I brand e l’italiano

13 Febbraio 2011

Le lamentazioni circa la mala sorte della lingua italiana all’estero sono note. Tutte corrette: l’idioma che fu di Dante e Petrarca, Ariosto e Leopardi non se lo fila più nessuno. E la responsabilità è tanto per cambiare della politica, che fa molto poco per diffonderne l’interesse oltre i confini nazionali, tagliando fondi su fondi alle istituzioni che dovrebbero occuparsene come la Società Dante Alighieri e gli Istituti italiani di cultura. La dis-unità d’Italia s’accentua così: non solo perché il principale collante interno al Paese, appunto la lingua, così difficilmente conquistata dopo il Risorgimento, si disfa e progressivamente si perde; ma anche perché il principale strumento d’identità nazionale all’estero, appunto la lingua, si disfa e progressivamente si perde. Da cui il solito: che fare? Proviamo a rispondere con una riflessione abbastanza ovvia e con la classica modesta proposta.

La riflessione innanzitutto. A chi interessa la nostra lingua oltre i confini nazionali? Chi potrebbe avere interesse a conoscerla, cioè a parlarla e capirla? Lasciando perdere la letteratura, che è altra storia, sono tre le aree possibili. La prima è quella degli emigrati, che con la lingua del Paese che hanno lasciato conservano il classico rapporto d’odio-amore. C’è chi la detesta perché per imparare la lingua del nuovo Paese ha dovuto forzosamente dimenticarla. E c’è chi invece la mantiene, o crede di farlo, facendo di fatto ricorso a strane forme di creolizzazione fra dialetto di cinquant’anni fa e codice d’arrivo. Il bello viene quando costoro tornano per le ferie d’agosto nelle terre di partenza, e scoprono che non li capisce più nessuno. È evidente che da queste persone possiamo aspettarci ben poco per il rafforzamento dell’idioma nazionale. Più interessanti invece le altre due aree, cioè la cucina (che ha permesso la diffusione di lessici minimi – pizza, pasta, panini – oramai di dominio planetario) e soprattutto l’opera lirica (la cui diffusione nei teatri di mezzo mondo ha fatto sì che ancor oggi pietosi insegnanti d’italiano impartiscano lezioni agli aspiranti professionisti del bel canto).
Nient’altro? A ben vedere c’è un ricco, ampio settore per cui l’Italia – ma non l’italiano – è conosciuta e apprezzata all’estero: mi riferisco ovviamente al famigerato made in Italy. Ed ecco allora la modesta proposta. Da anni stuoli di politici, amministratori, opinionisti, strateghi e markettari vari ci spiegano che le casse dello Stato sono vuote e che occorre rivolgersi alla cosiddetta iniziativa privata. Ossia ai soliti noti cartelli che gestiscono l’economia nazionale. Perché allora non unire le due cose, e provare a usare la fama internazionale dei moltissimi brand italiani (nel campo del design e della moda, dell’automobilismo e del calcio) per diffondere l’uso della lingua italiana? Perché non usare Armani, Gucci o Versace, Ferrari o Pininfarina e simili per veicolare i nostri beneamati codici espressivi oltre i confini sempre più ristretti della nostra area di comunicazione familiare?
I brand, come è poco noto, non basano le loro fortune solo sull’economia e sul marketing, come ingenuamente si crede, ma anche e soprattutto sull’immaginario, sulle dicerie, sui discorsi e i valori sociali, insomma su quell’elemento tanto sfuggente quanto potente che è il cool. Non a caso ci sono i cool hunter ma anche i cool maker. Ecco, il lavoro da fare per aiutare la lingua italiana potrebbe essere molto semplice (a dirsi, e anche a realizzarsi): l’italiano deve diventare cool così come i brand nazionali che incassano in mezzo mondo, o forse in tutto, fiori di quattrini unicamente perché lo sono. Così come una marca qualsiasi riesce un giorno a essere cool nel mondo, senza alcuna ragione funzionale riguardante i suoi prodotti, analogamente potrebbe diventarlo l’italiano. Ve li immaginate i commessi strafighi degli stores di Dolce a Gabbana che a Tokio, Dubai, Rio de Janeiro, Chicago, Londra, Parigi, New York, Malindi, Mosca, Cape Town di colpo iniziano ad accogliere i clienti in pura, sola, unica lingua italiana? Basterebbe qualcosa di molto semplice come un “buon giorno signora, desidera? come posso aiutarla? vuol vedere gli ultimi capi della nostra collezione?”. Chi ha detto che questi giovanotti rigorosamente vestiti di nero e alti non meno di un metro e novanta, di tutti i sessi possibili, debbano per forza parlare l’inglese nelle capitali mondiali dove la moda italiana si vende come il pane? Risposta banale: perché altrimenti non sarebbero capiti e la clientela scapperebbe via presso i negozi di Hugo Boss o Chanel. Sì, forse all’inizio accadrebbe questo. Ma poi, superati i primi ostacoli, ecco per miracolo la tendenza opposta. L’essere cool va conquistato, sudato, vantato proprio perché è ottenuto con un po’ di fatica. Come imparare una lingua quel tanto che basta per capire e farsi capire in casi di bisogno. Bisogno come per esempio desiderare assolutamente l’ultima creazione dello stilista che amiamo tanto. Il cool fa tendenza perché crea comunità di consumatori, comunità che per definizione mettono in comune escludendo chi non riesce a farne parte.
Insomma, possiamo giurarci: dopo un po’ accadrebbe il prodigio, e l’italiano sarebbe cool. Con frotte di signore e signori arabi, giapponesi, americani, australiani che si precipitano presso le società Dante Alighieri di tutto il mondo per frequentare assolutamente il primo corso di italiano disponibile.
Vogliamo l’iniziativa privata? Le mettiamo in mano le nostre sorti magnifiche e progressive? Allora abbassiamo per un periodo di prova le tasse a quei brand nazionali che impongono ai loro commessi di parlare un corretto italiano in tutti i loro negozi, che stampano in italiano i loro cataloghi, che fanno pubblicità in italiano, e via dicendo. Ci scommetto che qualcosa accadrebbe. E sarebbe meno monotono che continuare a piangere per la decadenza dell’umanità.
 

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