Le alchimie quotidiane di Louise Nevelson
In una serie di foto scattate da Ugo Mulas nel 1965 e conservate negli archivi dello Smithsonian Institution si vedono alcuni ambienti casalinghi di Louise Nevelson. Al loro interno la stessa Nevelson, la sua assistente, una scatola di vernici spray, un paio di gatti e soprattutto casse, casse ripiene di pezzi di legno che occupano i muri e i pavimenti.
Solitaria, sacerdotessa, strega: insieme alla fama internazionale Louise Nevelson attira su di sé un filone di attributi che la dipingono come un’eccentrica collezionista, impegnata a montare ossessivamente i suoi legni. È così che la presenta un servizio su Life del 1958 e Nevelson sta al gioco, facendosi fotografare con un cappello a punta di quelli da fattucchiera, mentre una luce verde e diffusa le illumina il volto e le mani. Nell’articolo si parla di un “mondo lunare”, della “tana” di una maga e le foto a corredo stringono l’obiettivo sulle creazioni dell’artista e sui luoghi che occupano, persino una vasca da bagno dismessa, rendendoceli più che mai opprimenti.
Negli scatti di Mulas il “mondo lunare” non è così oscuro e incombente. Le casse di legno sono fotografate con tagli larghi, a volte anche dall’alto, per coglierle mentre occupano il parquet. Nevelson a volte è fotografata al lavoro e ci appare metodica più che strana, preoccupata di ricoprire ognuno dei suoi frammenti con la vernice nera prima di assemblarlo insieme agli altri, oppure di martellare e inchiodare, aiutata dall’assistente. Non ci sono preconcetti nell’obiettivo di Mulas e il senso di quegli ambienti si rivela grandioso e misterioso, ma anche domestico, tanto da farne lo sfondo per alcuni ritratti iconici. Niente più pose da folletto, ma la fierezza di un’artista ormai affermata.

La mostra allestita nelle sale di Palazzo Fava a Bologna (Louise Nevelson, a cura di Ilaria Bernardi, promossa dall’Associazione Genesi in collaborazione con la Fondazione Marconi di Milano, fino al 20 luglio) si concentra sulla produzione matura dell’artista, quella che a partire dalla metà degli anni Cinquanta propone montaggi spesso parietali di grandi dimensioni, realizzati con materiali lignei di recupero. Nel farlo, si interroga proprio sulla doppia condizione di donna e di sciamana, o, meglio ancora, di alchimista con cui la critica tende da sempre a inquadrare (e a limitare) Nevelson.
Nel saggio per una monografia del 1973, Germano Celant scrive che il lavoro di Nevelson è “femminile e ‘femminista’”. Nata a Kiev nel 1899 (il suo nome originario è Lija Isaakivna Berljavs’ka), l’artista si trasferisce da bambina negli Stati Uniti al seguito dei genitori, sposando nel 1920 Charles Nevelson, un industriale facoltoso, da cui si separa una decina di anni dopo. Secondo Celant, la strada che Louise Nevelson percorre per realizzare un’arte “femminile” parte dal suo forte desiderio di autodeterminarsi in quanto donna. Lo conferma Nevelson stessa, per esempio quando ripensa al matrimonio da cui s’è liberata descrivendolo come un “rapporto tra padrone e schiavo”, un’istituzione gerarchica che lei vede, lucidamente, come uno dei modi possibili per limitare la sua voce. “Ero così timida che non riuscivo ad aprire bocca”, dice in un testo dell’inverno 1972-1973, “e penso che il ruolo che la società crea per le donne ne sia responsabile”. Le scelte di natura personale, anche sofferte, che la portano in Germania a frequentare le lezioni di Hans Hoffman e che la fanno diventare assistente personale di Diego Rivera in Messico e negli Stati Uniti sono vissute come la condizione necessaria per la sua affermazione. Senza di esse, probabilmente, non le sarebbe possibile farsi conoscere come una donna artista, cosa che pure riesce difficile per l’ostilità di molti critici e giornalisti maschi, pronti in più occasioni ad affermare di aspettarsi un uomo, dietro ai suoi lavori.
Eppure, insistere su questi aspetti comporta sempre un rischio che la studiosa statunitense Anne Wagner riassume nell’“effetto Frida Kahlo”, cioè il considerare l’opera di grandi artiste come Kahlo, Nevelson, Lee Krasner o Eva Hesse soprattutto come il riflesso materiale delle loro biografie. C’è qualcosa di più universale nel femminile artistico di Nevelson.

L’assemblage è il mezzo perfetto per mettere in scena il disordine delle cose, una pratica evocativa dei caotici ritmi di produzione che negli anni Cinquanta stanno attraversando il nostro mondo. Lo sanno bene gli artisti del New Dada statunitense come Robert Rauschenberg, Jasper Johns o John Chamberlain, con i quali Nevelson espone in più occasioni. Ma il suo approccio è diverso da quello dei colleghi. Se Rauschenberg monta insieme copertoni, capre impagliate e altri relitti urbani per la difformità stridente di forme e colori, Nevelson immerge i suoi frammenti in bagni di colore monocromo rendendoli visivamente omogenei, prima soltanto neri, poi anche bianchi oppure oro. Certo, la furia accumulatoria dei New Dada fa pensare facilmente a una forza muscolare e maschile e trova somiglianze anche negli omologhi francesi del Nouveau Réalisme, basta pensare alle Collere di Arman; tuttavia, in modo speculare, il “processo di sacralizzazione femminile del reperto quotidiano” (sempre Celant) con cui si descrive spesso la pratica di Nevelson non ci spiega tutto, o quanto meno non ci spiega perché si tratterebbe di una prassi femminile.

Nel 1963 Renato Barilli parla nel suo caso di un assemblage “squisito”, termine che va preso nel senso letterale di “ricercato”, scelto con cura, per un criterio di vicinanza tra elementi che sentono “di appartenere a una stessa famiglia”. Più che santificare il reperto quotidiano le potenti scansie di Nevelson vogliono raccontarcene lo stupore e il mistero, quasi fossero delle nuove Wunderkammern, le “camere delle meraviglie” che tra il Cinquecento e il Settecento raccolgono le curiosità naturali e artificiali e ne fanno un primo esempio di museo. Sui loro ripiani i visitatori costruivano corrispondenze personali, curiose, persino cosmologiche tra gli elementi, a seconda del loro sguardo o del gusto del collezionista.
Camere, dunque. Stanze piene di casse ripiene a loro volta di arnesi, in una continua caccia al tesoro dello sguardo che, va detto, la mostra bolognese non riesce a rendere in pieno, forse per un allestimento eccessivamente diradato e composto. Però le opere, quasi tutte provenienti dalla Fondazione Marconi (nel 1973 l’allora Studio Marconi è sede di una grande mostra personale), sono ammalianti. È facile immergersi in esse, cercare un criterio ordinatore tra i pomelli o gli schienali e raccontarsi le piccole storie favolose da cui potrebbero arrivare. Quella di Nevelson ci appare sì un’immensa stanza personale, una “stanza tutta per sé”, per dirla con Virginia Woolf; ma è una stanza che mette a disposizione a chiunque voglia farne esperienza, senza considerarla quel luogo di ritiro e isolamento in cui molti la identificano.

Forse per cogliere l’aspetto più femminile dei montaggi di Nevelson bisogna ascoltare la sua stessa voce. In un’intervista rilasciata a Dorothy Gees Seckler tra il 1964 e il 1965, Nevelson dice di non aver mai voluto fare scultura, anzi, di non aver voluto “fare” proprio nulla se non offrire a tutti la possibilità di vedere le cose come le vede lei, perché tutte le cose sono meravigliose se le guardi in un certo modo (“all things are wonderful if you see them that way”). Sempre Nevelson, in un’altra occasione, dice che le sembra di lavorare in maniera femminile rispetto ai canoni di un tipo di impegno maschile, troppo dedito all’abilità e alla tecnica: questo suo modo paziente e compilatorio, scrive, è come un lavoro di tessitura. Viene alla mente un libro di Adriana Cavarero (Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica) in cui la filosofa interpreta il racconto omerico della tela di Penelope come un sottrarsi al tempo dominato dagli uomini, una creazione di uno spazio altro in cui non domina il desiderio divoratore delle conquiste belliche, ma l’incanto sospeso del presente con le sue storie.
Questo ci porta al secondo carattere ricorrente nelle descrizioni di Louise Nevelson, l’aspetto sciamanico o alchemico, testimoniato anche dalla mostra bolognese. Sebbene la critica più informata e l’artista stessa autorizzino a trovare nel nero, nel bianco e nell’oro un preciso riferimento ai processi alchemici (nigredo, albedo e citrinitas), il rischio di trovare “naturale” la presunta attitudine femminile verso le energie primordiali è sempre presente. Forse vale la pena farsi guidare anche in questo caso dalle parole di Nevelson, che in più occasioni insiste sull’importanza dell’ombra nei suoi lavori. Siano le grandi installazioni nere oppure quelle dorate come The Golden Pearl (1962), l’ombra ha un ruolo fondamentale. Nevelson la definisce la “quarta dimensione” delle sue opere perché riesce a unire le dimensioni dello spazio e del tempo: scava nelle nicchie, impedisce al nostro occhio di decifrare con precisione cosa ci sia al loro interno, allude a chissà quali profondità misteriose e intanto anima quei piccoli spazi scorrendo tra un frammento e un altro, consentendoci di osservarli come uno spettacolo teatrale o come la rievocazione di un passato indecifrabile. Anche nel caso di opere come City Series (1974), in cui le nicchie dipinte di nero si fanno piccole e modulari come la topografia di una città, l’ombra dona un ritmo, ci fa percepire il vuoto degli spazi alveolari privi di altri elementi, ce ne consegna una specie di attesa.

L’alchimia di Louise Nevelson, se così la vogliamo chiamare, è un’alchimia quotidiana. Non perché non ci riservi stupore, ma perché non ha bisogno di particolari formule magiche ed è terrena e rituale come la vita di tutti i giorni. Non c’è alcuna trasformazione della materia verso una crescente purificazione, verso uno stadio avanzato che comporti un livello superiore di coscienza. Per Nevelson la piena realizzazione della coscienza è stare nella consistenza banale delle cose e percepire la vita e il mistero intorno a esse. Le diverse coperture monocromatiche, per quanto allusive alla tradizione alchemica, hanno tutto sommato la stessa finalità, quella di trasformare il nostro sguardo, restituendocelo capace di vedere con occhi nuovi gli oggetti e il catalogo incantato delle loro forme.

Louise Nevelson, a cura di Ilaria Bernardi, promossa e prodotta dall’Associazione Genesi in collaborazione con la Fondazione Marconi di Milano, con il contributo di Heritage e Fondazione Pirelli, Bologna, Palazzo Fava, fino al 20 luglio.
In copertina, Louise Nevelson, The Golden Pearl, 1962 (part.), legno dipinto di oro / wood painted gold, 176.1 x 97.4 x 23.6 cm. Ph.: © Fabio Mantegna. Courtesy Gió Marconi, Milano.
