Fotografia cosmica

30 Luglio 2022

Mi capita ogni tanto di sognare il cielo stellato di quella sera d’estate alla duna di Pilat, dalle parti di Arcachon, in Gironda. Avevo poco più di vent’anni, tornavamo da Lisbona (via Madrid e Bilbao) con una Opel Corsa diesel e una serie di rocambolesche avventure che non ho ancora raccontato ai miei figli. Il cielo era ovunque, le luci della città lontane, la luna nell’altro emisfero, la notte così scura e la duna così inerpicata nel vuoto e in bilico sul mare invisibile che mi sembrò di essere un astronauta alla deriva nel cosmo e di poter ritrovare finalmente il pianeta del piccolo principe. Fu il giorno in cui [ri]uscii a riveder le stelle (a che tante facelle?) e scoprii il cielo (stellato sopra di me ecc.): una tempesta di diamanti stellari sulla scia lattiginosa della galassia. 

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Ho cercato di nuovo negli anni uno stupore così nitido – su una vetta alpina, su una spiaggia atlantica, nel mezzo di un deserto americano –, ma pare che debba tornare alla duna, o accontentarmi dell’immagine che viene a visitarmi in sogno. Quella sera non feci alcuna fotografia, non avrei avuto gli obiettivi, la pellicola, le montature, la capacità, un motivo per fare dell’astrofotografia. Ciò che resta di quella visione è solo una rappresentazione mentale, il riflesso cognitivo e mnestico dell’immagine retinica che si era impressionata nei mei occhi e nel cuore (con tutto il suo portato affettivo) e che non trovò mai un suo medium, non divenne cioè mai picture – per usare la classica distinzione di W.J.T. Mitchell («Picture è un oggetto materiale, qualcosa che si può bruciare o rompere. Image è ciò che appare in una picture, ciò che sopravvive alla sua distruzione, nella memoria, nella narrativa, in copie e tracce preservate negli altri media»).

Qualche notte fa ho sognato di nuovo quel mio cielo stellato. Ma c’era qualcosa di diverso, nella definizione dell’immagine onirica, nel colore, nella sua qualità. Solo la sera prima (il 12 luglio) guardando il telegiornale avevo appreso della presentazione al pubblico, da parte del presidente USA Joe Biden in un’apposita cerimonia alla Casa Bianca, delle prime fotografie cosmiche scattate dal telescopio James Webb, ora in funzione dopo decenni di preparativi. Dotato di una tecnologia a infrarossi di gran lunga più potente di quella, basata sulla luce visibile, del telescopio Hubble, Webb regalerà alla scienza e al pubblico informazioni e immagini sinora impensabili – e lo ha già fatto –, lanciando una nuova era di studi sulla struttura dell’Universo, l’origine delle galassie più antiche, la formazione di stelle, pianeti e sistemi planetari, fino a che non staneremo gli alieni o troveremo una Terra 2 su cui traslocare quando questa sarà da buttar via. Di recente Hubble ci aveva mostrato per la prima volta un buco nero, dimostrandone l’esistenza e soprattutto aggiungendo una picture oggettiva a quelle (per la verità molto più) spettacolari che il cinema ci ha già offerto grazie alla sua immaginazione, ai suoi effetti speciali e alla sua collaborazione con gli astrofisici. Ora Webb proverà a colmare il divario tra la realtà e la finzione. Lo ha già fatto con l’immagine mentale del mio sogno, evidentemente re-immaginata per l’influenza di un’ennesima clamorosa tappa del percorso di espansione tecno-umana del Visibile.

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La prima fotografia di Webb è un “campo profondo” di Smacs J0723, nella costellazione australe del Pesce Volante (come si può non pensare di nuovo al piccolo principe di Saint-Exupéry e all’asteroide B-612 da cui proviene?), dove si trova un ammasso di galassie, rivelate grazie alla capacità del telescopio a infrarossi di trasformare il calore in immagine sensibile. Oltre a Smacs J0723 Webb ha già mostrato le scogliere e le cime cosmiche della Nebulosa Carina, la bolla di gas in espansione della Nebulosa Anello Meridionale, il Quintetto delle galassie di Stephan. Osservandole, si nota il valore anzitutto estetico di queste immagini, tanto sembrano realizzate da un artista visionario, al contempo iperrealista e surrealista. Il contenuto ci incuriosisce, ma il cromatismo, le forme, il contrasto fra il buio profondo e le luci sgargianti ci rapiscono e trasportano in scenari fantascientifici. Non studiamo il cosmo, ma l’immagine del cosmo. E l’immagine non è un agglomerato grezzo di dati, ma una sua configurazione visiva irriducibile alle informazioni discrete che contiene.

Ciò è persino più vero per le immagini a campo profondo che Webb è in grado di produrre, immagini in cui un visibile supplementare emerge dalla captazione del calore, cioè da un’estensione termosensibile del medium che le produce. Patrick Maynard ha definito le tecnologie «estensori o amplificatori del nostro potere di fare le cose», come vedere e immaginare. Le immagini sono una forma mediale di conoscenza del mondo, non il suo calco fedele. Soprattutto con l’immagine tecnica, prodotta da una tecnologia ottica (dalla fotografia a Webb), non solo vediamo l’image contenuta in una picture, ma anche «una magnificazione percettiva della realtà trasformata in rappresentazione» (Parisi).

Questa immagine, dotata di una sua ontologia, è il frutto di una automatizzazione (è prodotta da un meccanismo, non dalla mano umana) e dall’automizzazione (il distacco totale dal referente) (Costa). Basta chiedersi: chi ha scattato le astrofotografie? Per quanto il nuovo telescopio abbia un nome umano (James Webb fu il secondo direttore della NASA, ai tempi delle missioni Apollo), le immagini che produce sono prive di un soggetto che le ha desiderate, composte, prodotte. O forse è un iper-soggetto: la collettività umana? le agenzie spaziali che hanno contribuito a idearlo e realizzarlo? un dispositivo ottico dotato di una propria intelligenza e intenzionalità?

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Le chiamiamo immagini dello Spazio, ma sono immagini del Tempo. La visione al telescopio o lo sguardo nudo verso il cielo stellato offrono immagini al presente di un tempo passato, anche fino a 13 miliardi di anni fa. Lo sguardo verso il cosmo è sempre un viaggio delle origini verso di noi a 300.000 chilometri al secondo, un paradosso temporale che rende attuali momenti più o meno remoti della storia dell’Universo, in base alla distanza e all’età di ogni stella (che potrebbe persino già non esserci più, nel remoto presente della sua esistenza). Fissando la luce in una picture, l’astrofotografia ferma il tempo (anzi i tempi, uno per ogni stella), e lo contiene appiattendolo in un presente duraturo: un è stato che però è i-stante, perché non fa che fissare un continuare ad essere, ed è “instante” – sta sopra di noi. Ma una volta noi umanisti dovremmo metterci a capire meglio le teorie della relatività, cioè quanto le nostre percezioni dipendano dal sistema di riferimento in cui esse avvengono.

Il paradosso cronotopologico di un’astrofotografia non riguarda solo la sua capacità di fermare la velocità della luce e farla durare per un istante, riaffermando la fenomenologia umana della nostra percezione cosmica (Einstein può aspettare). È anche, sempre, una questione di scala, di proporzioni. Perché quelle immagini dell’Infinito non sono più grandi del display del nostro smartphone, del monitor del nostro computer, dello schermo del nostro televisore. Come l’insondabile diventa sensibile, così l’infinitamente grande diventa piccolo: teniamo l’Universo in mano, letteralmente. E cioè lo rendiamo dominabile, razionalizzabile, comprensibile, per sentirci meno pulviscolari e insignificanti nell’immensità dello spazio e del tempo. La pretesa umana di rappresentare l’Universo attraverso un’immagine, prim’ancora che scientifica è antropofotografica, una riduzione alla scala umana di una vastità incomprendibile.

Nell’età dell’Imagocene e della Tecnocene (quali derive del più vasto Antropocene), le immagini tecniche – de-soggettivate, a-temporali, spazialmente relative – ci rassicurano o ci turbano? Quelle dello spazio profondo che il telescopio Webb ha cominciato a inviarci sembrano assolvere ossimoricamente entrambe le funzioni: nello spingersi ancora più a fondo nella profondità del cielo ci offrono la contemplazione del Sublime (etimologicamente: sotto la soglia più alta, poco sotto l’instante). Siamo rapiti dalla meraviglia della Natura e sottoposti alla sua minaccia. Speriamo, kantianamente, di rendercene conto prima che le stelle sopra di noi ci cadano addosso.

Riferimenti bibliografici

W.J.T. Mitchell, Pictorial Turn. Saggi di cultura visuale, nuova edizione, Raffaello Cortina, 2017.

Patrick Maynard, The Engine of Visualization: Thinking through Photography, Cornell University Press, Ithaca 1997.

Francesco Parisi, La tecnologia che siamo, Codice, Torino 2019.

Mario Costa, Della fotografia senza soggetto. Per una teoria dell’oggetto estetico tecnologico, Costa & Nolan, Milano 2008.

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