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Percival Everett: Huckleberry all’inferno

29 Giugno 2025

In Telefono (La Nave di Teseo, 2021) Zach Wells gioca a scacchi con la moglie e le dice che “può capitare a chiunque di lasciarsi sfuggire qualcosa. Prendi me per esempio. Uso questa nescienza come tattica”. E lei: “Cosa diavolo sarebbe la nescienza?”. Wells, che pure è un accademico, non dà spiegazione e si limita a una vaghezza. Si capisce allora che per Percival Everett è una parola chiave. Che torna due anni dopo in Gli alberi quando lo scrittore americano di colore scrive di Money, nel Mississippi, teatro nel 1955 del linciaggio di un afroamericano quattordicenne: una città “battezzata secondo quella persistente tradizione ironica del Sud e la connessa tradizione di nescienza”.

Per indicare la contrarietà della coscienza storica americana a conoscere la realtà quanto alla questione razziale, Everett trova un termine che comprende due accezioni: tattica e ironia, doti necessarie quando ci si lascia sfuggire qualcosa o si vuole ignorarne la portata. Quello che fa da sempre la nesciente America bianca, che sa ma mostra di non sapere.

A ben vedere, l’intera opera di Everett è rivolta alla denuncia di tale condizione generale di nescienza, vista tatticamente e ironicamente nella prospettiva di un rovesciamento di identità o di deliberato gioco delle parti. Il rifiuto di conoscere, elemento base dell’atteggiamento razzista, si traduce entro la dottrina di Everett in un “occidentalismo” per cui sono i neri a tentare di farsi conoscere nella veste più gradita ai bianchi anziché nella propria.

Si prenda Cancellazione (Nutrimenti, 2007), titolo valso all’autore californiano l’Oscar 2024 per la migliore sceneggiatura non originale nel film opportunamente intitolato American Fiction: lo scrittore nero Thelonious Ellison pubblica romanzi senza successo perché ritenuti non autentici, troppo colti, il pubblico aspettandosi da un autore nero come lui storie di degrado, violenza e povertà, finché non ne scrive per rabbia uno che raccoglie i più diffusi e radicati stereotipi della condizione nera. Il libro ha uno strepitoso successo rendendo Ellison ricco e facendo parlare di “nuovo grande romanzo afroamericano”. Everett propugna dunque l’idea dominante della cultura nera intesa a dare ai bianchi quanto si aspettano così da avere riconosciuto uno spazio di libertà e di convivenza, sia pure contro la verità delle cose.

E se in Gli alberi la “cancellazione” dell’identità nera mutua quella della memoria storica, motivo per cui uomini bianchi coinvolti in remoti linciaggi vengono trovati uccisi per volontà non di serial killer ma di una Nemesi vendicatrice e giustiziera decisa ad affermare il principio che i mali del passato non possono non condizionare il presente e coonestare la nescienza, in Telefono la ricerca della verità sullo stato di pericolo della figlia di Wells conduce a una impasse data dalla molteplicità di finali aperti e inconclusi che Everett ha voluto per ogni edizione, un’altra forma di tralignamento della nescienza e della retorica dell’inconsapevolezza.

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Ma è in James (La Nave di Teseo, 2024, traduzione di Andrea Silvestri; Premio Pulitzer 2025 e altri riconoscimenti) che il teorema di Everett si raccomanda ai più vertiginosi postulati. Negli anni precedenti alla Guerra di Secessione (che abolisce lo schiavismo ma non il razzismo) Jim è uno schiavo sui generis, perché capace di leggere e scrivere, qualità da nascondere assolutamente ai bianchi dal momento che, come scrive egli stesso da io narrante, “i bianchi devono sentirsi superiori perché i neri non soffrano”. Il principio integra in sostanza un’opzione di sopravvivenza data dall’equazione “Tanto meglio i bianchi si sentono, tanto più i neri siamo al sicuro”.

Per guadagnare questo stato di sicurezza occorre ai neri acquisire una spiccata proprietà di linguaggio, ragione per cui Lizzie, la figlia di Jim, va a scuola di dizione dove impara il gergo, a parlare cioè con la scorrettezza di parola che consente ai bianchi di identificare senza equivoci e turbamenti una persona di colore. “Tali lezioni” scrive Jim “erano indispensabili. Per muoversi nel mondo senza correre troppi rischi era necessaria la padronanza di linguaggio”. Ovvero parlare dicendo “sì badrone”, “ossignore, me non gapire”.

Sicché quando Jim inavvertitamente si esprime nella migliore lingua, quella propria dei bianchi, il compagnetto di avventura Huck, suo padroncino, si sorprende al punto da non riconoscerlo. E ancora di più Huck si meraviglia vedendolo impadronirsi di libri trovati su una barca, giacché anche per lui la normalità è data da Miss Watson che, chiedendo a Jim se sia entrato nella biblioteca del giudice Thatcher e sentendosi obiettare cosa mai possa farsene un negro di un libro, sorride di compiacimento al mantenimento dell’ordine del mondo. “La vita era sempre più facile” riflette Jim “se i bianchi potevano ridere ogni tanto di un povero schiavo”. Il segreto è insomma apparire all’occhio sociale e ai timorati di Dio nei modi in cui una signora perbene vede Jim guardandolo da vicino: “Sono come delle scimmiette, non è vero?”.

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Una questione di tattica in contraggenio: se, per convenienza e determinazione a tenere immutabile lo status quo, i bianchi ignorano i neri disconoscendone non la natura ma la statura umana, i neri sono costretti per opportunità a rassicurarli esperendo un code-switching che permetta loro di adattarsi camaleonticamente a ogni circostanza. Di questo mezzo di vita Jim fa un modello di condotta quando a Huck, dopo avergli rivelato di esserne il padre, dice – a una sua prima domanda se è un negro e a una seconda se è uno schiavo – che può essere quello che vuole.

“Chi se ne frega di quello che la legge dice che sei?” gli obietta in un passaggio decisivo del romanzo, appellandosi a una chimerica legge egualitaria di natura e intendendo decostruire la morale corrente che vuole nero chi ha anche una sola goccia di sangue negro. Huck è somaticamente bianco ma biologicamente nero perché generato da un nero. Rientra tra i soggetti che legalmente possono fare “passing” e vivere da bianco libero. Chi invece come Jim, che sogna addirittura Locke e Voltaire con i quali dialoga di filosofia, ha la pelle nera o marrone (come Everett) deve rimanere schiavo e negro, tanto da dover ammettere fuggendo da solo verso il Nord: “Senza un bianco a rivendicarmi come sua proprietà, la mia presenza non era giustificata e forse nemmeno la mia esistenza”.

Secondo la legge è schiavo chi nasce da una schiava, ma Everett non rivela né il colore della pelle della madre né il suo stato civile, limitandosi capziosamente a far sapere che Jim l’ha conosciuta già da bambino. Una soluzione che è tipica nell’autore amante della poliedricità e che spinge a considerare l’ipotesi davvero irreale e paradossale, ma epifanica e dirompente, di una love story tra uno schiavo nero e una donna bianca.

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Per rappresentare questa congerie di tensioni Everett ripesca dalla storia di metà Ottocento i “Virginia Minstrels”, gruppo di musicisti itineranti bianchi guidati da Daniel Decatur Emmett (personaggio storico che nel romanzo prima è un bianco tollerante capace di dire a un negro “Mi dispiace” e poi uno spietato cacciatore di fuggiaschi, quando viene economicamente danneggiato) che si esibivano dipingendosi di nero per apparire negri e cantare così canzoni afroamericane. Essendo un provetto tenore Jim viene scritturato per due anni, passando da una schiavitù all’altra e subendo per dippiù il ludibrio di ogni platea sganasciante alla messa in ridicolo della condizione nera più umiliante ma la più genuina e identitaria. Della compagnia di giro fa parte anche Norman, che come Huck sembra bianco ma in realtà è nero. Lui e gli altri girovaghi sono preziosi a Everett per teorizzare come non conti la legge, ognuno potendo apparire quello che vuole essere, ma per dimostrare anche quanto non cambi nei fatti la realtà nera.

James (per qualche incomprensibile ragione diviso in parti, pur mancando ogni soluzione di continuità tematica e cronologica) è considerato una virtuosistica riscrittura di Le avventure di Huckleberry Finn di Mark Twain, senonché è più precisamente un remake retto sul proposito di ricomporre gli equilibri sociali perlomeno Usa su una linea di avanzamento che proponga alla riflessione comune la questione razziale come tema di un anacronismo storico e di un assurdo legale, qual è la vicenda di Jim e Huck. In Twain il mondo non può cambiare da com’è, in Everett invece è già successo, bastando il fatto che non è Huckleberry a narrare ma Jim, dalla cui prospettiva, inconcepibile per Twain, viene offerta la visione delle cose. Ed è una prospettiva rivoluzionaria.

James, come alla fine lo schiavo pretende di essere chiamato dopo aver sobillato gli schiavi di una piantagione e assunto la qualità di camusiano “uomo in rivolta”, è nello stesso tempo Thelonious "Monk" Ellison di Cancellazione, Zach Wells di Telefono, uno dei due detective neri di Gli alberi, nonché lo stesso Percival Everett, docente come i primi due e trasposizione di un’istanza di riscatto che però non si libera di un fondo di risentimento che ristagna in ogni suo romanzo.

Everett rifà Twain e come lui guarda a Cervantes. Al pari di Huckleberry Finn, anche James tradisce un registro picaresco dato dai passaggi da un’avventura odeporica a un’altra, tutte vissute senza che si intreccino legami tra di esse lungo le sponde del Mississippi che divide gli Stati schiavisti da quelli liberi. Ma mentre Twain nel suo capolavoro cita doverosamente il Don Chisciotte, Everett non meno cervantino profonde ringraziamenti direttamente a Twain per “il suo senso dell’umorismo”. Che in lui però diventa ironia, preterizione, antifrasi amara facendo di James il romanzo più satirico del suo repertorio. Romanzo non per ragazzi ma di ragazzi è Huckleberry Finn, storia di adulti coscienti diventa invece James, il cui finale finalmente concluso suona come viatico alla libertà.

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Ma perché Everett ha portato Le avventure di Huckleberry Finn nella sua officina smontandolo e rimontandolo, anziché darci un Jim dei nostri giorni alle prese con quelle ingiustizie e discriminazioni tutt’altro che risolte in centoquarant’anni? Pur avendone riprodotti quasi tutti gli episodi e i personaggi – dalla casa alla deriva sull’acqua, al serpente a sonagli, a Jackson Island, a Huck travestito da ragazza, al battello con i banditi, al padre col vaiolo fino alle figure del duca di Bridgewater e del Delfino figlio di Luigi XVI, due autentici pendagli da forca, e ancora a Miss Watson, a zia Polly e zia Sally, al giudice Thatcher, ma rivedendone qui e là le vicende e gli epiloghi – Everett ricrea un modello nuovo del prototipo fondativo della letteratura americana, lodatissimo da Hemingway, Scott Fitzgerald e Roberto Bolaño, che con 2666 si creò, come Everett di Gli alberi, un’ossessione per le donne misteriosamente scomparse a Ciudad Juárez. Più che una riproposizione in forma di tributo, James è una solenne sconfessione del capolavoro twainiano.

Il Jim decisamente tonto di Twain, secondo il cliché storico, mette in capo a Huckleberry Finn il grave dilemma se rischia di finire all’infermo aiutando a scappare un negro che è proprietà di persone che non gli hanno fatto niente di male. Dopo una suggestiva macerazione d’animo Huck decide per l’inferno e insieme con Tom Sawyer fa fuggire lo schiavo che, nei preparativi della “evasione”, come la chiama Tom stregato dai libri di appendice, diventa oggetto di continue vessazioni da parte dei due teppistelli dal cuore buono ma dalla fantasia accesissima, ancor più perché consumate per gioco. L’umiliazione è tale da fare apparire Jim un autentico babbeo, incapace anche di rendersi conto di essere turlupinato.

Everett non ci sta. Non può accettare che si perpetui il giudizio di Hemingway secondo il quale “tutta la letteratura americana moderna viene da un solo libro di Mark Twain intitolato Huckleberry Finn”, perciò toglie la penna a Huck per darla a Jim e arriva a concepire l’indicibile: fare di Huckleberry un negro figlio di un negro che l’ha avuto da una bianca. Rivelatrici sono le ultimissime parole, piuttosto enigmatiche, dei Ringraziamenti rivolte a Twain: “In paradiso per il clima; all’inferno per l’attesissimo pranzo con Mark Twain”. Il messaggio è chiaro: da un lato Everett rende ogni merito a Twain di cui riconosce il genio, mandandolo perciò in paradiso per il clima appunto letterario che è stato capace di creare; da un altro gli dà appuntamento nell’Aldilà per confrontarsi magari a pranzo sulle opposte tesi di cui sono portatori e che designano due volti dell’America. All’inferno of course, perché è lì che Huckle decide di andare volendo liberare Jim.

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