e nella certezza, indicibile, di non essere abbastanza. La dicotomia tra i due uomini – da cui il titolo del libro – è evidente, eppure passa in secondo piano a causa della grande fratellanza che li unisce. Édouard farà di tutto per aiutare Louis: gli troverà un nuovo lavoro, pagherà le cure del figlio malato, lo coprirà di doni e omaggi, ma tutto questo anziché avvicinare i due amici e rinsaldare il loro legame creerà, pian piano, una crepa insanabile.

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Georges Duhamel, 1930.

Le esistenze dei due scorrono parallele su due binari differenti: Édouard ottiene una promozione e fa il salto di carriera; mentre Louis è sempre più insoddisfatto della propria banale mansione impiegatizia; il primo ha una bambina in perfetta salute, mentre al piccolo Pierre viene diagnosticata una grave malattia. Le traversie esistenziali si riflettono sull’umore dei due: alla felicità inoppugnabile di Édouard, appagato dalla propria vita, si oppone il malessere di Louis che, infine, esploderà nel rinnegamento dell’amicizia. Lo sgretolarsi del rapporto viene ben descritto da Duhamel anche attraverso un uso sapiente degli aggettivi: il quartiere in cui vive Salavin ha «tetti miserabili» e persino il malanno che affligge il piccolo Pierre ha un costo: «sono malattie dei ricchi». Non si parla mai di gelosie, di invidie recondite o manifeste, ma l’insoddisfazione si fa strada nel rapporto tra i due amici generando nel tempo silenzi gravi e incolmabili. La scrittura minuziosa di Duhamel mostra la crepa dell’incomunicabilità che si fa strada, la perdita dell’oasi felice dell’intesa, la sensazione progressiva di naufragio. Louis Salavin, l’eroe grigio della storia, è il personaggio più interessante perché incarna una precisa condizione esistenziale: è un infelice, ma è un uomo non passivo. Pur nelle sue nevrosi Salavin si ribella alla propria condizione, compie delle scelte impulsive e anche rovinose e, infine, mostra un rigurgito d’orgoglio che può apparire come mancata riconoscenza nei confronti dell’amico, ma è proprio ciò che lo rende umano. La sua reazione, forse cattiva, forse sbagliata, paradossalmente ce lo fa sentire vicino; in fondo non ha bisogno di molte spiegazioni, poiché si spiega da sé, motivo per cui Duhamel pone il personaggio in secondo piano e decide di continuare a narrare di Édouard Loisel, la cui vita serena è improvvisamente insidiata da un dolore mai provato prima. Qualcosa, infine, ha scalfito la felicità assoluta di Loisel. È questo ciò che accade nei rapporti umani: più grande è la vicinanza maggiore è la ferita e ogni legame comporta un rischio, è la regola implicita, non scritta, che solo la grande letteratura riesce a rendere manifesta. Due uomini si annuncia come la storia di un’amicizia, ma paradossalmente si rivela essere la storia di due individualità distinte – e di due solitudini.

La scrittura di Georges Duhamel traduce narrativamente la frattura insanabile del Novecento: la morte di Dio, la scoperta dell’Io e della psicanalisi, l’alienazione dell’individuo. Il senso di precarietà, di attesa e di morte – figlio dell’epoca tra le due guerre mondiali – abita queste pagine, rendendo vano ogni possibile lieto fine.

Vincitore del Premio Goncourt nel 1918 con Civilisation, Duhamel apparteneva alla folta schiera di scrittori-medici che decisero di lavorare come volontari al fronte e, infine, abbandonarono il bisturi per impugnare la penna e vivisezionare non il corpo, ma l’animo umano. Il nome di Duhamel a metà Novecento godeva di una certa fama, che non sembrava destinata a tramontare né a spegnersi nell’oblio. A lui si ispirarono autori come Albert Camus e Jean-Paul Sartre: oggi pochi lo ricordano, specialmente fuori dai confini francesi, la recente riscoperta di Ago Edizioni fa ritornare nelle librerie italiane un classico letterario.

Leggendo Due uomini si percepiscono le tensioni inconciliabili che attraversarono il «Secolo breve» e, di riflesso, alimentarono la narrativa di un’intera generazione di scrittori: la scena in cui Édouard Loisel si guarda allo specchio ricorda Uno nessuno e centomila di Pirandello, che sarebbe stato pubblicato nel 1926; le conversazioni esistenziali tra Édouard e Louis richiamano quelle tra Vladimiro ed Estragone in Aspettando Godot di Samuel Beckett (1952); la figura dell’antieroe Salavin, il suo agire contro la morale, si inserisce nella tradizione aperta da La coscienza di Zeno di Italo Svevo (1923). Vibra poi nelle pagine il concetto di assurdo di Camus che alcuni anni dopo avrebbe trovato la propria manifestazione letteraria nella vicenda di Lo straniero e la sensazione di perenne attesa della «vera vita», in bilico tra l’Essere e il Nulla, il disorientamento dell’individuo, concetto chiave di La nausea di Sartre (1938). Era già tutto contenuto, in nuce, nella scrittura di Georges Duhamel e nei chiaroscuri abissali dei suoi personaggi, il che fa riflettere su quanto ogni forma letteraria sia, in fondo, figlia di un’epoca e prodotto di un comune sentire.

Vecchie foto in bianco e nero mostrano il volto di Duhamel, facendolo risorgere dall’oblio: appare un uomo di mezza età, affetto da una calvizie incipiente, sul naso un paio di occhiali metallici dalla montatura tonda – sembra quasi aderire alla descrizione fisica di Salavin.

Ma la verità, o meglio ciò che la letteratura insegna, è che esiste un Louis Salavin nel profondo di ognuno di noi: lì dove si agitano i nostri dubbi, le nostre inquietudini, le nostre mancanze, solo che non osiamo confessarlo.

Due uomini è dedicato a Luc Durtain, scrittore e giornalista francese, che fu amico di Duhamel, entrambi facevano parte del gruppo letterario Abbaye de Créteil fondato da Charles Vildrac. Inutile tuttavia affannarsi sulle biografie, rintracciare indizi e similitudini, quanto c’è di vero in questa storia non è dato saperlo e, forse, non ci importa, perché il compito della letteratura è sublimare le esistenze individuali e trasfigurarle in qualcosa di migliore e meno fallibile dell’umano. Dunque, come finisce un’amicizia?

Perché tutto è stato detto, o nulla è stato detto; perché in fondo ogni uomo è in bilico sul precipizio della propria solitudine.

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