un libro di Matteo Meschiari / Geopatia del tempo ultimo

29 Ottobre 2021

Rientro nella pizzeria dove ho acquistato due tranci di pizza e due Coca Cola, per me e per il mio amico. Al momento dell’acquisto avevo già rifiutato i bicchieri di plastica dicendo che avremmo bevuto direttamente dalle bottigliette. Dopo aver mangiato mi propongo di restituire le bottigliette. La reazione è di fastidio. Le cestini là fuori mi viene detto, là dove c'è il bidone del vetro. Chiedo se non sia previsto di restituirle per renderle al fornitore. La risposta è no, tanto vengono riciclate. Mi ritrovo così a fare un'ingenua e incompetente riflessione ad alta voce con il cassiere. Ma non si farebbe prima a restituirle in modo che lavandole possano riutilizzarle? Con ancora più fastidio di prima il ragazzo mi dice che non ha tempo da perdere. Allora mi impunto e gli dico che per riciclarle e fare delle nuove bottigliette, sarà necessario fondere il vetro. In questo modo si consumerà energia, acqua e altre componenti, come ad esempio la vernice per imprimere il marchio. La sa lunga lei mi dice il ragazzo, si vede che non ha niente da fare, e respinge le bottigliette che raccolgo e, rassegnato, le depongo nel bidone stracolmo. Fare senza pensare è il monito, perché pensare è perdere tempo. Riflettere e pensare sono, in fondo, le cose più difficili per homo sapiens, forse perché sono recenti nella nostra storia evolutiva di infanti simbolici.

Parecchi anni fa, prima di vincere il premio Nobel per l’economia, ai tempi in cui lo avevamo frequentato, Thomas Schelling ha pubblicato un libro con cui ha offerto una prima analisi dei cosiddetti “tipping”, cioè di quei processi comunicativi di influenza che sono in grado di produrre “snowball effect”, processi a valanga in termini di circolazione di significati e di comportamenti. Nelle situazioni sociali quei processi coinvolgono un numero sempre più esteso di persone [Micromotives and Macrobehavior, W. W. Norton. & Company, New York and London, 1978]. 

 

Recentemente una disciplina che va sotto il nome di memetica si occupa dei sistemi di influenza che creano aree condivise di significato, studiando come funzionano e come si produce la loro efficacia. Cercare di comprendere come decisioni e azioni piccole e apparentemente insignificanti da parte di individui, spesso portano a significative ed estese conseguenze indesiderate per grandi gruppi è una questione più importante che mai. Schelling, ad esempio, mostra come una preferenza lieve ma non maligna per avere vicini dello stesso colore della pelle o della stessa etnia porti a popolazioni intere completamente segregate. La rilevanza della combinazione tra motivazioni, comportamenti individuali e conseguenze di larga scala, impreviste e indesiderate ha molto a che fare col cercare di comprendere come si sia prodotta e si stia progressivamente riproducendo ed estendendo la crisi di vivibilità, oggi, con le sue determinanti che si chiamano crisi climatica, distruzione delle risorse vitali, utilizzo dei beni della Terra senza preoccuparsi della loro riproducibilità. In una parola come si sia prodotta l’insostenibilità dell’attuale modello di sviluppo e delle nostre forme di vita, con le conseguenze fatte di ingiustizia sociale, di disuguaglianza, di emarginazione, di negazione di diritti, di morte. 

La lettera con cui inizia il libro di Matteo Meschiari, Geografie del collasso. L’Antropocene in 9 parole chiave, [Piano B Edizioni, 2021], oltre a raggiungere un vertice lirico e commovente, come spesso nella scrittura dell’autore, merita di essere riportata per intero.

 

 

Lucia, Claudio, nel 2060 io non ci sarò più e voi avrete più o meno l’età che ho adesso. Non ho idea di come sarà il mondo in cui vivrete, ma molti indizi mi dicono che quando guarderete indietro alla vostra infanzia e adolescenza vedrete una parentesi storica così lontana quanto lo sono per me la Rivoluzione Francese o la Grande Guerra, con la differenza che voi, in quel passato remoto, ci avrete vissuto davvero, e tutto vi sembrerà un po’ assurdo. Non so se per voi e i vostri figli sarà facile avere acqua potabile, se dovrete proteggervi da polveri e virus, se potrete fare camminate in montagna e poi fermarvi a mangiare in qualche rifugio, come abbiamo fatto noi. So però che la mia genera- zione e quella dei vostri nonni vi hanno lasciato un mondo di merda, fregandosene praticamente di tutto e di tutti, mentre molti animali che avete visto, molte piante, molti luoghi che ci facevano stare bene non esisteranno più. Non condivido il senso di colpa di chi dice «lo abbiamo distrutto». Io non l’ho distrutto, il pianeta di prima, anche se certo potevo fare meglio di così. Ho fatto invece quello che sapevo fare, cioè usare immagini e parole per dire che stavamo entrando in una nuova fase della Terra e dell’uomo. Avrei voluto allestire per voi una specie di manuale di sopravvivenza, pieno di quello a cui tenevo e anche di quello che immagino oggi che un giorno vi servirà, ma non l’ho fatto. Ho accumulato invece delle istruzioni per l’uso, dei trucchi, delle immagini parlanti, forse perché quel manuale lo dovrete fare voi, visto che ci sarete voi, nel 2060. Qui, come in altri due o tre libri, ho messo solo degli appunti preparatori. 

Spero che vi servano. Buon lavoro. Babbo. 

 

Ci fanno difetto le capacità di comprendere le connessioni tra individuale e globale, tra le scelte del pizzaiolo e quelle delle multinazionali, tra l’essere cittadini e le scelte di governo. Non solo, ma ci fermiamo, anche quando ci poniamo il problema, alla soluzione più vicina e apparente, che si rivela poi fasulla e inefficace. Vediamo, per esempio, una soluzione nell’auto elettrica, ma non consideriamo la produzione dell’energia necessaria e lo smaltimento delle batterie esauste. Ci disponiamo a fare qualcosa, purché tutto rimanga come prima, facendoci vincere ancora una volta dal conformismo e dalla forza dell’abitudine. Lo stesso facciamo quando affidiamo alle soluzioni tecnologiche problemi globali e controversi, trattandoli come se fossero problemi lineari. 

 

La lettera di Meschiari ai figli, a un ascolto più attento, rivela probabilmente qualcosa di più profondo. Non solo lasciamo ai nostri figli un mondo invivibile, almeno secondo i parametri di cui noi abbiamo goduto, ma si avverte una posizione invidiosa e accecante che richiama una elaborazione perversa dell’angoscia di morte. La finitudine, che è, in un mondo da sempre caratterizzato dall’incompletezza e dall’incertezza, l’unica certezza, viene affrontata con una elaborazione invidiosa. Ci disponiamo di fatto a utilizzare tutto fino alla distruzione finché ce n’è e finché ci siamo noi. Non riusciamo a vivere e ad elaborare quell’angoscia con un senso di gratitudine che ci potrebbe, quello sì, far gioire di quello che il mondo ci dona trattandolo con garbo e appropriatezza, sentendo finalmente di farne parte, di essere parte del tutto; riconoscendo che siamo acqua, aria, terra, energia, senza le quali non siamo semplicemente in grado di vivere. 

 

Da sempre Matteo Meschiari riesce ad aprire delle finestre di comprensibilità sfidando e svelando i nostri a priori nascosti, creando eterotopie, inducendoci a guardare con occhi diversi ciò che da sempre abbiamo davanti a noi. Sia dal punto di vista dei linguaggi utilizzati che proponendo in continuazione e per diverse vie la pratica del porsi a distanza, Meschiari ha creato e crea occasioni di riflessione su noi stessi e sui nostri impensati, sull’inaudito e sull’impensabile. Lo aveva fatto recentemente con un piccolo prezioso libretto in cui si era occupato di quelle che lui ha definito le Possitopie, [Antropocene fantastico. Scrivere un altro mondo, uscito per Armillaria nel 2020; cfr. G. Didino, doppiozero, 24-10-2020]. Quel piccolo libro era dedicato a chi vuole capire e fare i conti con lo psico-collasso dell'Antropocene usando l'immaginazione. Il tono di Geografia del collasso presenta non poche diversità rispetto alla scrittura a cui Meschiari ci ha abituati. Un senso di responsabilità e di profonda riflessione attraversa i capitoli e ci pone di fronte a quella che probabilmente è la questione delle questioni, con un costante riferimento a una domanda che riguarda, in fondo, la capacità di Homo sapiens di fare i conti con il problema che egli stesso ha creato. Introdotte da un capitolo che propone un Metodo Antropocene, per sfociare poi in un capitolo conclusivo che descrive Un mondo nuovo, le nove parole chiave per comprendere la nostra condizione sfilano come granelli di un rosario e tagliano come rasoi.

 

 

In primo luogo, si tratterebbe, come metodo, di cambiare cornice. La cornice, si sa, è una cosa seria, agisce come un codice e influenza fino a determinarle le scelte e le azioni, con il rischio di mettere in quella condizione che Heinz von Foerster definiva: “non vedere di non vedere”. Jared Diamond in Collasso (Einaudi, 2005) ci aveva avvisati, scrive Meschiari: “Homo sapiens vede raramente lo tsunami in arrivo, una specie di cortina cognitiva cala sui suoi occhi e lo rende lento, impotente. Esiste una via di uscita? In realtà è sempre esistita: pensare per complessità. Labirinti. Iperoggetti. Big Data. Ma soprattutto attraverso un modello di previsione e gestione del dopo che metta nel giusto equilibrio analisi e immaginazione. Potremmo chiamarlo Metodo Antropocene, un modo di sintonizzarsi sul presente cercando paradigmi percettivi diversi e inventando esercizi cognitivi nuovi, per guardare nella nebbia che viene”. La tensione necessaria ma non garantita e, quindi da conquistarsi con l’azione, riguarda il riconoscimento della condizione presente come esito ed effetto del neoliberismo, da un lato, e la possibilità che l’umanesimo passi attraverso la consapevolezza del collasso e si assuma la responsabilità del cambiamento.

 

Il collasso secondo la prospettiva di Meschiari ha a che fare principalmente con quello che lui chiama il crollo dei saperi. Avvalendosi di importanti riferimenti storici, ma soprattutto di una lunga analisi del presente, l'autore evidenzia nella crisi dell'immaginazione l'effetto più problematico del crollo dei saperi. A determinarsi è un processo di saturazione della capacità immaginativa e, quindi, un ostacolo conformista alla capacità di creare l'inedito, nel momento in cui proprio quell’inedito risulta così indispensabile per affrontare la pervasiva criticità del presente. La pandemia è un evidenziatore delle tracce del collasso che è prima di tutto cognitivo, “basti pensare alla difficoltà che hanno le persone a discernere tra le notizie, a leggere le statistiche, a vietarsi di ripetere formule precotte (…) il collasso non è necessariamente violento, non è solo un evento verticale e catastrofico, una cesura netta con il passato, così come non è un concetto specialistico riservato a una setta di iniziati”.

 

Quello che risulta particolarmente difficile da fare è un esame di realtà che ci aiuti ad evitare la normalizzazione e, quindi, la neutralizzazione del cambiamento totale di condizioni e prospettive che si è prodotto. Ne usciremo verso due possibili direzioni, secondo Meschiari: da un lato con l’affermazione di un’oligarchia di super ricchi che si accaparrano risorse derivanti anche dalle opportunità che la crisi crea per loro e dal corrispondente incremento di forme di schiavitù; dall’altro con lo sviluppo di inedite forme di mutuo appoggio con un certo livello di generatività sociale. A fronte delle responsabilità della filosofia e della scienza che concorrono al disorientamento e al collasso cognitivo, pare oggi indispensabile costruire contronarrazioni a partire da nuove metafore, scelte con grande cura perché siano metafore vive. Una metafora viva è quella del labirinto con tutte le sue implicazioni in grado di mostrare la complessità, l'incertezza e l'inquietudine con cui l'Antropocene si presenta. “Ecco, l’Antropocene è un labirinto a più dimensioni le cui pareti sono membrane vive nello stomaco di un mostro tentacolare e pulsante. E l’attitudine mentale che adottiamo oggi di fronte a questa complessità inarrivabile è nel migliore dei casi quella dell’uso di coppie dialettiche, degli schieramenti politici di pancia, della lettura frettolosa e distratta della cronaca. È chiaro che occorre cambiare paradigma” (p. 25).

La catastrofe deve essere prima di tutto narrata e i frequenti richiami di Meschiari ad Amitav Ghosh riportano all’appello del grande scrittore lanciato da molti anni e poi con un importante libro come La grande cecità [B. Sebaste, doppiozero, 24-5-2017; Ugo Morelli, 25-8-2017]. Ghosh insiste perché i narratori rappresentino nella loro scrittura la condizione umana attuale e la nostra disposizione a non evidenziare la crisi ambientale e climatica nella quale viviamo, pur essendo sull’orlo della catastrofe.   

 

 


Di particolare interesse è l’attenzione che Meschiari riconosce al medium e non solo al messaggio delle narrazioni necessarie per tracciare una rotta, inedita, per dirla con Bruno Latour. La sua proposta è di insistere sul libro, ma un libro particolare, a cui somigliano alcuni dei suoi libri. E lo presenta, il tipo di libro che ha in mente: “Eccolo: in bilico tra mini-incunabolo e mappa igm, tra artigianato sobrio e survival kit, tra epitome di frammenti narratologici e manuale intuitivo di theory fiction, equidistante dal ciclostile come dal libro d’arte. E soprattutto senza editore, senza isbn, senza prezzo. Perché il libro-del-dopo non si vende. Si regala, si scambia, si dimentica sul tavolo di una taverna. La catastrofe è perdere la cura dei dettagli, rinunciare al lato tattile del sapere, barattare il tempo della materia con un tempo completamente smaterializzato. Impugnare un libro contro il collasso è un gesto confuso e oscuro, probabilmente inadeguato, ma un collasso senza libri è la fine”. 

 

Nel cercare di definire le nuove cosmologie dell’Antropocene, Meschiari raggiunge uno degli approfondimenti più interessanti del libro, un efficace esame di realtà, in cui evidenzia come quelle cosmologie oscillino tra un anticapitalismo nichilista e un neoliberismo scientista, tra passione di abolizione e filosofia della gratitudine, tra pulsione di morte e sopravvivenza di una élite. “La fine del mondo, sia essa imminente o dilazionata, catastrofica o punteggiata, evoca un’arena semiotica molto ridotta: il mondo prima di noi, il mondo dopo di noi, il mondo senza di noi, noi prima del mondo, noi dopo il mondo, noi senza il mondo”. Siamo paralizzati dall’incapacità di immaginare il futuro e abbiamo bisogno di utopie concrete e praticabili che la fiction ci può aiutare a trovare. In riferimento a un capolavoro della fiction come Phase IV, Fase quarta: distruzione Terra, Meschiari sostiene che può esservi un effetto specchio grazie al quale capiamo che l’estinzione provocata dagli insetti è metafora del processo distruttivo innescato dall’uomo.

 

 

Però al contrario di quanto avviene “in natura”, gli umani mettono in atto comportamenti collaborativi che raggiungono un livello sistemico che è più stupido (e pericoloso) di quello dei singoli individui. “Questa aurea mediocritas di massa, mai fatalmente intelligente e mai catastroficamente stupida, è quasi ineffabile”. Ciò comporta uno dei rischi più rilevanti: ci stiamo preparando al peggio ma negare il collasso sembra l’unica forma di reazione. Una posizione molto diffusa che in Mente e paesaggio. Una teoria della vivibilità [Bollati Boringhieri, Torino 2011] ho cercato di definire “sindrome del Titanic”. “La stupidità di massa”, scrive Meschiari, “funziona per stigmergia: nessun messaggio veramente intenzionale, nessun coordinamento centrale, nessun complotto biopolitico, ma un mero comportamento collaborativo di sciame, che usa gli stimoli elementari emessi da ogni singolo stupido come mattoni per edificare un unico macromessaggio: «niente paura, è tutto come prima»”. Siamo di fronte alla rinuncia cognitiva e alla fine dell’ottimismo di specie. 

 

Avvicinare la complessità immaginandola, dotandosi di un vero e proprio metodo che consiste nel cercare connessioni possibili tra ordini di fenomeni disparati, vuol dire andare oltre le spontanee connessioni che facciamo nella vita di ogni giorno e sviluppare una disposizione a superare i bias, gli autoinganni, le intuizioni, le percezioni immediate e pratiche con cui normalmente descriviamo il mondo e pensiamo così di conoscerlo. Abbiamo bisogno di sviluppare la capacità di mettere in risonanza luoghi e tempi diversi usando quella che Meschiari chiama una delicata empiria che non è mai fasulla, mai forzata. In questo modo forse riusciremo a considerare l'Antropocene e a immaginarlo come un'epoca di perdita, di specie, di luoghi, di popoli, per la quale stiamo cercando una lingua del lutto e soprattutto, e ancora più difficile da trovare, una lingua della speranza. Avvalendosi di un’ampia letteratura che sostiene il suo ragionamento articolato e complesso, Meschiari si rivolge anche al contributo di A. Appadurai e M. Alexander, Fallimento [Raffaello Cortina Editore, Milano 2020].

 

 

Gli autori si riferiscono alle modalità con cui il capitalismo contemporaneo riesce a configurare sistemi finanziari e tecnologici ad hoc per dare luogo a un apparato interconnesso capace di produrre e naturalizzare il fallimento e, quindi, suscitare l’impressione che la buona riuscita sia sempre merito della tecnologia, delle sue virtù, mentre l'insuccesso è sempre imputabile al cittadino all'investitore all'utente al consumatore. Questa narrazione e l'ethos su cui è basata e che veicola sono profondamente tossici, un’opacità della rappresentazione che nasconde l’illusione artefatta che la scarsità verso cui siamo storicamente avviati sia un ingrediente indispensabile della ripresa. Allenarsi a vedere la complessità è la possibilità che abbiamo per svelare gli inganni contenuti nello schiavismo dell’ignoranza.

Valorizzando il lavoro di Paul Shepard e collegandolo a quello di Ghosh, Meschiari si concentra sul derangement della nostra specie, su quella specie di follia o di squilibrio mentale che ci porta a negare continuamente l’evidenza e a perseverare in comportamenti che aggravano la crisi in atto, anziché cercare di contenerla. “Non si tratta solo di gestire il rischio, l’emergenza, la catastrofe nelle loro declinazioni materiali, ma bisogna fronteggiare il trauma, perché sono i crolli interiori la vera entropia che genera il collasso di un’epoca”, scrive Meschiari. Il trauma che stiamo vivendo ha almeno due facce: una comprende il collasso economico e la crisi dei saperi, l’altro, forse più grave, ha a che fare con la non immaginabilità del futuro.

 

Mentre reagiamo, anche in base all’allargarsi vertiginoso della forbice della disuguaglianza, con l’indifferenza dei più e l’attivazione di strategie di sopravvivenza dei pochi che compongono l’élite, un’immaginazione radicale e spregiudicata è l’unica via possibile per agire. Secondo Meschiari le responsabilità della situazione in cui siamo sono chiare. È necessario allora: “Coltivare un immaginario fuori da quello mainstream, sviluppare un corpus di immagini in cui si cerca di far leva su un sistema di corrispondenze tra terre, bestie e umani, esercitarsi all’invenzione di soluzioni creative, è un modo molto concreto per offrire da subito un’alternativa ai pensieri dell’esclusione, del razzismo, del populismo, del nazionalismo, della sopraffazione”. Le tecniche arcaiche dell’immaginario possono essere di aiuto e di riferimento per elaborare prospettive alternative al presente. È il perenne addomesticamento del perturbante che rappresenta uno dei caratteri più problematici del nostro modo di costruire il nostro mondo e i nostri orientamenti. L’attenzione ai processi coevolutivi può aiutarci a comprendere come siamo divenuti i padroni distruttivi del pianeta. Coevoluzione genetica, coevoluzione culturale, coevoluzione cognitiva. In che modo queste informazioni tra evoluzionismo, etnografia ed etologia ci offrono degli indizi per leggere il lavorio dell’Antropocene sul nostro immaginario?

 

Questa domanda di Meschiari contiene una delle chiavi per comprendere l’Antropocene e la sua definizione non ammette incertezze: “L’Antropocene è una lama affilata, penetrante, conficcata a fondo nella spina dorsale della civiltà contemporanea. Per il momento stiamo vivendo lo shock della sorpresa, poi ci sarà lo shock da dolore, infine, se non sarà troppo tardi, cominceremo a reagire”. L’ecologia della coevoluzione deve reintegrare nel nostro orizzonte cognitivo, politico, tecnico e culturale – come già era in passato – tutte le forme di vita e di non-vita non-umane, sostituendo il sistema di predazione neolitico con forme prosociali radicalmente inclusive, un mutuo appoggio tra minerali, piante, animali e umani per rigenerare la Terra. Una scuola per allenare l’immaginario e un libro a più mani gettato verso il futuro possono aiutarci in quel compito immane di costruirci il mondo di domani.

 

Una responsabilità del possibile, quella che auspica e indica Meschiari. Una responsabilità che esige la ridefinizione del concetto stesso di eredità. L’eredità, più che qualcosa che si riceve è una consegna fatta a noi da chi ci precede, che dovrebbe orientare le nostre azioni verso chi viene dopo di noi. Chi si è impegnato intensamente a favorire l’evoluzione della comprensione del paesaggio dalla mera contemplazione, all’esperienza degli spazi di vita e alla responsabilità della loro vivibilità, oggi si trova a mostrare il limite e la disperata speranza di azioni responsabili, mostrando l’evidenza delle trasformazioni irreversibili e della loro incidenza nelle nostre vite e nel sistema vivente di cui siamo parte. Strano destino: dalla contemplazione, alla constatazione, alla disperazione. Senza nessuna certezza che basti a cambiare idee e comportamenti. Ad affrontare i temi cruciali e inquietanti di cui si occupa Meschiari, infatti, si sa, si incorre in almeno due rischi: da un lato l’effetto Cassandra e dall’altro l’effetto compassion fade. Nel primo caso il rischio che le persone si girino dall'altra parte come effetto di quello che si chiama rischio superegoico, quel rischio che interviene a negare quanto è evidente pur di salvaguardare la presunta continuità e integrità del proprio punto di vista e del proprio modo di agire. Nel secondo la dissolvenza della spinta emozionale che deriva dalla constatazione di problemi innegabili, alla quale si reagisce però con una elaborazione particolare della consapevolezza che ne fa l'inizio dell’oblio e della rimozione. Eppure, a noi umani non è dato che tentare.  

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